Ace Combat sopra il cielo di Miami a bordo di un vero Falcon F-16

Finché giunse l’attimo profetizzato, il singolo momento, l’apocalittica battaglia, il vertice di convergenza delle linee del Destino ed il significato ultimo di questa guerra: Razgriz, la grande bestia dalle ali nere. Un mostro mitologico ed il nome di quella squadriglia. Fra un secolo saranno in pochi a ricordare il vero nome di colui che ci ha salvati. Ma le sue gesta, nelle storie e le leggende di un intero popolo, continueranno a riecheggiare sui rintocchi e negli annali dell’indispensabile realtà. Retorico? Metaforico? Filosofico? Nient’altro che parole, quelle usate per l’appunto in un particolare tipo di racconto, che possiamo ricondurre in linea culturale a una matrice proveniente dai paesi d’Oriente. Quella che riusciamo a ritrovare, pronta per le antologie, nella famosa serie di avventure digitali della Namco, combattute a colpi di mitragliatrici e missili a ricerca sugli schermi di console per videogiochi e PC. E in molti ricordiamo quella sensazione, iperborea e trascinante, di riuscire a disegnare linee acute tra i palazzi di fantastiche metropoli del tutto immaginifiche, all’interno di scenari tanto fantasiosi quanto imprevedibili attraverso quasi 25 anni di titoli ai massimi livelli del proprio genere di riferimento. Che potrà anche non essere realistico nel proprio svolgimento (d’altra parte, quale vero aereo da combattimento può sparare 100 missili nel corso di una singola battaglia?) ma ha sempre avuto la caratteristica paradossalmente sorprendente d’impiegare fusoliere ed ali chiaramente derivate dalla reale tecnologia bellica del nostro mondo. In una letterale interpretazione di creatività post-modern, nella quale un’arma viene valutata unicamente per quello che sembra, ed è in grado di fare. Piuttosto che in funzione delle cupe implicazioni della sua stessa esistenza. Armi come, per l’appunto, il General Dynamics F-16 Fighting Falcon, che qui vediamo sfrecciare a velocità impressionanti poche decine di metri sopra lo skyline di una delle più riconoscibili città statunitensi. Con il piccolo, trascurabile punto di distinzione, di essere riuscito a farlo nel mondo tangibile del nostro stesso Universo.
Perfetta unità di mente, intento e preparazione tecnica pregressa, oltre i limiti più chiaramente concepibili da chi si limita a guardare in alto, puntando il dito tra le nubi rarefatte. Verso l’incredibile sagoma a forma di freccia del Maggiore John “Rain” Waters, membro della squadra di dimostrazione delle Forze Aeree statunitensi, all’interno della cabina di comando del velivolo che maggiormente s’identifica con l’immagine prototipica del suo corpo d’armata, che ufficialmente vede il proprio soprannome accomunato a quello del rapace volatile per eccellenza, ma che in molti preferiscono associare alla forma ed all’immagine della Vipera, sia in senso biologico che (inaspettatamente) per l’ispirazione diretta ed acclarata dal telefilm di fantascienza Battlestar Galactica del 1978, i cui caccia spaziali usati dagli umani contro i propri rivali robotici assomigliavano vagamente all’aereo appena entrato effettivamente in servizio. E di acqua ne sarebbe passata molta, così come l’entropica misurazione delle orbite e i tragitti planetari, fino al momento qui documentato, dell’aprile del 2021 in cui possiamo prender atto di una simile sequenza straordinaria, nel corso dello show “Air & Sea” capace di costituire il momento culmine dell’annuale week-end del Memorial Day, finalizzato a commemorare i militari americani caduti nelle loro molte battaglie. In apparenza prelevata in modo pressoché diretto da un episodio ludico della sopracitata epopea, per come sembra violare a più riprese le presunte norme della ragionevolezza nel volare sopra le aree densamente popolate. Forse proprio grazie alla particolare dislocazione geografica, con tali vaste aree marittime, della notevole città di Miami…

Straordinario è il grado di sicurezza per coloro che riescono a creare scene simili a poca distanza dal centro di una vasta città (470.000 abitanti, davvero niente male). Ma una parte certamente significativa deriva dall’alto livello di fiducia concesso a ciascuno dei pochissimi piloti abilitati a farlo.

Così quanto compare innanzi ai nostri occhi spalancati, nel corso di questi 30 minuti adrenalinici ripresi da una telecamera di bordo, è il pilota dalle straordinarie competenze che sfiorando quasi le cime dei grattacieli, segue la linea della costa, poi scende sopra il mare della baia di Biscayne compiendo evoluzioni dall’elevato grado di pericolo apparente. Benché le affidabili condizioni di pilotaggio e l’alta precisione di controllo concessi dall’F-16 permettano di farlo con estrema cognizione di causa. Questo perché fondamento stesso nella concezione progettuale di quest’aeroplano monomotore, molto più leggero e maneggevole rispetto agli altri caccia intercettori statunitensi, è la sua inerente instabilità compensata mediante l’uso di un sofisticato sistema fly-by-wire, tramite cui nelle parole di un famoso detto in materia “È l’aereo a far volare il pilota, piuttosto che il contrario”. Un’iperbole, poco ma sicuro! Ma del tipo che permette di riuscire a intravedere l’effettiva portata della verità. Di un velivolo capace di raggiungere i 9.0 g di virata, mantenendo nel contempo al minimo l’elemento imprevedibile del proprio comportamento in tali circostanze apicali. Contrariamente a quanto avviene con aerei dotati di sistemi di controllo maggiormente diretti, come il più pesante bimotore F/A-18 Hornet, cui viene spesso paragonato per possibilità d’impiego e funzionalità operative, pur risultando inerentemente assai più complicato da pilotare. Aerei nati in epoche diverse, chiaramente, ed il più recente dei quali (introdotto nel servizio attivo solamente nel 1983) nasce da una percezione del combattimento aereo in cui lo scontro a distanza ravvicinata risulta ormai estremamente improbabile, rendendo largamente ininfluente l’alto livello di manovrabilità e la sagoma ridotta del suo predecessore. Il che, allo stesso tempo, l’avrebbe reso certamente meno adatto per il tipo di scenario qui documentato, in cui la fantasia ludica diventa una tangibile realtà dei fatti, apprezzabile da tutti grazie alla magia della pubblicazione digitale diretta, nel contesto del canale del Podcast e Blog di settore The Afterburn Podcast.
Ma che straordinaria angolazione, tutto ciò, ci offre del quartiere maggiormente caratteristico dell’affascinante Miami, quella centralissima South Beach che si estende sull’Oceano Atlantico sull’isola che porta lo stesso nome! Il cui prolungamento tramite banchi di sabbia si trasforma nella serie d’isolette note con il nome collettivo di Florida Keys. Scenario memorabile ed impreziosito ulteriormente dal viadotto della Overseas Highway, probabilmente l’unica autostrada statale capace di estendersi oltre i confini oggettivi di un continente. Così come appare chiaro & lampante dal punto di vantaggio offerto dalla cabina dell’F-16, assieme all’eleganza estetica di un quartiere che giunse a costituire storicamente uno dei poli su scala globale del movimento Art déco verso la metà degli anni ’30, in un tripudio di vecchio e moderno per l’aggiunta successiva di edifici sempre più imponenti, dall’originale concezione di un terreno dedicato alla coltivazione della noce di cocco. E chissà cosa avrebbero detto potendo ammirare tutto questo gli stessi imprenditori Henry e Charles Lum, che furono i primi a credere nel 1870 che potesse esserci un futuro tra i confini di un simile territorio. Una volta superato, s’intende, l’istintivo senso di smarrimento nel trovarsi a percorrere i cieli a molte centinaia di chilometri l’ora, dentro una delle macchine volanti più performanti al mondo.

Le grandi città americane appaiono dotate di un carattere complessivamente univoco ma nondimeno distintivo, nonostante l’altezzoso preconcetto di taluni circoli culturali europei. Certamente, tra tutte, una delle più memorabili è il capoluogo della contea Miami-Dade.

Non è perciò eccessivamente facile, al giorno d’oggi, offrire una sequenza su Internet che possa dimostrarsi in grado di colpire chiunque, modificando in modo sostanziale l’effettiva cognizione delle sensazioni offerte da una semplice sequenza di pixel, fatti muovere ad un ritmo ben coreografato sugli schermi di mezzo mondo. Ragion per cui, ormai da tempo, l’industria dell’intrattenimento sembrerebbe aver selezionato come proprio metodo espressivo preferito l’interattività. Perché non esiste ponte maggiormente funzionale, tra il pensiero e l’immaginazione, che unità di mente, intento e preparazione tecnica, sia pure quando riportate su una scala complessivamente assai più ridotta. Eppure resta insuperata, da certi punti di vista, l’esperienza di seconda mano in merito a un qualcosa che abbia avuto l’occasione materiale di verificarsi. Perché proprio questa, è una delle principali implicazioni del funzionamento imprescindibile della nostra mente.
Anche quando le cose sembrano trovarsi in uno stato tanto raro e improponibile da rendere vana ogni tipologia di cognizione pregressa. Ed anzi, forse, soprattutto quando il computer di controllo delle armi inizia a pronunciare quell’imprescindibile sequenza di parole: “LOCK ON, FIRE, FIRE!”

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