L’iniziativa di affondare un’autostrada per avvicinare la Scandinavia al centro del continente europeo

Il 30 ottobre del 1990, senza particolari cerimonie, un foro del diametro di appena 50 mm venne completato orizzontalmente attraverso uno spesso strato di marna. Probabilmente uno dei più costosi di tutti i tempi, vista la maniera in cui completava finalmente il collegamento, dopo oltre due anni di lavoro, tra le gallerie scavate con immense trivelle a 55 metri di profondità e 50 Km di lunghezza sotto le fredde acque della Manica, preparando il sottosuolo al transito di due imponenti tragitti ferroviari. Così che l’Eurotunnel, inaugurato infine nel 1994, avrebbe finito per costituire una delle infrastrutture più notevoli della sua epoca, sebbene sussista ragionevolmente un tipo d’interrogativo dalla significativa pertinenza di una domanda: dovendo perseguire oggi lo stesso obiettivo, saremmo inclini a utilizzare macchinari equivalenti? Affrontare la stessa serie di difficoltà, potendo contare sull’esperienza precedentemente acquisita? Oppure fare affidamento a un tipo differente di soluzione, maggiormente calibrata sulle effettive esigenze di chi costruisce arterie di collegamento sotto i profondi strati dell’azzurra umidità terrestre… Come quello dell’immersione, applicato per la prima volta ed una singola corsia statunitense nel 1910 ma che proprio al volgere del millennio avrebbe dato prova della sua applicabilità su larga scala nel tunnel completato nel 1999 di Drogden, pari a 3.500 metri di cemento e acciaio letteralmente prefabbricati che contengono due corsie stradali ed altrettante dedicate al passaggio di convogli elettrici ad hoc, collegando efficacemente la punta meridionale della Svezia con l’importante porto danese di Copenaghen, assieme al ponte consequenziale di Øresund. Il che non prescinde una possibilità per l’ipotetico viaggiatore di dirigersi ulteriormente ad occidente, oltrepassando lo Storebæltsforbindelsen (collegamento fisso del Grande Belt) per giungere in una trasferta ininterrotta fino alla parte continentale della Danimarca, oltre un ponte a trave scatolare tra la Selandia e l’isola di Sprogø. Eppure fin da un lungo periodo e stata percepita, nella cognizione logistica di tali situazioni rispettivamente risalenti al 1998 e ’99, una grande mancanza veicolare a vantaggio di tutti coloro che, per ragioni di qualsivoglia tipo, avessero deciso piuttosto di procedere verso il meridione. Per raggiungere l’isola tedesca di Fehmarn, passando per la Lollandia, terra emersa oltre la quale l’unica maniera per procedere era imbarcarsi su un traghetto perdendo un tempo stimato che si aggira attorno ai 40 minuti. Del tutto accettabile in determinate circostanze, ma non sempre, e d’altra parte inadeguato in un contesto in cui simili attraversamenti richiedono generalmente una mera frazione di quel prolungato periodo di flemmatica navigazione. Per cui fin dall’epoca della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca della Danimarca, l’architetto Heinrich Bartmann aveva elaborato un piano ambizioso per unire le due terre mediante l’impiego di un ponte sospeso, poi passato in secondo piano per le problematiche di tutt’altra natura derivanti dalla conclusione del sanguinoso conflitto. Ciò detto, l’ipotesi continuò ad affascinare la gente di quel paese, fino a concretizzarsi verso l’inizio degli anni ’90 con la proposta molto concreta di quello che sarebbe diventato di gran lunga il ponte sospeso più lungo del mondo, con quattro pilastri ed oltre 20 Km di carreggiata sopra le acque ondose dello stretto. L’effettivo coronamento di parecchi anni di pianificazione, destinato tuttavia a naufragare ancor prima dell’inizio dei lavori, dopo uno studio di fattibilità capace d’evidenziare la maniera in cui i forti venti trasversali, tra le direzioni est ed ovest, avrebbero reso quell’avveniristico sentiero inaccessibile per una parte significativa dell’anno. Dal che, l’idea: perché non invitare gli aspiranti attraversatori, piuttosto, a procedere direttamente sotto il mare…

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L’avveniristico robot umanoide creato per effettuare la manutenzione delle ferrovie giapponesi

“Le gambe… Sono soltanto una decorazione, ad ogni modo” affermava con la canonica sicurezza l’eroe oscuro Char Aznable, rivale del protagonista terrestre Amuro Ray, poco prima della battaglia per porre fine alla guerra durata un anno, presso la base asteroidale di A Baoa Qu. Di fronte a lui, il titanico mobile suite da combattimento MSN-02 Zeong, costruito al fine di massimizzare i suoi riflessi e potenzialità mentali superiori, tipiche degli umani geneticamente adattati all’assenza di gravità noti come Newtype. Un mezzo da combattimento che sarebbe stato imbattibile in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo di completarlo. Ma che pur completamente privo degli arti inferiori, avrebbe dato notevole filo da torcere al nemico fluttuando nello spazio cosmico, finendo per distruggersi a vicenda col temuto RX-78-2 Gundam, eponimo robot della serie. E dopo tutto, anche in linea di principio, come dargli torto? Dopo gli oltre 40 episodi, in cui più volte il co-protagonista Hayato Kobayashi era venuto in aiuto della causa comune, ai comandi dell’ormai obsoleto Guntank, macchina d’artiglieria umanoide capace di spostarsi unicamente su una coppia di cingoli, secondo le linee guida di un comune carro armato. Ma il concetto che una tale soluzione debba necessariamente costituire un compromesso, rispetto alle movenze più “eroiche” dei robot dotati della stessa quantità di arti degli esseri umani, deriva da sensibilità tipicamente appartenenti al mondo creativo e fantastico, dove una particolare estetica dei partecipanti al dramma determina il destino delle loro gesta nel dipanarsi della vicenda. Laddove nel mondo artificiale come quello creato dall’evoluzione della biologia, ogni essere viene al mondo con uno scopo, da cui deriva l’ottimizzazione delle proprie caratteristiche inerenti.
Il che è compreso molto bene nell’ambito della moderna società giapponese, dove fin dall’immediato dopoguerra la tecnologia dei nostri giorni è vista come uno strumento privilegiato, utile a risolvere i problemi di questo mondo ed agevolare l’inizio di una nuova epoca, il cosiddetto Secolo Universale immaginato da Yoshiyuki Tomino, autore ed ideatore della serie pluri-generazionale del robot Gundam. Perciò chi meglio di loro, le Ferrovie di Stato (JR – Japan Railway) poteva mostrare l’andamento futuro di un tale percorso, grazie all’implementazione dimostrativa di un sistema che non è soltanto marketing, ma una sincera applicazione utile a risolvere un ostacolo per nulla trascurabile allo svolgimento delle sue mansioni: la quantità statisticamente rilevante d’incidenti annuali, che tendono a verificarsi durante gli interventi per la sostituzione e riparazione della segnaletica, delle stazioni e i tratti di ferrovia soggetti a maggiore usura, fino ad oggi effettuati con notevole dispendio d’energia umana, proprio perché il tipo di precisione richiesta risulta essere maggiore di quella posseduta da una macchina… Convenzionale. Ed è qui che entra in gioco la Kabushikigaisha hito-ki ittai (株式会社人機一体 – Letteralmente: Human Machinery Inc.) compagnia startup nata in grembo all’Università di Kyoto Ritsumeikan nell’ormai remoto 2007, originariamente al fine di creare macchine robotiche per la manutenzione nel vuoto spaziale. Almeno fino all’approdo in tempi recenti ad una collaborazione con la Nippon Signal, importante fornitrice di servizi della Japan Railway. Per la creazione di un nuovo, perfetto (gigantesco) tipo di operaio ferroviario…

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Esploratori di un diverso tipo di Città Proibita, poggiata sopra il grigio asfalto di Shijiazhuang

La più drastica connotazione dell’urbanistica, antica, moderna e contemporanea, può essere individuata nel concetto di enclave. Una città nella città, per così dire, all’interno della quale non sussistono le stesse regole, né geometrie, né applicazioni del concetto di valore di mercato. Racchiusi spesse volte da alte mura, piuttosto che più o meno invalicabili recinzioni, simili quartieri sono sempre appartenuti ad un’elite, o comunque le alte personalità depositarie di un qualche tipo d’importante dissonanza, rispetto alla restante collettività degli abitanti “comuni”. Sebbene in epoca moderna, l’appiattimento per lo meno a parole della segmentazione demografica, secondo l’idea esclusivamente filosofica che ogni singolo individuo rappresenti un potenziale equivalente, abbia eliminato le suddivisioni ereditarie, riservando tali privilegi abitativi in base al flusso di un diverso tipo di risorse: quelle interconnesse ai persistenti vezzi del dio Denaro. Ed è una narrativa così tremendamente affascinante, per i commentatori e gli economi dell’Occidente alle prese con la Cina, rilevare il modo in cui le straordinarie infrastrutture costruite dal più potente paese comunista al mondo restino talvolta totalmente inabitate, causa l’evidente ed altresì probabile cattiva gestione amministrativa delle circostanze. Così che fiumi di parole, nel corso delle ultime due decadi, sono stati spesi per luoghi come Pudong, vicino Shanghai, o gli svettanti grattacieli “vuoti” di Ordos City, nel Kangbashi al confine con la Mongolia. Il che permetterebbe di qualificare un’altra cattedrale nel deserto come quella dell’ancor più recente Xiangyun International Project, complesso residenziale e commerciale di 1800 acri costruito all’interno della capitale della provincia dello Hebei, la città di 14 milioni di abitanti Shijiazhuang, come l’ennesimo capitolo di un tale dramma al rallentatore, costruito solo al fine d’incassare grandi somme di denaro per le commissioni, senza che alcun tipo di bisogno comprovato della sua esistenza. Laddove la grave realtà dei fatti, com’è possibile apprezzare da una rapida ricerca in materia, deriva dal fallimento di un sistema diametralmente opposto: quello di un’azienda detentrice di un capitale che, senz’apparente coerenza di causa, ha improvvisamente deciso di dichiarare bancarotta. Esattamente 8 anni fa…Il suo nome: Hebei Real Estate Development Group. Con il risultato che possiamo ad oggi ammirare nell’esplorazione di urbex selvaggio (e un po’ spericolato) del giovane gruppo di avventurieri The Proper People.
La visione è di quelle che parrebbero effettivamente appartenere a un certo tipo di cinematografia di genere, incentrato sulla fine dell’attuale civiltà terrestre a seguito di una spropositata catastrofe generazionale; con i numerosi grattacieli ed edifici in ogni stile immaginale, tra cui europeo, arabesco e vagamente russeggiante (qualcuno l’ha chiamata, persino e con ben poca originalità, Venezia d’Oriente) utilizzati a confluire in un’amalgama priva di limiti o mancanze, fatta eccezione per il piccolo “dettaglio” di rifiniture come porte, finestre o altre amenità di simile portata. Poiché tutto resta, senza valide esclusioni, essenzialmente incompleto e sospeso nel tempo, costituendo il chiaro esempio non di quello che era stato un tempo, ma che avrebbe potuto essere se soltanto le stelle fossero riuscite ad allinearsi. Ovvero se i pianeti, dall’alta volta cosmica, avessero irrorato della buona sorte questa terra strategicamente valida, proprio perché situata a poca distanza dalla principale stazione per i treni ultrarapidi di una delle maggiori metropoli cinesi. Mentre l’evidenza non può fare a meno d’insegnarci che ben poco importa possedere un ottimo Feng shui, quando manca un altro tipo di risorsa, molto più importante nelle cognizioni insuperabili del sistema odierno…

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Cosa resta di davvero autentico all’interno della Casa Bianca

Osservando un grande monumento dall’esterno, qualunque possa essere stato il secolo del suo completamento, è particolarmente facile inoltrarsi con la mente nella percezione innaturale che la tabella delle epoche sia stata riportata temporaneamente indietro. Mentre il nostro sguardo può spostarsi sull’essenza stessa, di quell’ormai trascorso momento storico, condividendo l’esperienza estetica dei nostri antichi predecessori. Eppure se c’è una caratteristica importante della mente umana, è la sua semplicità nell’essere ingannata addirittura consapevolmente, ogni qualvolta ciò è proficuo nella continuità formale di un’utile illusione. Ragionamento ancor più vero quando l’asse di riferimento preso in considerazione, nell’elaborazione del teorema, include l’ampia collettività di un’intero gruppo nazionale: uomini, donne e la loro prole, riuniti sotto il simbolo arbitrario di una bandiera. E tutti gli elementi, più o meno tangibili che da essa traggono potere, come le permutazioni al termine di una sequenza di cifre immutabili nella vasta allegoria degli eventi. Campo in cui, la tradizione ce lo insegna, gli Stati Uniti riescono ad essere dei veri maestri, grazie all’applicazione di una serie di principi e metodologie che uniscono il particolare all’assoluto, il dettaglio all’insieme, le moltitudini a una singola famiglia e la sua pubblica esperienza di vita. Poche cose furono in effetti giudicate più importanti, alla pianificazione nel 1791 della nuova capitale Washington DC da parte dell’architetto francese Pierre l’Enfant, della casa presso cui avrebbe avuto l’onere e l’onore di abitare il sommo Presidente, dopo i precedenti alloggi utilizzati temporaneamente da George Washington presso New York e Philadelphia. In un letterale capovolgimento tra funzionalità e simbologia, grazie all’impiego di richiami all’arte ed all’architettura neoclassica, come del resto fatto per l’antistante e non troppo distante Campidoglio della Nazione. Ma un conto è creare qualcosa che si mostri totalmente incriticabile sulla base del suo aspetto visuale, tutt’altra cosa poter contare su dei crismi operativi tali da poterlo rendere incrollabile di fronte al rapido trascorrere delle generazioni. Ovvero solido come un’anfiteatro, acquedotto o altra struttura dell’antica Roma, a partire da quel fatidico anno 1800 del suo completamento effettivo. Soltanto 14 anni prima che un’armata inglese, durante il conflitto riacceso nuovamente nel 1812, avesse l’iniziativa di appiccare il fuoco all’edificio, permettendone la salvezza solamente grazie a un’improvviso quanto provvidenziale scroscio di pioggia. La prima di una lunga, nonché irrimediabile serie di cicatrici…
Spostando perciò la nostra lente al 1945, al momento critico e poco prima del tragico bombardamento che avrebbe sancito la fine della seconda guerra mondiale, il 33° presidente Harry Truman impugnò le redini di un paese senz’altro stanco, ma trionfale ed unito. All’inizio di un periodo di rinnovato prestigio internazionale e trionfo economico degli Stati Uniti, tuttavia, la stessa stabilità non poteva essere individuata nella sua casa più celebre e rappresentativa. Come reso palese da una serie di lettere indirizzate da parte del politico alla moglie Bess prima che si trasferisse, nelle quali raccontava di “rumorosi fantasmi” e “strani scricchiolii” udibili a tutti e tre i piani della candida magione, perfettamente capaci di suscitare un senso d’inquietudine in chicchessia. Sentimento più che ragionevole e giustificato, che potremmo ricondurre a un’istintivo senso di sopravvivenza, considerando quanto si sarebbe andati vicini al crollo dell’intero ambaradan!

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