L’intatta ziggurat che ospitava gli Dei e le solenni spoglie dei sovrani elamiti

Per le grandi civiltà agli albori della Storia, edificare colossali monumenti costituiva il metodo più efficace di rendere duraturo il nome dei regnanti, oltre a garantirsi una maggiore considerazione da parte degli esseri supremi che, dall’alto dei loro palazzi celesti, sorvegliavano e guidavano la civilizzazione umana. Nell’idea posseduta dalle genti di Haltamti, regione situata nell’odierna provincia iranica di Khuzestān ed a diretto contatto con diverse culture mesopotamiche (Sumeri, Accadici, Babilonesi) la dinamica di tale intento risultava leggermente diversa. Questo poiché essi credevano, fin da tempo immemore, che il sommo padre del proprio nutrito pantheon denominato Inshushinak risiedesse nella stessa casa del sovrano, ed al sorgere di ciascuna alba decollasse a bordo del suo magico carro, accompagnando il sole nel suo lungo arco quotidiano. Visione concettuale questa degna di costituire l’ottimo pretesto per la costruzione di una grande capitale sacra, ove unificare e verso cui far pagare ingenti tributi ai diversi capi delle comunità limitrofe fino a unificarle sotto un’unica bandiera. Quel poco che sappiamo nella progressione da potenza regionale verso la metà del terzo millennio a.C, fino alla formazione di un vero e proprio impero culminante nel 1500 a.C. attraverso il succedersi di varie dinastie, possiamo dunque dire di averlo principalmente desunto dai lasciti materiali di queste genti, abili nello sfruttare la tipica architettura in mattoni di adobe tipica dei loro tempi remoti. Tra cui il capolavoro forse meglio conservato, forse ancor più dei monumenti ritrovati ad Ur e le altre capitali di quel mondo spesso sincretistico ed in vicendevole conflitto, può essere individuato presso la collina Chogha Zanbil (monte “Cesta”) situato tra le città di Susa ed Ahvaz. Il complesso di edifici, all’interno di un triplice recinto, un tempo dominato da quel tipo di svettante torre a gradoni, un tempo misurante più di 100 metri ma oggi grosso modo dimezzata nei suoi sovrapposti livelli superstiti, caso il peso ed il trascorrere dei successivi millenni. Il che non ha del tutto compromesso, ad ogni modo, la svettante imponenza di un sito archeologico tra i più vasti, e di sicuro maggiormente importanti della regione. Un portale d’accesso privilegiato, verso i misteri di una delle perdute culture all’origine di un intero ceppo culturale dello scibile dei nostri predecessori…

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La principessa dentro il nucleo dell’agrume di pietra: una storia d’amore indiana

Nei distretti forestali del subcontinente settentrionale, fin sotto le pendici dell’Himalaya, campeggiano presenze vegetali dall’aspetto e le prerogative misteriose. Alberi fronzuti, la cui ombra si rispecchia nel sostrato di leggende o miti popolari, le cui radici affondano in credenze religiose ancor più antiche delle nazioni. E trascorrendo anni, o generazioni alla ricerca di qualsiasi cosa diverrà possibile trovarla. Persino il volto della persona destinata ad essere amata. Nel ciclo lungo dell’esistenza delle anime, fondato sul sistema religioso delle reincarnazioni, ricorre l’idea che spiriti affini possano tornare ad incontrarsi attraverso vite successive, convergendo ed attendendosi a vicenda ogni qual volta giungono nella dimensione interstiziale tra i mondi. Nel modo lungamente dimostrato, volendo fare un esempio, dalla tormentata vicenda della principessa Belbati, per come figura in una fiaba collocata da fonti antropologiche nella regione dei Santal Pargana. Strettamente interconnessa ad una varietà vegetale effettivamente esistente, tenuta in alta considerazione nella medicina tradizionale di questi paesi.
C’era in quel tempo remoto, il giovane Lita, ultimo di sette fratelli, deriso dai suoi famigliari per la protratta incapacità di trovare moglie. E c’erano tre saggi monaci, che gli diedero istruzioni di risolvere il problema recandosi in un giardino montano, protetto ferocemente da tre membri della razza demoniaca dei rakshasa. “Cogli il frutto più grande che ti riesce di trovare, e riportalo da noi.” Dissero costoro. Ma il ragazzo, emergendo dai cespugli ed afferrando un grosso pomo dall’aspetto legnoso, venne ucciso e divorato dai mostruosi guardiani. Allorché i monaci mandarono un corvo a recuperarne gli escrementi, da cui resuscitarono il ragazzo con in mano il globo verde rame. “Adesso aprilo vicino al pozzo che si trova in fondo alla valle.” Spiegarono di nuovo. Ma Lita, nella fretta di seguire le loro istruzioni, inciampò e cadde, rompendo quella buccia resistente e subendone di nuovo le conseguenze. Poiché al verificarsi di un potente lampo di luce, accaddero due cose allo stesso tempo: comparve sulla Terra la divina principessa Belbati. Giusto mentre il suo promesso sposo, purtroppo, moriva per la seconda volta.
Prima di esplorare il seguito della vicenda, sorge lecita l’essenziale domanda: da cosa era rappresentato esattamente, in questo caso, il prototipico frutto proibito? Se l’aveste chiesto ai naturalisti britannici che per primi si trovarono a classificarlo in epoca vittoriana, essi vi avrebbero risposto senza esitazioni: “Una mela”. Ma in quell’epoca praticamente ogni cosa veniva ricondotta a dei modelli familiari, particolarmente nel settore delle antonomasie fruttariane. Non sempre a proposito. Giacché il frutto di bael o l’Aegle marmelos, per usare il suo nome scientifico moderno, è piuttosto una pianta membra della famiglia delle rutacee, biologicamente confinante con il mondo dolce-aspro dei non meno utili o diffusi agrumi. A ben guardare il suo corposo e beneamato prodotto commestibile, in effetti, esso potrebbe assomigliare vagamente a un pomelo…

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Un ritmo sacro di rinascita per il sogno del ghiacciaio peruviano infranto

Un mondo ad alta quota può rispondere a sistemi e regole di un tipo differente, priorità dettate dal bisogno di adattare il clima alle esigenze di una società stanziale interconnessa. Principe tra questi, la una fonte idrica abbastanza sostanziale sia nel campo dell’agricoltura che l’allevamento, per non parlare della semplice sopravvivenza di comunità al di sopra di una quantità sparuta di persone con le loro intere famiglie. Ecco perché le strutture collettive, assieme a tradizioni e usanze di particolari siti peruviani sono costruite sulla base di far fronte alle necessità del quotidiano, incluso in tal senso l’antico culto religioso della Madre Terra, che in simili luoghi prende il nome di Pachamama. Questa è una storia proveniente da una delle innumerevoli comunità sudamericane identificate col toponimo di Santa Fe, stavolta volta situata presso la sezione peruviana della cordigliera andina, nella regione meridionale di Puno. Dove i locali affrontano, nella maniera qui esemplificata dal portale ecologista Mongabay, un problema significativo che continua a peggiorare da generazioni: la siccità. E potrebbe anche sembrare strano che in luogo battuto dai forti venti provenienti dal Pacifico, tanto distante dai deserti e le praterie aride dell’Argentina, uno dei problemi da patire sia proprio la sete, finché non si prende nota in merito ad una delle inesorabili derive messe in atto dai processi del mutamento climatico in atto nel nostro pianeta: lo scioglimento irreversibile dei ghiacciai e con esso, la scomparsa dei molti ruscelli e torrenti, che in estate tratteggiavano percorsi chiaramente noti ai fondatori di villaggi come quello in oggetto. Il che ha portato, specialmente nell’ultima decade, a gravi privazioni per questa gente, oltre al decesso in più capitoli di parti rilevanti delle loro greggi di alpaca, animale niente meno che fondamentale per la salvaguardia di quel distintivo stile di vita. Circostanze tristemente note in molte zone limitrofe (il video cita anche il villaggio di Apu Ritipata, sulle pendici dell’omonima montagna dell’altezza di 5.000 metri) ma per arginare le quali una preziosa risorsa collettiva viene utilizzata come funzionale contromisura: l’approccio lungamente noto dello Yarqa aspiy, un rituale, una festa ma anche una corvèe degli uomini e donne fisicamente abili, ad intervenire sul sistema ereditato di serbatoi d’altura per l’acqua piovana, che prende il nome di qochas. Ma questo non prima di mettere in scena, come da preziosa consuetudine, le danze e le preghiere all’indirizzo della Dea…

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L’intero canone buddhista nelle statue policrome del tempio dell’Acqua e della Terra

In una delle scene maggiormente memorabili del recente videogioco cinese Black Myth: Wukong, il protagonista liberamente ispirato al personaggio letterario del Re Scimmia combatte contro Ciglio Giallo, entità demoniaca che ha trovato il modo di assumere l’aspetto del Buddha. Il difficile incontro, che richiede una conoscenza approfondita dei comandi ed i poteri del protagonista, si svolge all’interno di un tempio titanico, finemente ornato di maestose statue sovrapposte l’una all’altra, come un attento e immoto pubblico di personaggi senza una voce. Come molte altre sequenze e momenti dell’opera interattiva, l’ispirazione artistica è particolarmente precisa e fa riferimento ad un luogo specifico del grande Regno di Mezzo. Il tempio di Shuilu (水陆庵 – letteralmente: dell’Acqua e della terra) costruito per prima volta nella tarda epoca delle Sei Dinastie (V sec. d.C.) ma che avrebbe trovato principalmente nelle successive epoche dei Tang e Ming le ragioni più valide della sua imperitura magnificenza. Particolarmente dopo l’intervento diretto del principe Zhu Huaijuan che attorno all’anno Mille qui nello Shaanxi ebbe la sovrintendenza del regno vassallo di Qin, da lui sfruttata per accumulare meriti religiosi per se stesso e la sua intera famiglia. Tramite la costruzione di un santuario le cui proporzioni artistiche, semplicemente, esulavano da cognizioni pregresse all’interno dell’intero vasto Impero cinese. Sua fu dunque l’idea di riprendere per lo Shuilu situato 60 Km ad est di Xi’an, da lui ribattezzato in Shuilu’an, il tema iniziato dal celebre scultore di due secoli prima Yang Huizi, che aveva ornato la grande sala centrale con molteplici sculture vivaci ed animate del Buddha, mediante il coinvolgimento di numerosi artigiani provenienti da ogni angolo della nazione. Ciascuno incaricato, mediante l’applicazione di un piano preciso, nel curare un diverso angolo di una composizione di centinaia, poi un migliaio e infine 3.700 statue differenti, disposte in una pletora di affascinanti composizioni e differenti modalità espositive. Principalmente realizzate in terracotta dipinta, come si usava fare all’epoca, i loro soggetti includono santi e saggi, divinità, uomini e donne impegnati nella raffigurazione d’importanti episodi nella vita di Sakyamuni, ma anche favole o novelle di derivazione popolare, in quella che costituisce una vera e propria enciclopedia visuale di tutto quanto fosse mai stato detto a beneficio della consapevolezza individuale e la salvezza esistenziale dei fedeli. Un letterale viaggio ritroso, ma anche di lato e verso il punto di fuga prospettico, nel caratteristico e stratificato mondo della religione cinese…

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