Con un ritmo rapido ma sostenuto l’apertura delle porte conduceva in Paradiso i presenti. Non l’effettivo Regno dei Cieli, s’intende, luogo posto all’altro lato del sottile velo che divide l’esperienza quotidiana dalla trascendenza spirituale al termine dell’Esistenza. Bensì uno stato di venerazione intrinseco, l’accettazione di un compito supremo ed il conseguente sviluppo di un secondo stato della consapevolezza umana. Questo l’obiettivo desiderato, fin dall’alba dei tempi, nella costruzione o allestimento di un luogo dedicato alla pratica di un culto, sia esso di un tipo dedicato all’Unico o i suoi plurimi, tanto spesso contrapposti predecessori dell’Era Pagana. Lo stesso perseguito con rinomato e celebrato successo presso il luogo di sepoltura di San Giacomo Apostolo, il cui corpo fu portato in Galizia ad alcuni discepoli su una barca di pietra successivamente al martirio nel I secolo a Gerusalemme. Lì, dove tanto a lungo aveva predicato il Cristianesimo e nel nono secolo, per una verità miracolosamente rivelata, il sovrano Alfonso II diede ordine che fosse costruita una gloriosa cattedrale. Allestita ancora in seguito ai saccheggi subìti, a guisa di una delle più vaste case del Signore che il mondo avesse mai visto, per volere del suo successore del dodicesimo secolo, Alfonso IX di León. Ma così come l’arco, la colonna e la cupola venivano mutati per costoro dall’architettura del Mondo Antico, elementi più strettamente interconnessi alla ritualità condotta in altri spazi continuavano a venire implementati nella principale religione monoteista dell’Europa Medievale, incluso il ruolo fondamentale del cosiddetto θύμιᾰμα (thýmia̱ma) l’offerta odorosa o profumo sacro tanto spesso rappresentato, fin dall’inizio dei commerci con il Mondo Arabo millenni prima della nascita di Cristo, dalla resina di particolari alberi, preventivamente essiccata e trasformata in grani, polveri o pezzi pronti da bruciare assieme alla carbonella. Un’etimologia fruttuosa che potremmo ricondurre in modo pressoché diretto al thuribŭlum introdotto con alta probabilità dai sacerdoti dediti al rito Romano, un particolare tipo di pentola dallo sviluppo verticale, collegata a delle catenelle onde facilitarne l’oscillazione manualmente indotta e conseguente diffusione dei vapori odorosi. Qualcosa di effettivamente funzionale all’obiettivo di partenza ma non sempre egualmente risolutivo, nella maniera chiaramente annotata nel Codex Calixtinus del 1173 d.C, vasto repertorio di ben 5 libri sulle pratiche dogmatiche connesse al culto compostelano. Dove si trova il primo riferimento alla metodologia attentamente perfezionata del Botafumeiro, che potremmo definire estremamente conduttiva alla creazione di un ambiente conduttivo alla fondamentale percezione del Sacro. Lo spettacolare e reiterato passaggio nell’altissima navata di un oggetto volante metallico del peso di 80 Kg, alla velocità massima di 60 Km orari…
incenso
Il dolce profumo di un villaggio dell’incenso vietnamita
Molto probabilmente l’impressione viene dal cappello: lo stereotipato copricapo conico, da sempre visto in Occidente come parte dell’abbigliamento degli agricoltori tra i confini delle vaste terre all’altro capo dell’Asia. Detto ciò, è innegabile che questa immagine possa creare un senso di entusiastica perplessità: “Rosso? Non sapevo che lo fosse! Ma si tratta di una pianta? Piccoli cespugli? Che genere d’incenso è questo?” Quel tipo di domande sul tema dell’ovvietà per rispondere alle quali tanto spesso Internet risulta sorprendentemente inefficace. Poiché nessuno appare pronto, o in qualsivoglia incline, a dissolvere il carattere di una leggenda. Come quella, riassunta in poche inquadrature, del villaggio Quang Phu Cau nei dintorni meridionali di Hanoi, forse le capitali mondiali del tipo di essenza utilizzata in molte religioni, come ausilio al gesto estremamente umano della preghiera. Quell’incenso cui in Europa normalmente siamo inclini ad associare, più di ogni altra possibile cosa, la resina sottoposta a lavorazione dell’albero del genere Boswellia, chiamato fin dai tempi antichi olibanum, comunemente detto franchincenso. Laddove vuole il caso, e l’evidenza, che nei molti secoli di storia e soprattutto all’altro capo del mondo, molti siano gli estratti ed i sistemi usati per raggiungere lo stesso fine, soprattutto tra quelli considerati fondamentali dall’omni-pervasiva medicina cinese: legno di sandalo, aloe, rabarbaro officinale, linfa dell’albero della gomma Styrax, ambra fossile e Syzygium aromatico, albero sempreverde dell’Indonesia. Molti dei quali pronti a convergere, grazie a una rete commerciale antica quanto la penisola dei draghi, presso questo luogo antistante alla sua capitale. Ove il sistema produttivo utilizzato, semplice quanto efficiente, vede la riduzione in polvere ed il successivo impasto degli ingredienti profumati e pronti da bruciare, successivamente plasmati nella forma di specifici elementi: cubi, piccole piramidi o coni arrotolati, ma soprattutto quella maggiormente pratica per le abitudini buddhiste, il bastoncino ligneo per la preghiera. Ed ecco così svelato, l’arcano. La fabbricante dell’immagine mostrata in apertura, chinata e all’opera nel mezzo di tanti surreali piccoli “cespugli” è in realtà intenta a rassettare, e catalogare attentamente, un vasto numero di asticelle di bambù, colorate tradizionalmente di rosso prima di essere disposte in tale modo affinché i raggi del sole possano raggiungerle tutte assieme, favorendone la seccatura e il conseguente completamento del processo di fabbricazione. Per occasioni particolari, come la celebrazione del capodanno lunare o specifiche feste di primavera, ma anche durante il resto dell’anno, a valido supporto di uno dei materiali considerati irrinunciabili per qualsivoglia attività votiva locale di svariate provenienze religiose, inclusa la preghiera o celebrazione degli antenati, divinità locali ed ovviamente il Buddha stesso, non tanto per l’ottenimento di favori mistici quanto al fine di riuscire a favorire quello stato d’animo che ci dovrebbe far sentire più vicino a lui. Ed appare del resto innegabile come la realizzazione di un compito tanto elevato, per quanto semplice e ripetitivo, non possa che finire per conformarsi nettamente verso quell’ideale di armonia e precisione che tanto spesso, idealmente, dovrebbe condurre verso il singolo momento d’illuminazione tanto ricercato dai filosofi delle discipline Zen. Verso cui persino una semplice foto, talvolta, può riuscire a far da chiave dell’alto portone…

