Gli undici pilastri luminosi che conducono i viandanti verso le oasi del deserto saudita

Metafora dell’assoluta privazione, annichilimento, coda aculeata dell’entropia. Consapevolezza dolorosa che ogni passo potrebbe presto diventare l’ultimo, o che il tragico attimo del non-ritorno sia nei fatti già passato da un pezzo, mentre il nostro spirito procede lieve nell’incedere immediatamente successivo al trapasso. Nessuna vita, tranne quella degli uccelli che sorvolano in attesa della dipartita. Nessun fluido eccetto quello contenuto dalla diga di membrane cellulari, sempre più sottili, progressivamente meno funzionali allo scopo per cui sono state create. Giacché niente è “umano” più di quanto riesca ad esserlo il bisogno di acquisire l’adeguato livello di idratazione. Il che diviene progressivamente più difficile, una volta oltrepassati i confini di uno dei più inospitali biomi del pianeta Terra. Quello stesso ambito situazionale che il celebre Lawrence d’Arabia, contrariamente a quanto mostrato nell’eponima pellicola degli anni d’oro di Hollywood, si trovò a dover evitare su consiglio dei suoi compagni di viaggio tribali, pur considerandolo perfetta porta verso il retro delle postazioni difensive ottomane. Costeggiando, piuttosto che attraversando con al seguito gli esperti cavalieri beduini, l’arido erg del Nafud, in uno dei punti di svolta della Grande Rivolta Araba negli anni al culmine della prima guerra mondiale. Laddove oggi, come se niente fosse, schiere di turisti, avventurieri, cercatori o semplici curiosi non si fanno scrupoli a seguire le sue orme immaginifiche, tentando di sperimentare in modo personale l’assoluta solitudine ed il senso di totale indipendenza dalla civiltà vigente. Questo sapeva fin troppo bene l’avventuriero, guida ed escursionista saudita Mohammad Fohaid Al-Sohaiman Al-Rammali, venendo per l’ennesima volta chiamato ad andare in cerca di un automobilista atteso il giorno prima presso i familiari ad Hail, Baqaa o Al Qaid, presumibilmente bloccato lungo un sentiero accidentato con pneumatici forati, una coppia dell’olio frantumata o un semi-asse fuoriuscito dai perni di bloccaggio del veicolo malcapitato. Con il corollario, in un certo senso ancor più tragico, del comprovato esito possibile, corrispondente all’individuo in questione deceduto per disidratazione magari a poche centinaia, se non decine di metri di distanza da un serbatoio di rifornimento preventivamente disposto per abbeverarsi lungo i più battuti, pericolosi sentieri del vasto nulla coperto dalla sabbia impietosa. Dal che l’idea, contattando le autorità locali ed eventuali filantropi tra gli sceicchi della regione, di procedere all’installazione sull’inizio di quest’estate di un sistema tanto semplice quanto concettualmente privo di precedenti: fari non così diversi, per ogni aspetto relativo al funzionamento, da quelli tipicamente disposti sulle rocce al confine dell’oceano ed entro golfi dal fondale mendace. Affinché i condannati frequentatori del Nafud potessero, al presentarsi dell’opportunità o necessità evidente, usarli come punti di riferimento per raggiungere la condizione di salvare se stessi o i propri incolpevoli accompagnatori…

Il sistema è semplice ma al tempo stesso caratterizzato da una pertinenza che pare scaturire dalla convergenza dei sui molteplici elementi di contesto. Dopo tutto se davvero è giusto definire il nostro amico camelide a una sola gobba “nave del deserto” piuttosto che dromedario, allo stesso modo il punto dove la vegetazione cessa dovrebbe avere i propri porti, punti d’approdo e luoghi di segnalazione sopraelevati. Lì dove avrebbe trovato per l’appunto collocazione un gran totale di 11 dispositivi (al conteggio attuale) consistenti di un potente laser verde puntato in direzione perpendicolare al suolo, così da massimizzarne la visibilità a media e lunga distanza, con appena 60 W di consumo e pannelli solari incorporati per ricaricare le batterie interne, così da permettere l’accensione nelle ore successive al tramonto del sole. Un sistema progettato ed acquistato a quanto sembra nella grande Cina come da marchio d’identificazione tecnologica corrispondente al logo aziendale della 3KM Optoelectronics, compagnia specializzata nella produzione di sistemi d’illuminazione applicabili in situazioni dall’alto grado di specificità. Vedi il caso di torce ad infrarossi per i droni, sistemi di allineamento per telecamere professionali, il monitoraggio del traffico, persino l’allontanamento degli uccelli, a quanto pare inclini a considerare un fascio di luce laser alla stregua di un ostacolo insuperabile, da cui tenersi prudentemente alla larga. L’esatto opposto, in altri termini, del presumibile comportamento adottato da qualsiasi avvistatore umano in difficoltà, istintivamente indotto a ricercare qualsiasi palese segno riconducibile al passaggio pregresso dei propri predecessori, così da ritrovarsi al cospetto dell’acqua salvifica in pratici recipienti artificiali, presso pozzi della profondità di fino a 1.500 metri o addirittura la collocazione storica di una vera e vasta oasi dove cercare ristoro in attesa del soccorso stradale. Tre possibili sentieri egualmente validi a cercare la salvezza, per uno qualsiasi dei circa 13.000 autisti di veicoli smarriti entro i confini del Nafud nel corso di un singolo anno, di questa società fin troppo incline a perseguire i sacrosanti selfie sottovalutando i rischi impliciti della sconfinata natura.

La preziosa cognizione che un laser, fonte fotonica sufficientemente potente da obliterare gli spazi vuoti nello scattering di Rayleigh presente nell’atmosfera, dovuti all’eccessiva secchezza negli ambienti desertici ed anche per questo privi d’inquinamento luminoso, non è d’altro canto totalmente nuova essendo stata usata con successo nel campo dell’osservazione astronomica, come linea guida per la calibrazione dei telescopi concepiti per condurre gli scienziati ad una più completa comprensione dello spazio vuoto che ci circonda. In una versione sostanzialmente sovradimensionata, dello stesso senso di assoluta privazione che persiste e caratterizza l’esperienza transitoria del deserto stesso. Anche se di un tipo affascinante dal punto di vista paesaggistico come il mare di dune, anche detto erg, caratterizzante l’area occupata dalla vasta depressione del Nafud. Là dove persino gli eserciti, agli albori dell’attrezzata epoca contemporanea, erano soliti approcciarsi con cautela e moderazione.
Un tipo di consapevolezza che riesce difficile aspettarsi, all’epoca dell’indiviso flusso delle informazioni. In cui ogni cosa dev’essere sperimentata, documentata, toccata con mano vulnerabile. Quasi come se soltanto avvicinandosi alla dipartita, fosse possibile giocare a proprio modo, finalmente, un ruolo degno di essere commemorato nella partita. Sempre che qualcuno di più esperto di noi, causa previdente svolta del suo e nostro destino, risulti pronto ed attrezzato in modo sufficiente per venire a salvarci! Dovendo cercare per stavolta unicamente in 11 punti possibili, piuttosto che l’ineffabile distesa senza logica né pratici punti di riferimento, nominalmente utili a tracciare una mappa topografica mentale. Non che sarebbe stato comparativamente semplice, seguire tale strada alternativa verso l’utile completamento dell’obiettivo finale.

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