Dopo 170 anni, la prima testa dello Zodiaco fa ritorno al palazzo dell’Imperatore: è il cavallo

Otto inverni a questa parte, nel corso della produttiva stagione natalizia, un intraprendente agente segreto vestito con tuta a rotelle si sdraiava in senso longitudinale sulla ruvida superficie dello scosceso asfalto, prima di tentare la rocambolesca fuga dai discendenti di un malefico saccheggiatore. Quell’uomo, Jackie Chan, era l’attore protagonista, produttore, regista, scrittore stuntman, compositore del racconto cinematografico di una storia lunga oltre un secolo e mezzo, che pur definire profondamente significativa per lui sarebbe stato, in un certo senso, riduttivo. Perché come protagonista di quel film d’azione in apparenza privo di particolari implicazioni, dal titolo quasi schematico di CZ12 (十二生肖 – Shí-èr Shēngxiāo) egli assumeva in primo luogo il ruolo di un eroe per tutto il popolo cinese e gli amanti dell’arte in generale, essendosi attribuito l’ardua missione fantastica di recuperare, attraverso multiple peripezie, il pegno bronzeo di un’antica promessa mai mantenuta: riportare un bene irrimpiazzabile, e storicamente prezioso nel luogo in cui doveva stare di diritto; anzi, per essere più preciso, dodici pegni. E chi avrebbe mai pensato che proprio in questo drammatico 2012, con tutte le sue tragedie, la speranzosa missione avrebbe fatto il primo passo verso il suo difficile coronamento finale? Un compromesso, ma anche una vittoria. Per cui sarà opportuno cominciare, come facciamo di consueto, dal principio.
Questo è un racconto che trova la sua origine nel distante XVIII secolo e contiene, insospettabilmente, anche un significativo pezzo d’Italia. Quello accompagnato fino alla distante corte dell’imperatore Qing, presso l’eterna città di Pechino, dal gesuita, scienziato, missionario e pittore Giuseppe Castiglione, autore di una quantità notevole di splendidi ritratti sincretistici, in cui la finezza e l’attenzione ai dettagli dell’Estremo Oriente riuscirono incontrare per la prima volta la sapienza prospettica e la precisione scientifica dell’arte europea. Per una collaborazione a corte già lunga oltre 30 anni, che attorno attorno all’anno 1747 l’aveva visto già servire per lungo tempo il compianto imperatore Kangxi, quando gli succedette al trono quello che sarebbe stato uno dei più importanti governanti della Cina e del mondo intero, il longevo, potente ed ambizioso Qianlong. Dando all’inizio ai 63 anni di trionfi militari e politici, continuati anche dopo l’abdicazione soltanto simbolica nei confronti del suo 15° figlio Jiaqing, oltre alle numerose riforme ed il pungo di ferro mostrato nei rapporti politici con l’Occidente. Ma anche un’amore per l’arte ed il collezionismo, che l’avrebbe portato in quel frangente a immaginare un luogo degno di portare onore ai suoi innumerevoli tesori e rendere immortale il suo nome. Così ebbe inizio il lungo e complicato progetto per l’ingrandimento poco fuori la sua capitale del già esistente Yuanming Yuan (圆明园 – “Giardino della Luce Perfetta”) attraverso l’inclusione di una nuova tipologia d’edifici, quelli costruiti con la pietra solida, e i precetti architettonici dell’Occidente.
Naturalmente la richiesta di Qianlong coinvolse Castiglione, il suo principale consigliere nelle “faccende europee” ed altrettanto naturalmente quest’ultimo, che capiva di architettura ma non era un ingegnere, coinvolse immediatamente il confratello gesuita ed esperto in materia Michel Benoist, di origini francesi e laureato presso la prestigiosa università di Digione. L’intento reso immediatamente palese da queste due insigne menti, alle quali venne riservato nel gigantesco complesso l’intero ampio spazio delle cosiddette Haiyantang ( 海晏堂 – “Residenze Occidentali”) fu quello di applicare le considerevoli risorse di corte, finanziarie ed artigiane, per vedere ultimato un qualcosa che potesse rivaleggiare con la leggendaria magnificenza della reggia di Versailles, grande leggenda di quell’epoca Barocca. Vero e proprio pièce de résistance, a tal fine, sarebbe stato un giardino con voliere di magnifici uccelli, labirinti di siepi e vaste sale coperte con illusioni ottiche dipinte dallo stesso Castiglione. Al centro della scenografica location, quindi, avrebbe trovato posto una fontana. Qualcosa di mai visto in tutto l’intero vasto territorio d’Asia…

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TKS all’attacco: l’efficienza bellica di una scatola di sardine

L’avanzata tedesca nei territori polacchi oggetto del trattato di Versailles alla fine del 1939 viene generalmente riassunta nei programmi scolastici come “rapida e priva di resistenza”. Un conflitto della durata di un mese in cui la superiorità tattica e operativa della Wehrmacht si mostrò per la prima volta sul palcoscenico internazionale, rivelando a tutti la straordinaria portata del rinnovato problema che stava per profilarsi nel territorio europeo. Qualora s’intenda approfondire maggiormente la questione, tuttavia, sarà possibile avvicinarsi a una serie di battaglie lunga un mese in cui non fu certo la mancanza di capacità o il morale, a impedire un capovolgimento sul nascere di una delle più grandi tragedie della storia umana. Bensì un’evidente quanto incolmabile superiorità tecnologica, in grado di cambiare sensibilmente le caratteristiche di quella che potesse definirsi un’efficiente macchina da guerra e rendendo istantaneamente obsoleta la maggior parte di quanto era stato considerato fino a quel momento l’assoluto stato dell’arte. Contrariamente a quanto siamo stati spesso indotti a pensare, infatti, il comando generale di Varsavia disponeva di un esercito ben organizzato e capace di schierare, tra le sue risorse maggiormente significative, una quantità di esattamente 870 unità corazzate, da contrapporre ai circa 2700 panzer inviati oltre i confini dalla Germania. Ciascuna relativamente moderna dal punto di vista della corazzatura ed armamento, capace di muoversi ad un ritmo sostenuto e dotata di un armamento capace d’impensierire qualsiasi reparto di fanteria meccanizzato… Ma il TKS, compatto tankette di 2,5 tonnellate, era figlio di una concezione di guerra ormai vecchia di circa un decennio. In cui l’approccio metodologico all’avanzata sotto il fuoco nemico partiva dal presupposto secondo cui fosse possibile aggirare l’avversario dotato di un arco di fuoco inferiore ai 360 gradi offerti dalla cognizione della torretta motorizzata, l’idea che tanto profondamente aveva rivoluzionato il concetto stesso di conflitto tra veicoli sul campo di battaglia moderno. E con l’obiettivo principale di accompagnare i principali mezzi pesanti di uno schieramento oltre le trincee, coprendo i loro fianchi mentre i resto appiedato dell’armata s’industriava per superare l’ostacolo e scardinare ogni difesa posta in essere dalla controparte. Sulla base di un progetto inglese risalente al 1927, prodotto dalla Vickers-Armstrong inizialmente per l’esportazione nei principali paesi europei, che tanto aveva fatto per modificare le regole di un futuro conflitto, ormai paventato a più livelli tra i confini delle nazioni in corsa verso l’ammodernamento dei loro sistemi di combattimento. Il suo nome scelto, a quell’epoca, era Carden Loyd dall’interpretazione tecnologica che era stata offerta dall’omonima compagnia di trattori, sulla base di un’idea dell’ingegnere e maggiore militare Giffard LeQuesne Martel. Sebbene successivamente all’acquisto di un primo lotto di 10 unità, l’esercito polacco avesse immediatamente deciso di apportare una serie significativa di miglioramenti. Così piuttosto che produrre localmente su licenza il veicolo, venne coinvolta l’azienda PZI ed il tenente Stanisław Marczewski, che disegnò una versione riveduta e corretta del sistema di guida e sospensione, con nuovi rulli tendi-cingolo e un’ulteriore ruota motrice posteriore. In qualità di armamento venne scelta una mitragliatrice Hotchkiss wz. 25 o 30 da 7,92 mm, mentre la corazza frontale venne ispessita fino a 10 mm, incrementando sensibilmente i propositi di sopravvivenza dell’equipaggio composto da sole due persone. Rinominato in tale accezione con l’acronimo TK e numerato in serie successive da 1 a 3, il carretto veniva quindi inzialmente classificato sulla base del motore d’adozione: un Ford Type A da 22,5 cavalli per il primo, il Type B da 40 per il secondo. Mentre la terza versione, che mantenne quest’ultimo impianto, vantava ulteriori perfezionamenti al sistema di trasmissione ed una visibilità migliore per il comandante/artigliere. Verso la prima metà del 1933, tuttavia, il TK-3 venne sottoposto ad un ulteriore progetto di miglioramento, che avrebbe condotto ben prima dello scoppio della guerra allo schieramento della sua versione profondamente rivisitata TKS, dotata di motore Fiat 122 AC a 6 cilindri (potenza 42 cavalli) e giungendo al veicolo che nei fatti, si sarebbe contrapposto all’avanzata inarrestabile dei tedeschi.

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La tragica storia della vespa che uccise 189 persone

Se esistesse una borsa con le quotazioni pubbliche degli animali, la famiglia delle Vespidae si troverebbe regolarmente nella più profonda valle del grafico sugli andamenti finanziari. Quale altra creatura può vantare, in effetti, la stessa indole aggressiva senza un’evidente ragione, insieme a quella capacità di nuocere a chiunque, semplicemente ogni qualvolta si presenta l’occasione d’intingere nel sangue il suo crudele pungiglione! Unica consolazione, in tutto questo, può essere la consapevolezza che trattandosi di una creatura dalle dimensioni contenute, l’imenottero dalla colorazione aposematica per eccellenza, il suo presunto piano di annientamento collettivo non potrà riuscire a realizzarsi in modo repentino e irrimediabile, bensì tramite una serie di malcapitati eventi, persone allergiche, dolore improvviso a guidatori di macchinari pesanti… E così via. Vi fu tuttavia un singolo caso, nel remoto 1996 presso la Repubblica Dominicana, ad est dell’isola di Haiti, in cui l’aggressiva parente della formica finì per ritrovarsi in una contingenza idonea e per il tempo totalmente imprevedibile, tale da permettergli di porre istantaneamente fine a una quantità terribilmente alta di vite umane. In maniera forse evitabile, magari condizionata da fattori collaterali, eppure nondimeno derivante in modo logico da una catena di causa ed effetto, riconducibile direttamente a quel comportamento che è il prodotto di letterali milioni di generazioni.
Perché le leonesse cacciano in branco. Le tigri tendono gli agguati. Ed un certo tipo d’insetto, mischiando il fango alla saliva, costruisce un nido piccolo e compatto, tale da ostruire in modo accidentale spazi precedentemente definiti. Anche quando farlo, da un punto di vista cosmico, costituisce un’imprudenza di portata orribilmente significativa. Sto parlando, per intenderci, del tipo di vespa che in Italia definiamo “muratrice” o “vasaio” per la sua capacità di trasformare il fango in solide pareti, usate normalmente al fine di proteggere lo sviluppo della sua prole. Mentre in America e Sud America in particolare, data la notevole diffusione delle loro cugine e nemiche della famiglia Chrysididae, anche chiamate “vespe cuculo” per l’abitudine di sostituire le altrui larve nella culla con le proprie, persino tale misura architettonica viene giudicata insufficiente, portando le ronzanti madri alla ricerca di stretti pertugi rigorosamente nascosti alla luce del Sole ed ogni eventuale sguardo indiscreto. Da cui deriva il nome comune della Pachodynerus nasidens anche detta “vespa del buco della chiave” data la natura del tipo di luoghi ove si trova spesso a costruire la propria casa. Ma se l’eventualità di ritrovarvi con un aggressivo essere pungente che vi assale presso l’uscio dovesse sembrarvi l’ipotesi peggiore, vi ricordo a questo punto il titolo del qui presente post, spostando la vostra attenzione al contesto specifico di un aeroporto. Tra tutti i templi dei trasporti moderni e contemporanei, quello dai più elevati standard di di sicurezza, proprio per la natura inerentemente precaria di un jet di linea dal peso di centinaia di tonnellate, che decolla o atterra ad oltre 250 Km/h con potenziali conseguenze impreviste fin troppo facili da immaginare. Ma non è davvero mai possibile riuscire a difendersi da quello che non si riesce a vedere. Ed anche con un rapporto di dimensioni paragonabile al finale di Guerre Stellari (“Grande o piccolo diverso soltanto in tua mente” affermava con saggezza il maestro Yoda) l’inconcepibile può riuscire a verificarsi. Scatenando senza nessun tipo di pregiudizio le più evidenti implicazioni dell’inferno in Terra…

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La verità botanica sul fungo medico dei cavalieri di Malta

La tempesta di proiettili, spade e punte di lancia infuriò approssimativamente per un periodo di quattro mesi, nonostante il clima relativamente temperato dell’isola, finché al diradarsi delle nubi, e il provvidenziale sbarco della flotta mista spagnola ed italiana da Occidente, i soldati ottomani furono respinti da quel territorio strategico che nonostante il diritto storico da loro percepito, a partire dal 1310 era stato occupato dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di ritorno dalla Città Santa di Gerusalemme, che qui avevano costruito le loro imprendibili fortezze. Al sicuro contro chiunque, tranne gli oltre 40.000 uomini che esattamente 255 anni dopo sarebbero stati condotti fin qui da Solimano il Magnifico in persona, fermamente intenzionato a ricacciare tutta la cristianità entro lo spazio che il mondo aveva iniziato a definire “Europa”. Si trattò, dunque, di un confronto sanguinario, e dispendioso in termini di vite umane, durante cui molti dei circa 500 cavalieri, assistiti da una milizia composta da appena 6.000 combattenti ausiliari, restarono a più riprese feriti mentre impugnavano le armi con la forza della disperazione, dalle alte mura merlate degli insediamenti di Birgu, Sant’Angelo e San Michele. Una condizione che avrebbe coinvolto anche, verso le ultime battute della lotta, niente meno che l’ormai settantenne Jean Parisot (1495-1568) gran maestro dell’Ordine che si dice nel momento dell’insperato trionfo, giacesse tra lenzuola insanguinate in attesa della sua inevitabile dipartita. Se non che una volta tornati in possesso dell’isola, i suoi fedeli sottoposti poterono accedere alla roccia benedetta che si trovava a largo della vicina isola di Gozo e con essa il suo tesoro vegetale, offrendo al loro amato condottiero un’ultima speranza di avere in salvo la vita.
Misterioso, maleodorante, assai probabilmente magico; il “fungo” di Malta sembrava essersi guadagnato, attraverso le decadi trascorse, una meritata fama di miracolosa panacea di tutti i mali, grazie alla sapiente distribuzione da parte dei controllori militari della sua unica fonte acclarata presso le maggiori corti d’Europa, dove costituiva un dono degno dei sovrani più rinomati. Largamente noto alle popolazioni arabe e nordafricane con il nome di tartuth, poiché piuttosto comune alle più basse latitudini mediterranee, esso aveva infatti l’unico punto d’origine a portata di mano dei cristiani proprio in quel particolare scoglio, nella baia di Dwejra, le cui pareti erano state rese scivolose artificialmente al fine di evitarne l’eventuale furto da parte di coloro che aspiravano a ricchezze del tutto spropositate. Tra le doti fantastiche attribuite a una tale escrescenza semi-sotterranea, con l’aspetto rossastro, vagamente fallico e bulboso, possiamo citare: fermare il sanguinamento ed il vomito, curare le malattie a trasmissione sessuale, rinforzare la virilità e gli organi interni, bloccare l’ipertensione o la mestruazione irregolare. Egualmente utile a uomini e donne, tale bizzarra esistenza veniva quindi estratta con cura, sminuzzata e trasformata in una spezia, dal valore pari o superiore a quello dell’oro. E se a questo punto doveste sorgere in voi l’assolutamente condivisibile obiezione, secondo cui uno spesso sostrato micologico sia particolarmente difficile da spiegare, in uno scoglio dall’aria salmastra e battuto per 12 mesi l’anno dal cocente Sole meridionale, sarà indubbiamente il caso di chiarire come tutti i cavalieri, gli ecclesiastici ed i rinomati filosofi naturali di quei tempi avessero nei fatti compiuto un madornale errore; poiché ciò che oggi trova il nome scientifico di Cynomorium, un composto in lingua greca che allude al pene dei cani cui viene metaforicamente posto in associazione, non è in effetti un fungo nonostante l’apparente somiglianza esteriore, bensì il fiore di una pianta parassita assai particolare, concepito per attrarre l’interesse delle mosche verso il diabolico, dispendioso perpetrarsi del suo inquietante approccio alla vita…

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