L’ideale perfezione di un giardino iranico tra le sabbie dell’ancestrale Mesopotamia

La grande integrazione tra il pensiero e la materia è un sincretismo che ha condotto gli uomini ad edificare, attraverso i millenni, opere destinate a varcare le generazioni non soltanto in senso tangibile, ma anche come punto di riferimento logico per l’ulteriore miglioramento dei princìpi e fondamenti di quei mondi. Uno di questi è l’essenziale spazio creato come punto di meditazione, relax o mistica ricerca di equilibrio individuale noto come parādaiĵah o “recinto murato”, etimologicamente interconnesso con il luogo menzionato in successive descrizioni dell’immacolato stato di grazia antecedente al concetto stesso di Storia. Quell’oasi nel deserto della stessa esistenza, popolato di piante ed animali, scroscianti fiumi e torrenti. Una terra che sarebbe stata la promessa dei popoli futuri, una volta elaborato il concetto stesso di aldilà e tutto ciò che ne deriva come ricompensa delle sofferenze per i probi di questa Terra. Non a caso nelle prime traduzioni in lingua greca di quegli antichi testi destinati a diventare la Bibbia cristiana, proprio tale termine venne impiegato al fine di riferirsi al luogo dove Adamo ed Eva avrebbero tradito la fiducia dell’Onnipotente. Ma ci sono molti “paradisi” nel contesto geografico agli albori stessi della civiltà ed uno dei più celebri rimane, ad oggi, il Bāgh-e Shāzdeh di Mahan o “giardino del principe”, esempio formale dei crismi architettonici persiani traferiti al XIX secolo, per il volere inizialmente del nobile minore della dinastia Qajar, Mohammad Hassan. Erede del khanato di Iravan, che si era trasferito successivamente al proprio matrimonio con la principessa Mahrokhsar Khanom, ottenendo una posizione amministrativa nel governo centrale di Teheran. Nient’altro che un punto di partenza, senz’altro, per un’opera di questa portata: il tipo di residenza e luogo di ritrovo utilizzato normalmente per cerimonie o incontri tra i personaggi più importanti di quell’Era travagliata, su una scala e con perizia largamente superiori alla normalità. Stiamo parlando, in altri termini, di 5,5 ettari circondati da un muro rettangolare con spazi adibiti ad alloggi finemente ornati, posti ai margini di una delle zone più aride dell’intera nazione dell’odierno Iran, il deserto “assoluto” noto come Dasht-e Lut. Eppure a ben vedere ciò che sussiste all’interno del complesso, non si direbbe. Nella separazione in quadranti egualmente alberati secondo i crismi del charbagh o “parco dei quattro quadranti”, percorsi e suddivisi da canali artificiali che sfociano in spettacolari fontane zampillanti e aiuole ricolme di piante e fiori rari. Nell’espressione di più assoluta e incomparabile magnificenza che nessuno, prima di quel momento, avrebbe mai potuto pensare di osservare in siffatto luogo…

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Il significato della guglia che sovrasta le dimore tipiche dell’isola di Sumba

Nelle circostanze cittadine contemporanee, l’espressione più elevata di prestigio è il grattacielo. Edificio funzionale alla dimostrazione che niente può costituire un limite, quando l’ambizione irriducibile dell’uomo entra in contatto con il punto di vista razionale dell’ingegneria. Una visione di cosa sia davvero importante in campo architettonico che, da un particolare punto di vista, emerge oltre gli alberi delle fitte foreste indonesiane, presso l’eponima terra emersa nell’arcipelago dell’arcipelago, l’agognata e lungamente incontaminata isola di Sumba. Patria di un gruppo etnico, ed il relativo sistema culturale e religioso, capace di sopravvivere alle influenze delle principali religioni monoteiste nonostante le pressioni governative di vecchia data, che considerano l’antica disciplina e le dinamiche del cosiddetto Marapu come una precipua “mancanza” di alcun tipo di devozione. Il che al di là dell’astrazione formale, non potrebbe essere più lontano dalla verità quando si considera la stretta integrazione di questo ancestrale culto degli antenati con stile di vita e soprattutto la progettazione dei luoghi abitabili da parte di queste genti indissolubili da un’importante prassi tradizionale. Il cui nome nella lingua locale, uma mbatangu significa in effetti: “casa appuntita” con diretto riferimento al colmo dalla solida struttura lignea e un’impermeabile copertura di paglia, capace di raggiungere e superare agevolmente i 10 metri d’altezza. Una visione indubbiamente singolare, quando si considera l’estensione di queste dimore simili a imponenti capanne, costituite da un quadrato di non più largo di 15 metri e la maniera in cui un intero villaggio, composto da dozzine di queste strutture, possa presentare un letterale skyline ribassato, eppur vagamente riconducibile a quello di città come New York, Tokyo o Dubai. Per una sorta d’inevitabile competizione in termini di prestigio, da parte di ciascun gruppo familiare allargato responsabile della costruzione degli edifici, ma anche una sincera necessità psicologica relativa all’accoglienza di energie mistiche, responsabili di offrire protezione ai loro devoti e tutti coloro che continuano ad eseguire i rituali appropriati. Importante filo conduttore della religione Marapu è che i nostri predecessori continuino idealmente a sopravvivere. Necessitando di uno spazio degno, ed adeguatamente sopraelevato, che possa competergli nella perpetua prosecuzione dei giorni…

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L’enigma incendiario dei popoli che fondevano la pietra delle antiche dimore

Attraverso secoli e millenni inverecondi, sotto l’egida di Dei vendicativi e nel trionfo delle basiche pulsioni animalesche, non è mai cambiato il metodo fondamentale usato dagli umani per imporre le proprie verità nel mondo. Forza d’intenti e convinzioni, quell’identità possente ed immutabile di chi è convinto. Ma soprattutto ed al di là di ogni possibile punto di vista, la forza inarrestabile delle armi. Strumenti antichi come quelli che governano l’istituzione stessa della civiltà, spesso identificati in qualità di metodi per elevarsi e controllare la natura. Primo tra tutti, il fuoco. E i segni bellici del suo utilizzo, l’energica possenza concentrata ove un qualcosa che era stato necessario, ora sognava di essere distrutto. Come cicatrici senza tempo, cumuli di pietre parzialmente annerite si presentano in alcuni luoghi dell’Europa settentrionale. Ma soprattutto in Scozia, con gli esempi più famosi a Dun Mac Sniachan (Argyll), Benderloch (Oban), Craig Phadraig (Inverness). La cui caratteristica fondamentale, a ben vedere, è la collocazione paesaggistica sulla cima di elevate colline, in quanto pratici residui di fortezze utilizzate dai remoti predecessori della collettività presente. Nulla spiega, tuttavia, l’esatta ragione e soprattutto il metodo dell’implicita modalità impiegata in questo tipo di trasformazione edile. Giacché ad un’analisi più approfondita, come praticata per la prima volta nel 1777 dall’archeologo John Williams, queste rovine risalenti all’epoca della Preistoria presentano profonde alterazioni che vanno ben oltre tale cromatismo delle rocce dioritiche soggette al trascorrere di incalcolabili generazioni umane. Con parti fuse al punto di apparire lucide, simili a smalti polverosi, che fluiscono in forme organiche del tutto degne di figure e ambientazioni del fantastico contemporaneo. Il che significa, in termini di tipo più conciso, che sono stati sottoposti ad un processo antropogenico di vitrificazione.
Qualcosa di difficile ed inevitabilmente complesso da implementare, soprattutto sulla scala degli svariati centinaia di metri coinvolti nel caso di talune cinte murarie; considerate, a tal proposito le temperature necessarie alla fusione dei graniti, agevolmente superiori al migliaio di gradi. Non così difficili, nell’Età del Ferro, da raggiungere all’interno di un forno per la ceramica. Ma tutt’altra cosa è farlo sulla scala di elementi architettonici di proporzioni tanto significative. Il che si affrettò ad aprire, già nella tarda epoca dei Lumi, la questione tanto che in un celebre studio sperimentale di Childe e Thorneycrof presentato alla Royal Society nel 1937, si esordisce con la locuzione: “A tal punto la questione dei forti vitrificati ha occupato le sessioni precedenti di questa prestigiosa istituzione, da non portarci a ritenere necessarie ulteriori spiegazioni di cosa siano. Ecco, dunque, ciò che abbiamo scoperto…”

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L’artista che ha spostato le ossa del deserto per creare zone del pensiero inusitate

Il condor del Nevada diede un pigro battito di ali, mentre perlustrava l’area della valle dove il vento aveva un suono incostante. Non scolpita, come quella accanto, da processi naturali alla pennuta percezione dell’istinto, bensì fatta di ombre, luci ed ombre sovrapposte in qualche tipo di “disegno”. Uccello abituato a vivere lontano dalle costruzioni umane, egli aveva una pur vaga idea di come queste fossero comunemente strutturate: quattro mura, un tetto, vie d’accesso e recinzioni a tratteggiarne i distinti confini. Dal suo punto di vantaggio sopraelevato, in effetti, non era difficile scorgere un paio di ranch creati sulla base della razionalità mondana. Eppure anche il cervello rettile del tutto responsabile dei suoi limitati ragionamenti, normalmente non lontani dai bisogni di trovare fonti d’acqua o di cibo, riusciva ad identificare le difformità di tale luogo eccessivamente geometrico e rispondente alla ricerca di un qualche tipo di disegno. Luci ed ombre in digradanti viali, strade e recipienti vicendevolmente sovrapposti, quasi a competere per il diritto all’esistenza; vestigia di scomparse civiltà le quali, a ben pensarci, non erano mai davvero esistite. A meno di volerne individuare l’ombra scintillante dietro le pupille di un singolo individuo.
Michael Heizer, l’artista, scultore e costruttore che prima di ogni altro, ed in sostanziale solitudine creativa, scelse di trovare il proprio metodo espressivo nel movimento della terra. Non intesa come la danza di questo atletico pianeta, bensì l’effettiva alterazione di equilibri antecedenti alla creazione degli spazi a noi più congeniali, frutto della formazione di un paesaggio inerente. Mai su scala e con palesi risultati che fossero paragonabili a City, l’opera nella Green Valley a nord di Las Vegas al cui completamento ha dedicato 50 anni della sua esistenza. E 40 milioni di fondi, con i primi stanziamenti reinvestiti dalle sue finanze, per poi trovare l’assistenza di fondi federali e mecenati di varia natura. Al fine di creare… Questa Cosa Vuota, una visione lunga 2,5 chilometri e larga 0,5, fondata sulla sua interpretazione personale di un sito archeologico impossibile, conforme alle vestigia di un’antica capitale dimenticata dal tempo. Un miracolo di organizzazione, logistica e pianificazione, per quanto possa esserlo un qualcosa che deriva dichiaratamente parte della propria ispirazione dalle piramidi a gradoni di Chichén Itzá. Che compaiono nella struttura di diverse arene centrali, convergenti verso un sito monumentale che parrebbe il monumento dedicato a una divinità sovrana. Quattro pinne aerodinamiche in contrapposizione a picchi digradanti simili agli scudi in uso per contenere il fuoco dei post-bruciatori sul ponte di volo di una portaerei invisibile. Per alcuni, il più grande spreco di risorse. Secondo altri, il più incredibile degli skate-park…

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