L’impressionante terrore prospettico del Globemaster che sfiora i grattacieli di Brisbane

“Scegliete di vivere l’adrenalina, scegliete una carriera da piloti della Royal Australian Air Force” ai comandi…. Di un mastodonte da 128 tonnellate di peso e fino ad ulteriori 74 di carico, sufficienti a sollevare in cielo un moderno carro armato M1 Abrams, completo di equipaggio, munizionamento ed accessori vari. Il tipo di velivolo, in altri termini, che difficilmente dovrà trovarsi a schivare missili nei cieli durante il corso di un serrato duello aereo. Ma potrebbe alquanto sorprendentemente, conoscere i più estremi limiti del suo contesto operativo in epoca di pace, ed in particolare nel corso della ricorrenza del Rivefire Festival, annuale celebrazione settembrina della stima del popolo di Brisbane nei confronti della propria storia cittadina e il fiume omonimo, fonte di cibo e sussistenza fin dall’epoca della colonia penale di Moreton Bay. Qualcosa di straordinario ed a suo modo appassionante, come largamente esemplificato dalla serie di fotografie e riprese che sul finire dell’inverno australe s’irradiano regolarmente dai canali social degli abitanti del posto, in cui uno degli otto Boeing C-17 Globemaster III al servizio della RAAF sembra insinuarsi noncurante tra le forme monolitiche degli alti grattacieli urbani, schivandone il perimetro e facendo sfoggio di quel tipo d’agilità che tenderesti ad aspettarti da un falco pellegrino. Inquadrato surrealmente dall’alto, mediante cellulare o telecamera da spettatori che si trovano, per una serie di drammatici momenti, effettivamente SOPRA quelle ali, suscitando un senso di vertigine del tutto privo di un contesto acquisito. Nonché un implicito riferimento, mai mancato dagli americani, all’epocale tragedia dell’11 settembre 2001, sebbene debba necessariamente trattarsi di una mera illusione. Non che questo abbia impedito, in epoca recente, a più di un newyorkese un certo senso spontaneo d’ansia, accompagnato dalla disistima di vedere il suo vissuto riproposto come lo spettacolo di un giorno lieto. Non che la misura della percezione statunitense debba sempre, oppure necessariamente, ritrovarsi a pervadere ogni aspetto della vita (post)moderna, benché l’aereo in questione e la sua filosofia di progettazione, manifestata per la prima volta con il prototipo del 1991, costituiscano la diretta risultanza di una richiesta d’appalti delle autorità militari di quel paese. Al fine di sostituire i precedenti ed ormai vetusti Globemaster C-74 e C-124 offrendo un particolare vantaggio di tipo operativo: la capacità d’infiltrarsi volando a bassa quota oltre i radar o lanciamissili del territorio nemico. Per depositare il proprio carico belligerante, lievi come farfalle, imperturbabili all’aspetto dei pericoli circostanti. Un tipo di operazione regolarmente testata in California mediante incursioni a pieno carico nel cosiddetto Star Wars Canyon (depressione nei pressi della Valle della Morte) ma che semplicemente nessuno si aspettava di vedere riproposta in mezzo alle case di un centro metropolitano abitato da due milioni e mezzo di persone. Il che la dice lunga, inevitabilmente, sulla preparazione pregressa e la fiducia investita dagli australiani nei confronti dei propri piloti militari, formati d’altra parte tramite l’implementazione di uno dei programmi di addestramento più avanzati al mondo. Inclusivo di prove pratiche, se vogliamo, non propriamente alla portata di chicchessia…

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Il bizzarro antesignano bielorusso del principio di un ovale volante

Stabilimenti ordinati, contesti limpidi e sperimentali, ambienti frequentati primariamente da figure di stampo accademico abbigliate con camice bianco. Come nasce un aeroplano? Molto spesso, le acquisite cognizioni per quanto concerne il tipo di strutture adibite a questo campo particolarmente delicato dell’ingegneria applicata trovano conferma nella realtà osservabile dei fatti. Molto di ciò che resta, è russo o proviene dai limitrofi territori dell’Est Europa. Luoghi in cui formalizzarsi sullo stile trova raramente collocazione all’origine della “buona” tecnologia, poiché ogni cosa deriva dal bisogno momentaneo, connotato con la competenza pratica di chi è adeguato a individuare un qualche tipo di contromisura operante. Esigenze come quella segnalata presso il Minskom Zavode Shesteren (Istituto della Creatività Tecnica di Minsk) nel 1988, relativa al problematico comportamento in volo dell’ormai vetusto biplano agricolo Antonov An-2, notoriamente incline a oscillazioni e potenziale rischio di stallo ogni qualvolta raffiche di vento incrociavano perpendicolarmente la sua direzione di crociera. Questione tanto grave, per intenderci, da dar vita al paragone informale con “un elefante ubriaco in bilico sui campi” ovvero non propriamente la creatura cui vorresti affidare il tuo ritorno sano e salvo sulla pista da cui avevi spiccato il decollo. Al che l’ingegnere Arkady Narushevich, coadiuvato dal pilota Anatoly Gushchin, disegnò il progetto di un approccio fortemente distintivo nei confronti dell’intera faccenda. Considerando infatti la maniera in cui qualsiasi profilo alare, per il suo principio aerodinamico di funzionamento, non possa fare a meno di generare una coppia di vortici destabilizzanti in corrispondenza dei suoi bordi laterali, che cosa sarebbe potuto succedere, eliminando del tutto tale vulnerabilità del tutto imprescindibile? Mediante l’unico sistema immaginabile a tal fine. Ovvero, sostanzialmente, la costruzione di un singola ala capace di ripiegarsi su se stessa, giungendo a formare un’unica superficie ininterrotta. Narusevich aveva creato in linea di principio, per usare una terminologia appropriata, un raro esempio di velivolo con ala chiusa. Così come soltanto in pochi, fino a quel momento, si erano dimostrati capaci di elaborare. A partire dagli esperimenti esclusivamente teorici dell’epoca della seconda guerra mondiale, come il Lerche (Allodola) del tedesco Ernst Heinkel, ipotetico caccia concepito con una caratteristica conformazione ottagonale, o l’effettivamente costruito SNECMA C-450 Coleoptere francese, l’aereo con un tubo attorno alla carlinga facente funzione di ala, che avrebbe dovuto decollare verticalmente per poi ruotare a 90 gradi il suo senso di marcia. Se non che tale manovra tendeva, irrimediabilmente, a farne perdere il controllo, rendendolo essenzialmente soltanto il più scomodo e bizzarro elicottero della storia. In altri termini, qualsiasi approccio a un tale metodo di volo era stato accompagnato fino a quel momento da evidenti conseguenze deleterie o chiare prospettive di fallimento.
Laddove la creazione bielorussa era tutto, fuorché follemente ambiziosa o irraggiungibile, come esemplificato dalla forma il più possibile rassomigliante a quella dell’An-2. Al punto da trovarsi ad ignorare il concetto geometrico dell’equidistanza dei punti, scegliendo piuttosto la forma frontale di un ellisse visibilmente schiacciato in senso orizzontale. Dimostrando in ciò di provenire dal mondo delle contingenze pratiche, concepite sulla base dei legittimi presupposti di funzionamento. Piuttosto che l’esigenza personale d’incidere il proprio nome a lettere cubitali nel grande almanacco della Storia…

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Il più pesante dei biplani, lentissimo tra i jet, che solevano chiamare Belfagor

Siamo spesso i primi ad affermare di subordinare l’estetica alla funzionalità, convinti sostenitori della logica e l’intelligenza, disdegnando mere considerazioni figlie della vanità ed i preconcetti privi di significato in ogni circostanza tecnologica o collaterale circostanza della vita. Eppure se torniamo con la mente a quell’eufemismo, famosamente utilizzato per pubblicizzare l’automobile compatta Fiat Multipla: “Per molti, ma non per tutti” torna prepotentemente nella mente l’universale concezione di un veicolo eccezionalmente utile, eppur mostruosamente privo di armonia nelle sue forme, e che proprio per questo non avrebbe avuto dei modelli successivi utili a raccogliere la propria eredità. E se tale cognizione si applica nell’universo dei veicoli stradali, ancor più essa riesce ad essere centrale per quanto concerne l’aeronautica, dove al concetto di “eclettica bellezza” non è semplicemente dato alcun permesso di esistere, come ampiamente esemplificato dalla vasta quantità di pagine specializzate online sul tema dell’Aereo più Brutto della Storia, di per se stesso un meme in grado di attirare l’attenzione delle moltitudini all’interminabile ricerca d’intrattenimento. Un’ideale classifica, nel suo complesso, ove campeggia spesso un simile modello risalente all’apice dell’URSS, figlio della propaganda ancor prima che il bisogno, e che pare giusto definire un fallimento tecnologico, nonostante si ritrovi ancora il detentore di una serie straordinaria di primati. Chi avrebbe mai pensato di trovarsi tra le mani, o anche soltanto ponderato di prima di quel fatidico 1973, l’esistenza dell’aereo agricolo più potente e avveniristico del mondo? Un vero e proprio turbojet del tipo in grado di sfruttare il ciclo di Brayton-Joule, come il tipo di velivoli che avevano saputo rivoluzionare la velocità ed i risultati ottenibili dall’uomo tra le nubi dei conflitti armati della Terra. Per poter muovere guerra, con le stesse mostruosità chimiche un tempo teorizzate dal generale italiano sostenitore del bombardamento strategico Giulio Dohet, ma verso creature assai più piccole e insidiose di noialtri: parassiti, batteri vegetali, bruchi e curculionidi affamati. I principali nemici del popolo, in altri termini, all’interno dei moderni kolkhoz e sovkhoz, collettivi comunisti dedicati alla coltivazione della terra, dal cui successo dipendevano le vite di milioni di persone in fiduciosa attesa. A un punto tale che il governo stesso, all’inizio degli anni ’70, tirando le somme sul principale apparecchio utilizzato all’epoca per la dispersione dei pesticidi a livello nazionale, l’ormai vetusto biplano Antonov An-2, non poté fare a meno di trovarlo insufficiente. Forse proprio perché troppo tradizionalista, dinnanzi all’immagine di un proletariato proiettato verso l’indomani…

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Ace Combat sopra il cielo di Miami a bordo di un vero Falcon F-16

Finché giunse l’attimo profetizzato, il singolo momento, l’apocalittica battaglia, il vertice di convergenza delle linee del Destino ed il significato ultimo di questa guerra: Razgriz, la grande bestia dalle ali nere. Un mostro mitologico ed il nome di quella squadriglia. Fra un secolo saranno in pochi a ricordare il vero nome di colui che ci ha salvati. Ma le sue gesta, nelle storie e le leggende di un intero popolo, continueranno a riecheggiare sui rintocchi e negli annali dell’indispensabile realtà. Retorico? Metaforico? Filosofico? Nient’altro che parole, quelle usate per l’appunto in un particolare tipo di racconto, che possiamo ricondurre in linea culturale a una matrice proveniente dai paesi d’Oriente. Quella che riusciamo a ritrovare, pronta per le antologie, nella famosa serie di avventure digitali della Namco, combattute a colpi di mitragliatrici e missili a ricerca sugli schermi di console per videogiochi e PC. E in molti ricordiamo quella sensazione, iperborea e trascinante, di riuscire a disegnare linee acute tra i palazzi di fantastiche metropoli del tutto immaginifiche, all’interno di scenari tanto fantasiosi quanto imprevedibili attraverso quasi 25 anni di titoli ai massimi livelli del proprio genere di riferimento. Che potrà anche non essere realistico nel proprio svolgimento (d’altra parte, quale vero aereo da combattimento può sparare 100 missili nel corso di una singola battaglia?) ma ha sempre avuto la caratteristica paradossalmente sorprendente d’impiegare fusoliere ed ali chiaramente derivate dalla reale tecnologia bellica del nostro mondo. In una letterale interpretazione di creatività post-modern, nella quale un’arma viene valutata unicamente per quello che sembra, ed è in grado di fare. Piuttosto che in funzione delle cupe implicazioni della sua stessa esistenza. Armi come, per l’appunto, il General Dynamics F-16 Fighting Falcon, che qui vediamo sfrecciare a velocità impressionanti poche decine di metri sopra lo skyline di una delle più riconoscibili città statunitensi. Con il piccolo, trascurabile punto di distinzione, di essere riuscito a farlo nel mondo tangibile del nostro stesso Universo.
Perfetta unità di mente, intento e preparazione tecnica pregressa, oltre i limiti più chiaramente concepibili da chi si limita a guardare in alto, puntando il dito tra le nubi rarefatte. Verso l’incredibile sagoma a forma di freccia del Maggiore John “Rain” Waters, membro della squadra di dimostrazione delle Forze Aeree statunitensi, all’interno della cabina di comando del velivolo che maggiormente s’identifica con l’immagine prototipica del suo corpo d’armata, che ufficialmente vede il proprio soprannome accomunato a quello del rapace volatile per eccellenza, ma che in molti preferiscono associare alla forma ed all’immagine della Vipera, sia in senso biologico che (inaspettatamente) per l’ispirazione diretta ed acclarata dal telefilm di fantascienza Battlestar Galactica del 1978, i cui caccia spaziali usati dagli umani contro i propri rivali robotici assomigliavano vagamente all’aereo appena entrato effettivamente in servizio. E di acqua ne sarebbe passata molta, così come l’entropica misurazione delle orbite e i tragitti planetari, fino al momento qui documentato, dell’aprile del 2021 in cui possiamo prender atto di una simile sequenza straordinaria, nel corso dello show “Air & Sea” capace di costituire il momento culmine dell’annuale week-end del Memorial Day, finalizzato a commemorare i militari americani caduti nelle loro molte battaglie. In apparenza prelevata in modo pressoché diretto da un episodio ludico della sopracitata epopea, per come sembra violare a più riprese le presunte norme della ragionevolezza nel volare sopra le aree densamente popolate. Forse proprio grazie alla particolare dislocazione geografica, con tali vaste aree marittime, della notevole città di Miami…

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