Scoperto l’antenato del piccolo canguro di velluto, con muso da levriero e coda di un topo

Nei Territori Settentrionali dell’Australia, in un’epoca collocata entro i confini del tardo Miocene (6-8 milioni di anni fa) la lotta per la sopravvivenza vedeva coesistere scontrarsi specie dalle proporzioni e capacità singolari. In un’anticipata, e forse ancor più enfatica realizzazione dell’idea memetica del “paese più selvaggio” qui si stagliavano contro il paesaggio gli alti e inamovibili diprodontoidi, bradipi dalle proporzioni di un rinoceronte, i cui potenti artigli avrebbero potuto fare a pezzi un’automobile dei nostri giorni. L’uccello carnivoro dromornitide alto fino a 3 metri, noto anche come mihirung, il cui forte becco avrebbe potuto fare ancor più danni di quello di un causario. Ed il rapido leone marsupiale Wakaleo vanderleuri, che pur non essendo più grande di un cane di taglia media, avrebbe cacciato in branco, lasciando ben poche speranze ad un preda convenzionale. In questa terra implacabile, tuttavia, esistevano anche animali dal contegno più pacifico e condizionati dall’assenza di sistemi di autodifesa in grado di evocare lo spirito supremo del combattimento. Creature come quella scoperta recentemente da Isaac A. R. Kerr della Flinders University e descritta in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Alcheringa verso l’inizio di luglio. Sopra un declivio noto come “Collina dello sterco bovino” (Cowpat Hill) un corredo d’ossa la cui provenienza sarebbe stata assai più logica nelle profonde foreste della Papua Nuova Guinea ancora più a nord: a tutti gli effetti un macropodide, eppure dalle dimensioni sensibilmente minori rispetto ad un canguro dei tempi odierni. Il che non significhi che manchi di moderni eredi, essendo l’appropriatamente denominato Dorcopsoides cowpatensis estremamente simile, nei fatti, agli odierni appartenenti al genere Dorcopsis, endemici per l’appunto del vicino paese insulare. Ed è proprio questo il nodo fondamentale dell’enigma, poiché se risultava fisicamente e biologicamente simile a tal punto, quali modifiche nel suo comportamento potevano permettergli di sopravvivere in un territorio climaticamente arido, nonché frequentato da carnivori tanto famelici ed intrinsecamente pericolosi?
La risposta è che forse non conosciamo questo gruppo di cinque specie simili da molti punti di vista eccetto il colore quanto, ormai da tempo, siamo inclini a ritenere. Per lo più grazie all’associazione con i wallaby continentali, rispetto ai quali possiedono determinati punti di contatto, ma non solo. Ponendoci nei fatti a dover colmare, sotto più di un punto di vista, le molte lacune di un progetto di studio che ancora oggi procede a rilento. Un po’ per l’ambiente remoto di queste creature, ma forse soprattutto per la quantità di ambiti di studio adiacenti offerti dall’ambiente straordinariamente distintivo dell’intero territorio d’Oceania. Che ha portato gli studiosi nei trascorsi delle loro carriere, per una ragione o per l’altra, a focalizzarsi in passato sulle discendenze la cui eredità fossile risultava maggiormente chiara e definita in modo puntuale. Una situazione che potrebbe, nell’incedere dei prossimi anni, trovarsi presto a mutare…

Non che al singolare, visivamente interessante wallaby di foresta papuano manchi l’inerente carisma necessario a suscitare questa tipologia d’interesse. Trattandosi del classico marsupiale dalle zampe posteriori maggiormente sviluppate, dotato di una lunga coda parzialmente glabra in grado di funzionare come arto addizionale, la cui caratteristica maggiormente distintiva è un pelo corto e serico, capace di assomigliare vagamente a quello di un levriero di razza pura. Così come riesce a farlo, in modo particolarmente accattivante, il suo muso appuntito, con gli occhi piccoli e le orecchie posizionate in alto di forma vagamente triangolare. Un’illusione canina che ben presto decade osservando la forma del corpo del resto dell’animale, raramente in grado di superare i 12 Kg ed il metro d’altezza, la cui fisicità tondeggiante finisce per ricordare quella del buffo personaggio di un cartone animato. Suddiviso tassonomicamente in cinque specie distinte, che si differenziano per l’areale di appartenenza ed il colore della pelliccia, il Dorcopsis dei tempi odierni è una creatura ragionevolmente adattabile, il cui endemismo costituisce il principale margine di vulnerabilità ecologica, soprattutto per quanto concerne la specie nera D. atrata, attestata unicamente sulle alture della piccola isola di Goodenough. In un entroterra drasticamente sfruttato da tecniche di agricoltura basate sul sistema “taglia e brucia”, capaci di minacciare in modo pressoché costante le caratteristiche del suo stile di vita fino alla condizione attualmente considerata critica di tale specie. Le cose vanno un po’ meglio, nel frattempo, per il D. luctuosa grigio, situato sopra i 400 metri nella parte meridionale della Nuova Guinea, meramente “vulnerabile” causa la tradizione di vecchia data dei nativi d’impiegarlo come fonte di carne nei periodi di magra. Ragionevolmente stabili, in termini di popolazione complessiva, riescono di lor conto ad essere le varietà a strisce bianche (D. hageni) e quella marrone (D. muelleri) rispettivamente situati nella parte nord della principale isola paupana ed i bassopiani della sua zona occidentale.
Meno agili di quanto si potrebbe tendere a pensare, causa l’incapacità di salire sugli alberi ed una resistenza limitata allo sforzo fisico del salto a ritmo accelerato, i wallaby di foresta fanno affidamento principalmente sull’assenza di predatori nelle zone sopraelevate dove tendono a prosperare maggiormente, discendendo soltanto in brevi periodi sulla base di carenze di cibo stagionali. Erbivori e notturni (almeno questo è ciò che sembra dai limitati dati raccolti in materia) essi non disdegnano d’altronde di cercare talvolta sotto le pietre o i rami caduti, possibilmente alla ricerca di prede come insetti o piccoli mammiferi, da cui trarre occasionalmente le opportune proteine. Dal punto di vista riproduttivo, con una stagione degli accoppiamenti situata tra gennaio e febbraio, ciascuna coppia mette al mondo normalmente un solo piccolo, tenuto nella tasca dalla madre fino al raggiungimento sostanziale dell’indipendenza, nonostante ella possieda una dotazione di ben quattro capezzoli, un potenziale retaggio di epoche lontane.

È ragionevole pensare, dunque, che il wallaby “di foresta” dei Territori del Nord australiani, essendo effettivamente a casa in un tipo di ecozona drasticamente diversa nonché molto meno ospitale, disponesse di caratteristiche e prerogative più resilienti, nonché un probabile corredo muscolare dal grado di efficienza superiore. Possibilità destinate ad un probabile ed ulteriore approfondimento nei prossimi mesi ed anni, auspicabilmente facilitato dal ritrovamento di eventuali resti ulteriori.
Ad ulteriore riconferma dell’esistenza pregressa di un ponte di terra, capace un tempo di collegare le rispettive propaggini territoriali situate ai due lati della cosiddetta linea di Wallace: un’ideale divisione, tanto largamente confermata dalle casistiche fatte in precedenza oggetto di studio, tra gli animali dell’Australia e quelli tipici dell’Asia Meridionale. Ciò benché l’evoluzione tenda a muoversi talvolta su sentieri paralleli, senza un apparente piano basato sulla logica mirata all’efficienza situazinale. Quasi fosse incline a preferire certe forme, a discapito di altre. Anche se significa congiungere fenotipi di bestie straordinariamente diverse… Verso la creazione di effettivi, concettuali approcci al concetto fin troppo umano di una chimera.

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