I plausibili risvolti psichici dell’ingegnosa armonica di vetro di Benjamin Franklin

“Ogni volta che apro la custodia e la trovo completamente integra, è come se fosse Natale.” Racconta Dennis James al collega musicista ed amico Rob Scallon, esperto polistrumentista con oltre 2 milioni d’iscritti al suo canale di YouTube. Che in questo suo recente video, invece di suonare come fatto in precedenza celebri pezzi Heavy Metal tramite l’impiego di eclettici apparati, che tendono a differenziarsi in modo significativo dalla sua acclarata padronanza della chitarra, sembrerebbe interessarsi particolarmente alla questione lungamente trascurato di quale possa essere, tra tutti, lo strumento meno pratico da utilizzare, mantenere o trasportare presso il luogo elettivo del suo impiego. Cilindrico, ingombrante, modulare, al punto da richiedere una quantità multipla di custodie come una batteria, ma che diversamente da quest’ultima non può e non deve, assolutamente, subire il benché minimo urto durante gli spostamenti. Questo perché è fatto, in parte significativa, del più fragile e trasparente dei materiali capaci di far parte della nostra vita quotidiana: il vetro, s’intende. Quello dell’insalatiera seguìta dalla ciotola, seguìta dalla scodella, seguìta dalla tazza, seguìta dal boccale, seguìto dalla coppa e ancora il calice, il flute, il bicchierino. Ciascun pezzo accuratamente scelto, tagliato ed adattato al fine d’incastrarsi in modo concentrico all’interno dell’oggetto successivo, in base alle istruzioni attentamente calibrate del grande inventore, politico e ben noto redattore d’aforismi filosofici Benjamin Franklin. Al quale, esattamente 15 anni prima di dare il suo contributo alla creazione della Costituzione americana, capitò per caso di assistere all’esecuzione di un pezzo musicale da parte di un certo Edward Delaval a Cambridge, creatore di un particolare approccio sonorizzante basato sul percorrere tramite l’impiego delle dita il bordo di alcuni bicchieri per il vino. Così come in tanti abbiamo finito per metterci a fare, durante l’estendersi eccessivamente prolisso di particolari cene in famiglia (quando ancora, l’attuale situazione pandemica ci permetteva simili svaghi) e senza che ciò favorisse l’elaborazione di particolari creazioni immaginifiche o teorie. Questo, naturalmente, perché non potevamo vantare una mente fervida quanto quella di un simile personaggio, che colpito nel profondo del suo essere si affrettò a contattare verso l’inizio del 1762 il soffiatore di vetro londinese Charles James, per dare forma ad un qualcosa che nessuno, prima di quel particolare frammento cronologico della storia umana, aveva mai pensato di poter toccare con mano. Men che meno, sentir vibrare all’interno dei propri stessi padiglioni auricolari.
Una sorta di arcolaio, se vogliamo, o altro strumento da cucito alimentato mediante il tipo di pedale a spinta muscolare che in lingua inglese prende il nome di treadle, se non fosse per il “piccolo” dettaglio della delicata sovrastruttura roteante dalla suddetta forma in grado di approssimarsi a quella di un soave tronco di cono. Da mantenere accuratamente inumidita, mentre appoggiandovi sopra le proprie dita con precise coreografie musicali ci si trova ad estrarne quelli che il suo stesso creatore definiva, in una lettera indirizzata al suo amico Giambattista Beccaria di Torino: “Suoni d’incomparabile dolcezza più magnifici di quelli di qualsiasi altro strumento, che possono essere modificati tramite un lieve cambio di pressione ed estesi fino a qualunque lunghezza.” Per poi passare a menzionare, quasi casualmente, il fatto che l’armonica di vetro, come aveva scelto di chiamarla (d’altra parte, quella a bocca non era stata ancora inventata) non aveva MAI bisogno di essere accordata. Entro la fine di quell’anno, dunque, la musicista Marianne Davies, parente di una celebre soprana inglese, iniziò a girare in tour il suo paese, permettendo al mondo di conoscere le eccellenti caratteristiche dell’invenzione di Franklin. Finché non iniziò a risentire di uno stato cronico di depressione malinconica, tale da portarla a ritirarsi a vita privata. Ciò è considerato d’altra parte all’origine della ragione per cui, entro l’inizio del XIX secolo, l’armonica iniziò ad essere considerata un rischio significativo per la salute, non soltanto di coloro che la suonavano, ma tutti coloro che si ritrovavano ad udirla…

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Misterioso uomo nepalese mostra al mondo la danza dello yak bianco

Distillato nel procedere delle generazioni, l’aspetto della saggezza umana ha visto modificare i fondamenti del suo metodo attraverso il cambiamento delle aspettative nei confronti dei suoi principali soggetti. La lunga barba, i capelli incolti, l’abito dell’eremita, ritirato nella sua caverna sulla sommità del mondo, dove il cielo stesso può rivolgere la sua parola a chi ha un orecchio in grado di comprendere il suo linguaggio; qual è il posto, di una simile sequenza di elementi, in questo mondo in cui ogni cosa deve essere spedita, chiara e coinvolgente come una pubblicità? Dove i prossimi depositari della conoscenza, affinano i propri riflessi combattendo al fine di ottenere una vittoria tra gruppi di 100, nel mezzo di un’arena colorata ed intangibile, in cui vige la regola di costruire cose per sfuggire all’occhio indagatore (e il piombo) del tuo nemico. Ed è indubbia l’influenza dell’intero e variegato popolo del videogame Fortnite, nell’insorgere sui lidi digitalizzati di una serie di brevi ed incisivi passi di danza, usati nell’economia di quel contesto come pratiche celebrazioni del trionfo, per coloro che hanno voglia di osservare il conflitto fino all’inevitabile conclusione finale. Così come quella, lungamente reiterata, dei frequentatori di quel nuovo tipo di social network che trova nel portale cinese Douyin (抖音) originariamente raggiungibile all’indirizzo musical.ly, che hanno fatto di queste modalità espressive una sorta di bandiera. Superata la noia implicita dei “vecchi” metodi e la patina di rispettabilità, che vediamo ancora stranamente attribuita a luoghi come Facebook e Twitter. Naturalmente, potreste aver riconosciuto ciò di cui sto parlando con il nome occidentalizzato di TikTok. Ma non è impossibile che abbiate solo in parte chiaro, quanto possa essere profonda la tana del Bianconiglio. O altre candide, cornute creature di questa Terra…
L’inquadratura rigorosamente verticale nonché fiera di esserlo (questi sono contenuti per lo smartphone, boomer!) mostra dunque un individuo in abito tradizionale tibetano e formidabili occhiali da sole californiani, completo di collana, borsa e cinta decorativa, che sembra riprendere alcune movenze tipiche dei film di Bollywood. Mentre il suo imponente compagno d’esibizione, rigorosamente immobile, lo osserva dando il mero contributo della sua presenza. Ora, qui ci sono molte cose da processare, ma prima di ogni altra l’effettivo aspetto di quest’ultimo, in realtà un palese appartenente alla specie domestica Bos grunniens, ovvero quelli che siamo soliti chiamare yak di montagna. Ma diverso da qualsiasi altro sia mai potuto comparire sulle pagine di un’enciclopedia dell’Asia: perché bianco come la neve, e con il lungo pelo attentamente lavato, pettinato e strigliato fino all’ottenimento della quintessenza di una nube di zucchero filato. Quasi l’ideale irraggiungibile dell’assoluta quintessenza, in ciò che si realizza nei più alti standard visuali di rappresentanza della sua specie.
Formalmente parlando, d’altra parte, non è certo inaudito che simili creature possano essere del tutto pallide, anche senza far ricorso a irregolarità genetiche come l’albinismo. Uno dei molti video del canale New China Tv mostra, ad esempio, un non meglio definito allevamento nel nord ovest del paese, specializzato nella selezione di questa particolare varietà dell’animale, chiamata per l’occasione una “perla della prateria”. Ma le curiose quanto brevi sequenze, caricate originariamente sul profilo 1tik02tok_nepal (registrazione richiesta) mostrano un esemplare tanto imponente, riconoscibile come maschio per la lunghezza delle corna, e straordinariamente ben tenuto da sembrar essere una creatura completamente diversa. Particolarmente notevole, a tal proposito, la frangia di quasi letterali “capelli” che ricadono sui suoi occhi, alla maniera normalmente attribuita ai cani da pecora di razza bobtail. Uno strano e trasversale riferimento, al mondo pastorale che non sembra in alcun modo risentire dei confini nazionali o perfino continentali, verso l’acquisizione di una serie di linee guida che potremmo giudicare come l’unica realizzazione chiaramente positiva della globalizzazione. Poiché ci permette di acquisire, divertirci, la creatività d’intere schiere d’artisti e personaggi che altrimenti, non avremmo mai potuto in alcun modo conoscere tra le pagine del vasto Web…

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La fiera ribellione dell’Australia che marciava sotto l’albero di coolibah

È possibile desumere molto della cultura intrinseca di un paese dal suo comportamento collettivo nei momenti di difficoltà, e non c’è nessun momento più difficile di questo: la scena è quella di un intero battaglione, intento a marciare in circostanze che purtroppo sono andate perse nella polvere degli archivi. Ma le uniformi, l’equipaggiamento, la qualità delle immagini e l’atmosfera patriottica della pellicola numero F01424 non lasciano particolari dubbi sull’epoca rappresentata, quasi certamente corrispondente all’apice della seconda guerra mondiale. Gli uomini seri e disciplinati, ritmicamente intenti a cadenzare il tempo della loro marcia. Mediante uno dei più antichi metodi tipicamente rappresentativi del mondo militare, consistente nell’esecuzione ritualizzata di un impeccabile motivo musicale. Ed è proprio la natura di quest’ultimo, così allegro e al tempo stesso carico di significato, nonché orecchiabile in maniera collateralmente meritoria, a donare un fascino particolare a questo breve filmato, che giunse a costituire un video virale minore sulle pagine di Internet di qualche anno fa. “Waltzing Matilda” canta con enfasi l’ufficiale in testa alla fila e assieme a lui, quello che finisce per costituire un letterale coro in divisa, non meno coordinato che se fosse intento a svolgere una parata d’onore per le strade di Melbourne, Sydney o Brisbane. Questo perché simili note, vagamente familiari per la mente collettiva dell’individuo non specializzato delle nazionalità più disparata, corrispondono effettivamente ad una delle voci maggiormente rappresentative di quel popolo e della sua storia, a partire dalla prima costituzione della storica colonia penale sulla terra di Van Diemen nel 1830, l’odierna isola tasmaniana. Corrispondente al gesto di piantare un seme, ed iniziare la dimostrazione complessiva all’Inghilterra e il resto del mondo, di come non potesse esistere un impulso più essenziale a mettersi all’opera che una terra vasta, fertile e incontaminata. Permettendo lo sviluppo delle più incrollabili radici di un’intera nazione.
Con una collocazione cronologica situata attorno al 1895, sebbene ogni tentativo di datazione esatta sia sfuggita ripetutamente agli sforzi dei filologi musicali, questa celebre canzone scritta dal poeta Andrew Barton “Banjo” Paterson secondo i crismi del genere noto come “ballata del Bush” fu quindi più volte eletta ad un magnifico riassunto dei valori stessi che portarono ad un così alto traguardo, assieme alla capacità d’arrangiarsi di coloro che per tanto a lungo furono una colonna portante dell’industria e dell’agricoltura locale. Definiti per l’appunto, in un tripudio memorabile di terminologia nazionale, gli swagman o “uomini del sacco a pelo” (chiamato per l’appunto, swag o Matilda) usato come un fagotto all’interno del quale custodire l’intera quantità dei propri averi, mentre vagavano (“waltzing“) lungo le aride distese che si frapponevano tra una stazione agricola e l’altra, ben sapendo come una scelta errata sulla prossima stazione del proprio viaggio potesse corrispondere a una mancanza di lavoro e coincidente rischio di morire di fame. Ma questa canzone ispirata, dichiaratamente, a un canto popolare preesistente udito quasi per caso alle corse ippiche di Dagworth Station dalla trentunenne Christina Macpherson, amica e forse spasimante di Paterson, potrebbe in effetti possedere anche un significato politico meno evidente, come dalla particolare vicenda storica cui potrebbe alludere, secondo le nozioni date per ufficiali dalla stessa Biblioteca Nazionale d’Australia. Un aspetto non facilmente trascurabile, quando si considera l’effettiva storia del personaggio di cui parlano quei versi, un swagman che si ferma sotto un albero di coolibah (eucalipto) a bollire l’acqua presso gli argini di un billabong, il tipico residuo di un’ansa di fiume rimasta scollegata dal corso principale, formando una sorta di basso lago a forma di mezzaluna. Quando all’improvviso, l’arrivo di una piccola pecora, chiamata in modo memorabile e per la sua propensione a saltare un jumbuck, lo induce a prenderla e metterla nel suo sacco, mentre le parole della canzone celebrano il fatto che da quel momento, l’animale potrà seguire lui ed il suo Matilda nelle allegre scorribande in giro per il paese… O venire, molti più probabilmente, cucinata. Ma è nella penultima strofa, di un testo non sempre del tutto identico a se stesso, che il racconto prende una piega meno spensierata, quando arriva il proprietario terriero locale, detto localmente squatter, seguito da tre trooper, nient’altro che poliziotti incaricati di restituire l’animale al suo legittimo proprietario. Ma nel catartico finale della situazione, sarà lo swagman a potersi guadagnare l’ultima parola nell’intera faccenda, saltano a piedi pari nel laghetto ed affogandovi all’interno, per lasciare come unico segno del suo passaggio un fantasma eternamente allegro, che continuerà il suo waltzer per le vaste ed incontaminate lande australiane. Una scelta che in quella particolare epoca, non avrebbe potuto fare a meno che suscitare una particolare suggestione…

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Il cuore di bronzo del tempio e la voce di Buddha che allontana i desideri e le tentazioni

La luce della luna irrorava le colline antistanti mentre un caldo senso d’entusiasmo diffuso percorreva il pubblico ammesso all’evento, nonostante le basse temperature tipiche della fine di gennaio a Kyoto. Il gruppo dei monaci, 16 in tutto e attaccati ad altrettante corde, intonava una solenne preghiera al centro di una scena che si presentava all’opposto rispetto alla quiete normalmente associata al contegno della meditazione. Il flash delle macchine fotografiche, lampeggiando ritmicamente, accompagnava il progressivo dondolamento del gruppo, una vista possibile soltanto una volta l’anno ed al verificarsi di specifiche condizioni. Uno dei religiosi, in contrapposizione al resto e stagliato dinnanzi al grande oggetto di metallo, guidava con la massima cura il ritmo delle operazioni, assicurandosi che la giusta cadenza in lieve accelerazione venisse rispettata. Una volta pronunciato per la settima volta il Namu Amida Butsu, l’uomo prese quindi un grande respiro, gridando a pieni polmoni “HitotsuSore!” (liberamente traducibile come oh, issa!) poco prima di lanciarsi, tra l’emozionato silenzio dei non-iniziati, acrobaticamente a terra, mentre i suoi colleghi lasciavano il più lente possibili le estremità delle loro cime. Risultato: il potente atari, suono armonico scaturito al cozzare del pesante ariete contro lo tsuki-za finemente ornato, parte rinforzata della famosa bonshō del tempio di Chion-in (知恩院, Monastero della Gratitudine) intento nel mettere in pratica la sua più importante ricorrenza. Niente meno che la più grande campana di bronzo di tutto il Giappone, un ponderoso strumento di 3,3 metri d’altezza e 2,7 di diametro, fuso secondo le incisioni rilevanti durante il priorato del sommo ecclesiastico Ōyo Reigan, nell’anno 1636. Mentre l’ora della mezzanotte si avvicinava inesorabilmente, quindi, i 15 monaci tirarono di nuovo a se le corde e la loro guida si tirò su con la pratica consumata di un maestro di arti marziali. Dopo tutto, la notte era ancora giovane. Nel trascorrere delle successive due ore, il possente bonshō avrebbe dovuto suonare altre 107 volte, ancora…
Ostentazione, rancore, invidia, superbia, arroganza, irresponsabilità, ipocrisia… Uno dopo l’altro, l’elenco dei vizi e delle tentazioni terrene avrebbero avuto modo di passare nella mente di tutti coloro, tra i presenti, che davano l’appropriato significato spirituale alle specifiche circostanze. Quelle del joyanokane (じょやの鐘 , letteralmente “campana del nuovo anno”) collocato rigorosamente nella notte del 31 dicembre, in modo che l’ultimo rintocco risuonasse esattamente al volgere del nuovo ciclo dei mesi, simboleggiando un nuovo inizio completamente privo delle preoccupazioni della vita fino a quel momento. Il modo più consigliabile, tra tutti, per avvicinarsi sensibilmente alla buddhità. Almeno secondo la dottrina ereditata da questa specifica confraternita situata nel sistema religioso delle Terre Pure, secondo cui la recitazione ripetuta di un’esternazione solenne può liberare la mente dai pensieri che ostinatamente impediscono la serenità dei viventi. Finalità tanto più efficientemente raggiungibile mediante l’impiego di un’ausilio simile a questo, frutto di una specifica serie di modalità costruttive ed integrato nell’atto stesso della venerazione, importato in Giappone almeno fin dall’epoca remota del periodo Kofun (250-538 d.C.) quando secondo le cronache del Kojiki e del Nihon Shoki, antichi testi a metà tra letteratura e storiografia, fu proprio il generale Ōtomo no Satehiko a riportarne i tre primi esempi da una campagna di conquista nella penisola coreana, durante il regno del 25° sovrano del paese, Buretsu-tennō. Oggetti destinati a diventare, attraverso le epoche precedenti, un importante strumento civile e militare, dal suono udibile a svariati chilometri di distanza, sia nell’urto iniziale che per il riverbero successivo, chiamato okuri o “decadimento”. Ma i fuochi delle guerre combattute dai primi samurai del paese, che ne usavano versioni più piccole per segnalare le manovre in battaglia, non si erano ancora spenti quando il profondo significato spirituale delle bonshō iniziava finalmente ad essere compreso dai sempre più numerosi seguaci del nuovo culto introdotto contestualmente dal continente. Quello che parlava di un profeta, e la sua comprensione superiore dello specifico funzionamento della mente umana…

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