L’immagine canonica della cesta in vimini che si avvicina alle propaggini del cielo, la calda fiamma usata per espandere speciali gas o direttamente l’aria nella bulbosa massa di stoffa soprastante, risiede da quel fatidico 1783 nella mente e nell’immaginazione frutto del senso comune. Tale iconica visione rimasta pressoché invariata, dal punto di vista concettuale, dai primi esperimenti dei fratelli Montgolfier è anche intrinsecamente inesatta o quanto meno incompleta, vista la pletora di meccanismi introdotti dalle plurime generazioni fino al mondo odierno, in cui volare è una faccenda seria che riesce a sottintendere obiettivi chiaramente definiti. Incluso pure l’intrattenimento, inteso come intrinseca realizzazione di un’impareggiabile esperienza, di quelle che cominciano tutte invariabilmente allo stesso modo: lasciare il suolo con i propri piedi non sapendo, esattamente, dopo quanto tempo ed in che luogo si avrà nuovamente l’occasione di poggiare sulla superficie di quel mondo terreno. Pratica idealmente da sperimentare in modo totalmente solitario e per l’ebbrezza della quale, più di un esperto avventuriero ha sconfinato nella più totale incertezza e incontrollabile regione delle circostanze future.
Non che i rischi risultino impossibili da mitigare, grazie all’introduzione di un settore specifico del volo più leggero dell’aria, avente le sue origini nell’ormai remoto 1923 negli Stati Uniti. Quando gruppi di sportivi d’avventura, prima del parapendio, degli ultraleggeri e della tuta alare, ben pensarono di avvicinarsi alle provincie celesti facendo uso di quegli stessi muscoli di cui la natura li aveva dotati. Assieme ad un piccolo aiuto del vecchio amico dell’umanità, l’aria rarefatta incline ad inseguire le province dell’atmosfera. Hoppers li chiamavano, poiché i praticanti della disciplina erano effettivamente avvezzi a compiere dei balzi successivi, gradualmente più lontani dal terreno, mentre la bombola che avevano in corrispondenza con la schiena si occupava di gonfiare l’ampio oggetto all’altro capo dell’imbracatura da consumato paracadutista delle circostanze aeree correnti. Un approccio destinato a migliorare con il tempo, causa la capacità di mantenere concentrata una maggiore quantità del gas fluttuante scelto per l’occasione, riuscendo conseguentemente a incrementare il grado di comfort raggiungibile mentre si tentava di vincere la sfida contro il funzionamento della stessa gravità planetaria. Sto parlando, in altri termini, dell’inclusione di un sedile o altra piattaforma, destinata a includere essa stessa margini ulteriori di osservabile miglioramento. Ed alcuni storici, spettacolari eccessi, la cui la mancanza di prudenza ha finito per consegnare i praticanti alle regioni antologiche dei malcapitati eroi del cielo…
Una delle figure principali nella storia delle mongolfiere, tradizionalmente commemorata eppure spesso tralasciata nell’idea posseduta dal senso comune in connessione a tale ambito situazionale fu in effetti quella di Pilâtre de Rozier, l’entusiastico volontario coinvolto dai fratelli eponimi per il primo volo umano, nonostante il loro mecenate Luigi XVI avesse suggerito enfaticamente l’utilizzo di criminali condannati per mettere alla prova l’infernale congegno. Pilota della mongolfiera ante-litteram che sarebbe diventato, in seguito, anche la sua prima vittima assieme al compagno di avventure Pierre Romain, durante un tentativo di attraversare la manica nel 1785. Ciò attraverso l’uso di un duplice pallone di sua personale concezione, capace di controllare la quota d’altitudine mediante il riscaldamento di una certa quantità d’aria contenuta all’interno, in posizione adiacente alla sacca piena d’idrogeno finalizzata a mantenerlo alla quota desiderata, destinato purtroppo a schiantarsi presso Pas-de-Calais. Approccio, quest’ultimo, destinato a diventare molti anni dopo uno dei sistemi accessibili ai volatori di palloni individuali, per cui il controllo selettivo dell’altitudine risultava altrimenti possibile soltanto mediante l’utilizzo di zavorre coadiuvate dalla graduale filtratura del gas attraverso la trama della stoffa che copriva le loro teste. Una sostanza costituita preferibilmente negli Stati Uniti dall’elio, incapace di prendere fuoco consentendo addirittura all’operatore di accendersi una sigaretta, ed a partire dall’introduzione in Inghilterra della pratica pochi anni dopo, nel 1927, soprattutto l’idrogeno, più prontamente disponibile nonché meno costoso. Analogamente a quanto avvenne in Unione Sovietica, dove l’utilizzo degli hopper trovò a partire dagli anni ’30 un’impronta utilitaristica, vista l’implementazione nel contesto del progetto USSR-1/3 di Georgy Prokofiev, per la creazione di palloni stratosferici che avrebbero in ultima battuta raggiunto il record d’altitudine di 18.501 metri. Durante la cui terza iterazione, come era diventata ormai la prassi operativa, il tecnico manutentore fu inviato ad esaminare l’esterno della mongolfiera in partenza, con problemi di una rete intrecciata, mediante l’utilizzo di una panca sollevata da un aerostato individuale. Operazione perfettamente riuscita ma che gli sarebbe costata quasi la vita al capovolgimento del marchingegno, tale da costringerlo a tendersi stretto al cordame soltanto tramite l’impiego della propria considerevole, notevolmente incentivata energia muscolare.
Un utilizzo come piattaforma di lavoro destinato a trovare larga applicazione anche nei paesi occidentali e soprattutto nell’epoca dei dirigibili, comunemente avvezzi ad atterrare in aperta campagna e dunque lontano dalle strutture necessarie ad effettuare qualsivoglia tipo di manutenzione mediante l’impiego di approcci maggiormente tradizionali. Ciò sebbene gli hopper fossero ancor più frequentemente una vista comune nei festival del settore ed i raduni degli hobbisti regionali, nonché l’occasionale sollevamento di creazioni ingegneristiche non propriamente conformi all’idea tradizionale di partenza.

Oggetti volanti chiaramente identificabili come il cosiddetto cluster balloon, un sistema agglomerato composto non più da un singolo contenitore di gas volante, bensì molteplici attaccati l’uno all’altro. Pensate al celebre manifesto del film della Pixar, “Up” di per se conforme ad una delle gag più spesso ripetute dei cartoni animati addirittura antecedenti alla Tv a colori.
Uno di quei casi in cui la realtà avrebbe d’altro canto superato la fantasia, visto il celebre caso di Larry Walter, l’americano ex-camionista che avendo lungamente sognato di conoscere l’ebbrezza del volo, riuscì ad ottenere 42 palloni metereologici presso un negozio di surplus militare nel 1982, con la scusa che il suo datore di lavoro dovesse utilizzarli per una pubblicità. Ed in seguito attaccando ad essi una comune sedia da giardino (da cui il soprannome ricevuto di Lawnchair Larry) avrebbe decollato il 2 luglio dal giardino della fidanzata presso San Pedro in California. Finendo presto per perdere il controllo e venendo trascinato dai venti fino a Long Beach, con l’unico piano per salvarsi di sparare ad alcuni dei palloni tramite l’impiego del suo fidato fucile ad aria compressa, che dopo qualche colpo lasciò accidentalmente cadere dall’altezza di 4.900 metri. Ma non prima, fortunatamente, di aver invertito la sua tendenza verso l’infinito, il che l’avrebbe portato a scendere fino all’impatto contro i cavi dell’alta tensione 45 minuti più tardi, con la conseguenza di generare nel quartiere un breve black-out. Altri, al suo posto, non furono altrettanto fortunati, come Yoshikazu Suzuki nel 1992 partito dal lago Biwa in Giappone con 23 palloni. Avvistato per l’ultima volta ad 800 Km dalla costa nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico da un aereo della guardia costiera ad un altitudine di circa 4.000 metri, prima di scomparire nell’eterno ed irrecuperabile ignoto.
Il che ci ricorda come il volo privo di controllo nel vasto cielo sottintenda dei pericoli vasti ed altrettanto impliciti, paragonabili a quelli di una zattera perduta nel bel mezzo di una tempesta. Nonché del modo in cui il piccolo regalo tradizionalmente lasciato dagli hopper ai proprietari di un terreno dove hanno finito per atterrare dopo una raffica di vento imprevista, sia ben più che un semplice ringraziamento dedicato unicamente alla sfera umana. Bensì un gesto apotropaico, rivolto in egual misura alla figura trascendente del divino Eolo in persona.