La strana storia delle api ritrovate dentro i capitelli della cattedrale del Canale

“Quello che a Roma non fecero i barbari, lo fecero i Barberini” non è un semplice modo di dire affisso sulla statua “parlante” di Pasquino, bensì l’osservazione per lo più oggettiva che riflette l’operato di quei nobili venuti da Firenze, per fare fortuna e infine trovare il proprio spazio nel fondamento stesso dell’istituzione papale. Un trono ingioiellato che nell’epoca Barocca era sinonimo di quasi onnipotenza, nella redistribuzione dei materiali e le risorse cittadine. Cose come i marmi dell’anfiteatro Flavio, più comunemente noto con il nome di Colosseo, che notoriamente venne utilizzato da Urbano VIII come cava per dar luce all’infinita gloria di quel cognome. Scelto ad arte, perché nessuno avrebbe mai voluto che i parenti del 235° Vicario di Cristo continuassero a farsi chiamare Tafani. E fu quella l’origine del problema: poiché centinaia, se non migliaia di stemmi dovettero essere revisionati, per mostrare un trio di nobili api al posto della mosca cavallina. A meglio simboleggiare un “encomiabile” intento d’unione tra la chiesa e l’operosità della natura.
Circa quattro secoli dopo il 266° portatore di quel particolare cappello, l’attuale Jorge M. Bergoglio /alias Franciscus I, si sarebbe ritrovato a sua totale insaputa un giorno a dire messa nello stesso continente che gli aveva dato i natali. Sotto i segni residui di una versione alternativa, eppure stranamente congeniale, dell’antico emblema. Inizia dunque la vicenda relativa alla sua visita del 2018 alla città di Panama ed all’imponente edificio al centro del suo culto, lungamente abbandonato fino al tempo della sua venuta a discapito del nome altisonante di Catedral Basílica Santa María la Antigua de Panamá… Fatta eccezione per il popolo di una nutrita pletora di piccole, ronzanti creature. “Scoperte come queste, non ce ne sono state molte nel corso della storia della Cristianità. In effetti, forse, nessuna!” Qualcosa di simile deve aver pensato la museologa Wendy Tribaldos, impegnata all’epoca con la Dalmática Conservaçao e Restauro, alla progressiva presa di coscienza di quanto i suoi stessi occhi stavano vedendo tra i fregi ornamentali del reredos, la pala d’altare monumentale dell’edificio. Dove tra i fini capitelli ricoperti di foglia d’oro, strane forme convesse di un’indisputabile complessità inerente sembravano essere state incluse alquanto intenzionalmente nella struttura di base. Finché non fu evidente, ad uno sguardo approfondito, che dovesse trattarsi dell’opera di un qualche tipo d’insetto… Tra i presenti, quasi subito, venne suggerita l’ipotesi falena. Quindi che potessero essere dei nidi di calabroni. Finché alla stessa Tribaldos non venne in mente, per sua e nostra fortuna, di portare le silenti vestigia presso un centro di ricerca della celebre istituzione museale statunitense, lo Smithsonian…

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L’azzurro approdo di un milione di velieri viventi

“Tra tutte le cose che mi aspettavo di vedere oggi…” Pensò il dogsitter veterano di San Diego, il tiro della propria biga inesistente intento ad agitarsi e suddividersi in più parti: “…Non c’era questo. Non so neanche cosa sia, ma sono sicuro che non c’era!” Così scrutò intento l’orizzonte, l’infrangersi ritmato delle onde contro il bagnasciuga, dove il paesaggio iniziava ad assumere una tinta particolarmente insolita ed affascinante. Come il cielo e come… Il mare stesso, di un dipinto cromaticamente privo di difetti, in cui l’autore avesse scelto d’accentuare il senso della primavera, inalienabile momento di passaggio verso la sovrascrittura di un registro del cambiamento. “Fermo, aspetta, non tirare!” Inveì quindi all’indirizzo del grosso maremmano di proprietà di una star del cinema minore, entrato di recente a far parte della sua piccola comitiva canina. Ma era già troppo tardi e come il capo di un tiro da slitta, Edmonton si era tirato dietro un paio di pastori tedeschi, il retriever della signora in fondo alla strada, un barboncino bianco e l’entusiastico beagle di suo cognato. Il corso degli eventi, a questo punto, non poteva essere cambiato. “Sputalo IMMEDIATAMENTE!” Ma l’espressione di Edmonton, per chi capiva il comportamento dei cani, era inequivocabile. Il dischetto azzurro che spuntava sotto le sue labbra pallide appariva come un pasticcino del demonio. Niente a questo punto avrebbe potuto impedirgli di trangugiare l’insolita… Creatura? Il dog-sitter veterano pensò a questo punto che il suo fato era segnato. O l’oggetto molto meno che identificato era velenoso, oppure si trattava di una mera vittima di sfortunate circostanze. Un piccolo pesce metaforico nell’inquieto barile del Fato. E fu allora che il pesante maremmano, diventando all’improvviso immobile, aprì la bocca piena di saliva e cominciò a parlare.
“Salve, umano. Il mio/nostro nome è ZXFJFM=EZXF, ma puoi chiamarmi/ci Marinaio per-il-vento, come fanno un po’ tutti da queste parti. Ho/abbiamo preso temporaneamente il controllo di questo quadrupede peloso per poter narrare la mia/nostra storia. Ma non temere. Presto restituirò la semplice, entusiastica mente al legittimo possessore. Considera inoltre che in questo frangente stai parlando con l’interezza di una singola unità-colonia indipendente, nella grande galassia di entità del Pacifico Settentrionale categorizzata in senso tassonomico come Velella velella. Ma per semplicità useremo il pronome plurale della vostra limitata lingua di superficie. Quattro o cinque anni a questa parte, la medusa fondatrice di questa coscienza ritenne di essersi formata un’impressione sufficiente della sua vita solitaria nella grande pozza salmastra, iniziando a chiamare a se i membri collaterali dell’oceano indiviso. Così nostri fratelli e sorelli, parte dell’incontenibile grande flusso della vita e della morte, scelsero di unirsi assieme in questo grande canto. Iniziando a formare ciò che voi creature di superficie, so per certo, siete inclini a categorizzare come un idroide o in senso meno specifico, un’idrozoa facente parte del phylum degli cnidaria. Qualcosa di affine, ad altri termini, alla temuta e falsa medusa della caravella portoghese. Lo scopo era davvero semplice, quanto pratico da riassumere in una singola frase: cominciare, lietamente, a veleggiare verso la California…”

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A proposito del piccolo mustelide coinvolto sulla linea del fronte ucraino

Il conflitto armato: forse il capitolo più oscuro tra i molti possibili frangenti della condizione umana, per sua inclinazione dedicato alla compromissione dell’altrui incolumità e future prospettive di sopravvivenza individuale. Ed altrettanto spietato nei confronti del mondo naturale e tutto ciò che questo contiene, posto inevitabilmente in secondo piano, di fronte alle necessità di colpire, distruggere ed annichilire ogni tratto di terreno oggetto delle rispettive manovre. Una contingenza nella cui realizzazione, al tempo stesso, risulta possibile individuare interazioni fortuite e transitoria, qualche volta conduttive a un senso di armonia che nutre l’anelito verso un possibile ritorno allo stato di quiete. Questo è dunque il presupposto, alquanto inaspettato, alla base di una serie di pubblicazioni social digitalizzate da parte di alcuni rappresentanti di quel vasto collettivo dei giovani soldati, tristemente al centro di una simile tempesta, che ormai da più di un anno continua ripetutamente a battere sui margini di ciò che siamo incoraggiati a definire “Europa”. Proprio là dove sussiste, fin da tempo immemore, l’estremo occidentale dell’area abitata dalla specie coprotagonista di queste registrazioni, il grazioso piccolo carnivoro che viene chiamato perevozchik in russo, myshovka nel dialetto cosacco terek, chokha in calmucco e fessyah in arabo (che vuol dire maleodorante). Termini tradotti normalmente in modo poco letterale quando non si sceglie, piuttosto, di ricorrere alla definizione scientifica di Vormela peregusna. Uno dei rari binomi tassonomici che non utilizzano il latino, sfruttando invece l’etimologia della parola tedesca würmlein (piccolo verme, per via della sua forma allungata) e quella ucraina perehuznya che vuole dire puzzola ed a cui si aggiunge, normalmente, la definizione di “marmorizzata”. Per distinguerla, in funzione della sua caratteristica livrea, dai più comuni abitanti striati o marroni dei boschi d’Eurasia, il Vecchio Continente ancora in grado, dal punto di vista degli animali, di sorprenderci con la sua biodiversità e le notevoli caratteristiche di un ecosistema non del tutto compromesso dall’invasione della civilizzazione moderna. Creaturina che compare in questo modo, con il suo peso raramente superiore ai 500 grammi e una lunghezza tra i 15 e 22 centimetri, tra le braccia dei soldati ed in almeno un caso intenta ad esplorare una delle loro trincee, all’interno della quale aveva probabilmente finito per cadere durante le proprie peregrinazioni prossime al sorgere del sole. Giacché nessuno potrebbe sognarsi, al primo accenno del suo verso sibilante, di mettere in dubbio un carattere assolutamente capace di farsi rispettare di queste sia pur graziose, quasi esageratamente accattivanti protagonisti nelle accidentali condivisioni di quei momenti…

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Il verme di un millimetro che vola grazie all’elettricità del calabrone

È imprecisa l’idea che il verme nematode, parte del suo phylum ragionevolmente distinto da quello degli anellidi o qualsiasi altra creatura strisciante del pianeta Terra, debba necessariamente costituire un parassita o pericolo per la salute degli umani. Laddove se finissimo per bere uno di questi Caenorhabditis elegans, caduto accidentalmente in un bicchiere, nulla di avverso potrebbe accadere al nostro organismo. E forse finiremmo per assumere, persino, qualche proteina da una delle pochissime creature in grado di sopravvivere al vuoto spaziale. Già, non è malvagio. Anzi potremmo definirlo, addirittura, utile alla presa di coscienza delle implicite caratteristiche del proprio gruppo tassonomico, composto da esseri che di lor conto tendono, in effetti, a causare un sufficiente novero di problematiche pendenti. Ed era proprio nell’intento di condurre l’ennesima serie di rilevamenti su questo importante tema, che nel corso dell’ultimo anno in laboratorio Takuya Chiba dell’Università dello Hokkaido, Etsuko Okumura e colleghi hanno iniziato notare qualcosa di assolutamente poco prevedibile. Ovvero la maniera in cui le larve immature a lungo termine di questa specie, dette dauer, tendevano a non rimanere sul fondo delle colture in agar realizzate per l’osservazione al microscopio elettronico. Ma piuttosto balzavano o venivano attirate, in maniera largamente misteriosa, verso il coperchio di quei piccoli recipienti, cui si attaccavano come un palloncino strofinato alla parrucca di un clown del circo. Eventualità capace di suscitare più di qualche interrogativo e che una volta portata (tanto tardivamente) all’attenzione di un gruppo di fervide menti, portò ad esaminare una dopo l’altro i possibili fattori scatenanti. Fu dunque presto scoperta la maniera in cui i vermetti NON strisciavano fino ad una simile collocazione, comparendo piuttosto in modo pressoché istantaneo a ridosso del soffitto trasparente. Lasciando come spiegazione possibile, in base al principio della “spiegazione improbabile” di Sherlock Holmes, che un qualche tipo di forza invisibile, intangibile ed inarrestabile stesso portando le creature a sollevarsi, qualche volta da sole, altre tutte assieme, costituendo una sottodimensionata analogia al famoso paradosso di una fila d’elefanti dal nostro pianeta fino al principale astro notturno. Lunare, inteso come un’ambiziosa metafora o ausilio all’elucubrazione, tutto ciò d’altronde non sembrò in alcun modo esserlo. Permettendo d’acquisire l’evidente ispirazione che costituisse parte dello stile di vita del nematode al centro dell’inquadratura, e in quanto tale un frutto periferico, così ostinatamente trascurato dalla scienza, della lunga marcia dell’evoluzione…

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