Lo squillante risveglio dell’uccello che assassina le palle da golf

Il custode del country club di Belo Horizonte, momentaneamente intento a riposare gli occhi presso la veranda del capanno, si ritrovò ad aprirli repentinamente al propagarsi di un suono già noto. Dapprima una singola nota ripetuta alla frequenza di 1.200-1300 Hz, con ritmo progressivamente più veloce ed intenso. Quindi una serie di strofe da due o tre trilli in alternanza, generalmente caratterizzate da un’intonazione elevata, evidentemente prodotti da una mezza dozzina d’uccelli. E per finire una coda di 10 squilli dalla parte inferiore della scala pentatonica sul fronte degli esecutori baritonali, intenti ad inseguirsi vicendevolmente in una sorta di pandemonio auditivo. “Bello, fantastico, emozionante.” Pronunciò in maniera cupa in mezzo ai denti, mentre afferrando saldamente il rastrello si alzava a farsi schermo con l’altra mano dal sole di metà mattinata. Un’opinione che non era necessariamente sarcastica, né totalmente priva di un remoto fondo di sincerità: dopo tutto c’era forse un canto memorabile, in tutto il Brasile, in maggior misura di quello del seriema o siriema, alias cariama, l’uccello terrestre simile a un tacchino smilzo e crestato che poteva essere detto una sorta di segretario sudamericano. O il road runner delle aperte pianure tra i confini della giungla, capace di raggiungere i 25 Km/h ogni qual volta ne individua l’opportuna ragione. Come si sarebbe, ben presto, ritrovato a fare! Così il sapiente veterano in materia di taglio dei prati e recupero oggetti smarriti, oltrepassando la collinetta con il green della quinta buca, vide sollevarsi momentaneamente oltre la linea dell’orizzonte il prevedibile sferoide lievemente sfaccettato. Astro nascente dell’happy hour dei disturbatori… Primo di una lunga serie d’inopportune irregolarità procedurali. Così una seconda pallina lanciata in aria, poi una terza, prima ancora che la prima raggiungesse l’inevitabile concludersi della sua traiettoria, sul selciato della pista per le automobiline. La situazione, egli comprese, stava già degenerando. Impostando l’espressione sul contegno cupo d’ordinanza, irrigidì la propria presa sull’impugnatura del suo strumento. La musica prodotta dai pennuti, ben presto, avrebbe trovato le armonie di un valido quanto imprevisto Accompagnatore.
Interazioni non sempre prevedibili, senz’altro, ma dettate da un istinto che è direttamente conseguenza di un passato assai significativo. Quello appartenente all’ordine dei Cariamiformi, il cui ultimo genere rappresentante, suddiviso in due sole specie esistenti, vedeva un tempo la testimonianza d’imponenti grossi carnivori, cui oggi viene attribuito con palese impeto descrittivo l’accoppiamento di parole anglofone terror bird. Uccelli spaventosi a dir poco, dunque, alti fino a tre metri e dotati del tipico becco ricurvo degli avvoltoi, fatto per straziare e annichilire le carni delle loro prede. Tanto da indurre frequentemente alla pronuncia di fatidiche e spontanee parole, sulla falsariga di “Meno male che la nostra epoca ecologica, meno ricca d’ossigeno, ha portato a proporzioni più ridotte nella massa fisica delle creature!” Il che naturalmente non si applica, per gli appartenenti all’arrotondata discendenza delle palline da golf…

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Il decathlon selvaggio di chi salva i cuccioli di foca dal pericolo dell’incombente decapitazione

La dolorosa presa di coscienza rinnovata ogni giorno, con il dramma che continua a perpetrare se stesso. Ed in parole povere, chi avrebbe mai potuto far finta di niente? Percorrendo in modo regolare col kayak, da soli, con la moglie e i turisti, quel particolare tratto di costa della Namibia dove le otarie attendono il ritorno delle proprie madri. Potendo fare affidamento sulla serie di complessi segnali, auditivi, contestuali ed olfattivi, per rendere se stessi riconoscibili e mantenere il nucleo familiare unito fino al raggiungimento dell’indipendenza. A meno che… Qualcosa d’inaspettato ed altrettanto terribile abbia modo di capitare sul sentiero dell’acquatica esistenza, mettendo in atto la condanna inevitabile delle inquinate circostanze marine. Tutto inizia, come sempre, con un semplice momento di spensieratezza; del piccolo lasciato ai propri meccanismi, tranquillamente intento ad immergersi e infilare il muso un po’ dovunque, attraverso il vasto ventaglio di esperienze che costituiscono il suo divertimento. Incluso, orrore! L’interno dell’orribile groviglio, di reti e plastica e pezzi di stoffa, che il continuo ondeggiamento dell’oceano tende a trasportare sulla costa dell’Africa meridionale. Basta un attimo, effettivamente, perché i due diventino un tutt’uno: il piccolo animale ed il rifiuto stretto attorno al suo collo, in una semplice quanto immediata unione. Ma poiché le foche hanno una forma oblunga che potremmo definire affine ad un tronco di cono, a quel punto non è affatto possibile per loro provvedere alla rimozione autonoma dell’indumento indesiderato. Così che rimane assieme a loro, per giorni, settimane o mesi, mentre il cucciolo continua a crescere secondo il preciso copione delle natura. Ed è allora che le più crudeli implicazioni si trasformano in una fedele rappresentazione dell’Inferno in Terra… Con il nylon che stringe, scava e piaga la carne viva della povera creatura. Sempre più debole, incapace di nutrirsi e infine, misericordiosamente liberata dalla sofferenza delle sue spoglie mortali. Una morte lenta è spesso la peggiore che si possa immaginare per qualsivoglia creatura. Ma possiede anche un lato positivo: quello che qualcuno, in qualche modo, possa intervenire per deviare il triste corso del destino. Restituendo al mondo quell’ormai perduta fiducia nell’umanità, con tutto quello che ciò comporta.
Dal loro punto di vista, dunque, dev’essere una visione niente meno che terrificante: quattro esseri bipedi all’interno di due imbarcazioni, ferocemente rapidi e determinati, che sbarcando sulla spiaggia impugnano imponenti attrezzi fatti per ghermire ed intrappolare la placida comunità in attesa. Quindi una volta che i loro piedi hanno raggiunto il bagnasciuga, si mettono a correre con la rapidità del diavolo, gridandosi a vicenda segnali ben collaudati. Come gli squali o le orche degli abissi più rischiosi, per schivare i quali i lunghi millenni d’evoluzione hanno insegnato alle loro prede preferite come sfuggire o confondere le tattiche di chi cerca soddisfazione. Nel giro di pochi secondi, quindi, le letterali centinaia se non migliaia di otarie corrono in tutte le direzioni contemporaneamente, noncuranti di qualsiasi cosa tranne sfuggire a quello che appare loro come una morte cruenta e totalmente priva di pietà. Ma contiene ben nascosto in fondo al tunnel, in realtà, il prezioso germe della salvezza…

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L’antica genesi dell’arpa e le palline da ping pong delle remote profondità marine

La ragione per cui l’abusato modo di dire “Come vendere frigoriferi agli eschimesi” appare ormai desueto, o quanto meno dovrebbe tendere a farlo, è che un diverso tipo di pensiero può essere desunto dalla più materialistica espressione: “Allo stesso modo di chi affitta ombrelli, ai pesci e gli altri esseri sottomarini”. In altri termini perfetti parasole, in altri casi, strumenti musicali o basici accessori per la pratica di quel tipo di sport che nel più ampio ventaglio dei casi, consiste nel far rimbalzare una pallina da un lato all’altro di un tavolo rettangolare, mentre ci si tuffa nell’auspicabile speranza di riuscire a offrire una risposta valida e mandarla oltre la racchetta del proprio avversario. Oppure tennistavolo: se mai c’è stato un altro tipo di attività, che sottintende una specifica serie di condizioni fisiche, gravitazionali e di resistenza dell’aria… Completamente irriproducibili al di sotto delle superfici acquee, dove la Sirenetta rivolgeva il proprio sguardo e anelito verso inimmaginabili opportunità d’emersione. Eppur di certo proprio lei, prima di stringere malcapitati patti con creature dai tentacoli a raggiera, avrebbe potuto apprezzare l’opportunità di fare pratica sott’acqua in molte delle tecniche e i sistemi in uso tra le genti di superficie! Vedi l’arte musicale che riesce ad essere esemplificata, o quanto meno esteriormente rappresentata, dalla forma soavemente armonica di quest’altra notevole creatura, il cui ruolo e aspetto potrebbero rassomigliare a quelli dell’aspirapolvere-pterodattilo, o la televisione stegosauro, del celebre cartoon degli Antenati. Poiché rappresenta un innegabile rappresentante del mondo animale, tale membra della classe delle Demospongiae o spugne di mare, benché appaia di per se dotata di una serie di caratteristiche trasversalmente riconducibili alla collettività vegetale, oltre che all’ambito dell’oggettistica ad uso specifico di esseri dotati di orecchie, braccia e mani. Ed è Chondrocladia il suo genere d’appartenenza, più comunemente detto delle “spugne carnivore” mentre il nome specifico latino si presenta col binomio metaforico di C. lyra e non… Arpa.
Osservata per la prima (e ultima?) volta ad oltre 3500 metri di profondità a largo della California, per opera dei soliti operatori di batiscafi a controllo remoto dello Mbari (Monterey Aquarium Research Institute) nell’ormai remoto 2012, mentre operava facendo quello che, più di ogni altra cosa, sembrerebbe riuscirgli al meglio: prelevar dall’acqua valide fonti di sostentamento, che costituiscono le briciole danzanti e saltellanti di questo mondo. Ma non esattamente quel tipo di particolato, micro-particelle o ancor più infinitesimali organismi, che gli altri poriferi delle acque oceaniche sono soliti filtrare, facendo affidamento sulla naturale capacità d’assorbimento dei propri utili sistemi digerenti. Bensì effettivi cobepodi, oltre a larve di pesce ed altri esseri dotati di una propria mente e desiderio di sfuggirgli, tuttavia del tutto inutile di fronte alla furbizia evolutiva di questa particolare “spugna”. Che progressivamente attraverso i secoli, ha visto allungarsi le proprie propaggini fino alla forma verticale di una serie di preminenze o “pali” a partire dai sinuosi tentacoli che s’irradiano dal rizoma centrale, ciascuno rivestito di una serie di minuscoli uncini simili alla parte ruvida del velcro, tali da poter intrappolare qualsivoglia tipo di passante impreparato ad evitare di venirne a contatto. E così via a seguire, senza neanche la necessità di trasportare quel che è stato catturato fino a un qualche tipo di bocca, di cui comunque il predatore non risulta dotato, provvedendo a digerire gradualmente il malcapitato direttamente lì, sul ramo. Grazie all’uso di un vero e proprio microbioma simbiotico facente parte del suo involucro esteriore, che ne prepara l’assorbimento, a ulteriore coronamento di un funzionamento biologico perfettamente ed innegabilmente alieno. Una considerazione, quest’ultima, che potremmo trovare ancor più esplicita nella pregressa storia di un’altra rara appartenente a questo genere, la pianta che comunemente siamo giunti a definire, albero delle palline da ping pong. E mai nome avrebbe potuto essergli più adatto…

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Stretta è la foglia che impiega il Sole per irretire la sua preda

Le prime ad accorgersene furono le zanzare. Creature ematofaghe che pur non provando alcun tipo di desiderio nei confronti di nettare o sostanze affini, all’improvviso cessarono di essere minacciate, all’interno dell’appartamento, dall’occasionale dittero asilide, ragno salticida o piccolo insetto appartenente all’ordine degli odonati. Come un vampiro, che pur non potendo apprezzare il gusto del buon vino, ringrazia l’apertura della nuova locanda nel suo quartiere, per l’alta quantità di potenziali vittime ubriache che ne invadono improvvisamente le strade. Ronzando con enfasi, dunque, esse perlustrarono attentamente ogni recesso di quel mondo artificiale, ove grossi animali soggiornavano ponderosi concedendo mansueti il vermiglio fluido che da la vita, alla ricerca della nuova monade, possibile oggetto fuori del contesto, capace di alterare gli equilibri micro-ecologici vigenti tra quelle invalicabili mura. Finché i due possibili responsabili furono individuati, a guisa di spareggio finale, nella minacciosa riproduzione in gomma dell’alieno xenomorfo alta 35 cm, lì trasportata dall’inconsapevole padrone di casa, oppure il bizzarro oggetto situato alla sua sinistra, all’interno di un piccolo vaso di terracotta. “Bzz-bz!” esclamò l’esploratrice, rivolgendosi a una collega nuova del settore, incaricata a questo compito nuovo dal consiglio segreto delle succhiasangue. La quale rispose, dopo aver considerato con serietà ogni aspetto della vigente situazione: “Bzzz-bz-bzz!” La pianta era alta quanto il soprammobile a lato, ramificata come gli alberi visibili dalle finestre prive di zanzariere e rossa, rossa quanto il fuoco dell’alba nel giorno del Ragnarok profetizzato dai cantastorie. Un termine di paragone tutt’altro che scelto affrettatamente, concordarono le vere padrone di casa, quando notarono il modo in cui la luce battente attraverso i vetri colpiva quelle preminenze oblunghe, facendole baluginare alla maniera di un lago pieno di larve in attesa di scaturirne verso il principio della successiva generazione. “Bzzz-bz.” Affermò a questo punto la prima, con palese desiderio nei piccoli suoi occhi sfaccettati, iniziando a svolazzare convinta verso il mirabolante orpello così apparso nel territorio di caccia dell’orda notturna, desiderosa soltanto di poter condurre una vita pacifica e tranquilla. “Bzzz-Bzzz…” Tentò di fermarla la sua compagna, ma a quel punto a quanto sembrava, era ormai troppo tardi. E tutto ciò che poté fare la seconda zanzara, secondo i dettami del suo codice comportamentale piuttosto semplicistico, fu seguire l’amica, poggiando anch’ella i sei arti sull’accogliente serie di escrescenze pilifere dell’arboscello. “Do-dolce?” Fece allora all’indirizzo dell’amica, apparentemente immobile come fosse stata colta da un sentimento d’orrore ed autocommiserazione. La quale, ormai delirante per una sorta d’evidente attacco di panico, pareva muoversi a scatti, scuotendo violentemente il suo piccolo corpo ed agitando l’inutile coppia d’ali. Come se il mondo si stesse muovendo al rallentatore, quindi, la capa esploratrice provò a sollevare la sua zampa anteriore sinistra; con un senso di sorpresa piuttosto blando, constato a questo punto come fosse già irrimediabilmente diventata tutt’uno con l’appiccicoso strato di mucillagine vegetale. Con sguardo clinico quasi disinteressato all’ora della sua dipartita, la zanzara guardò quindi la punta di quella foglia: “Possibile, o forse è soltanto una mia sensazione causata dalla fine di ogni speranza, che la trappola abbia iniziato a chiudersi, molto, molto lentamente?”
Possibile, persino probabile, se stiamo parlando della Drosera capensis. In realtà la più facile, e quindi diffusa come decorazione domestica, tra tutte le appartenenti alla sua famiglia cosmopolita, presente in ogni continente eccetto l’Antartide. Benché tutto ciò possa essere riconducibile, senza particolari dubbi, all’opera di propagazione effettuata, inevitabilmente, per la cupidigia ed il senso di curiosità degli umani…

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