Tra le molte raffigurazioni ritrovate in Egitto della dea Iside, l’importante figura del pantheon egiziano compare talvolta seduta in meditazione, tra le grandi e inconfondibili fronde di quello che poteva essere soltanto un albero di banano. Il che potrebbe indurre temporaneamente in un latente senso di perplessità quando si considera come l’intera famiglia della pianta in questione, definita in lingua latina delle Musaceae, si trovasse concentrata principalmente nell’area ecologica del Sud-Est asiatico, almeno finché l’insorgere della sua importanza dal punto di vista gastronomico non avrebbe portato alla proliferazione di cultivar globali verso l’inizio dell’epoca industrializzata. Ancorché a guisa di eccezione che conferma la regola, sussiste nell’Africa settentrionale un bioma particolare situato nel punto di convergenza climatico e territoriale che prende il nome corrente di Etiopia: un’isola sopraelevata nel paesaggio, circondata da pianure aride dove soltanto certi tipi di vegetazione possono prosperare. Ma è soprattutto la sopra, anche grazie al flusso continuativo dell’aria umida proveniente dall’Oceano Indiano, che il miracolo ha ragione e modo di compiersi. Permettendo a determinati presupposti della foresta pluviale di presentarsi ad appena tre miseri gradi sopra la linea dell’Equatore.
Il che non significa che il cosiddetto banano abissino, o scientificamente Ensete ventricosum, possa in alcun modo essere ricondotto per la propria produzione di frutta alla nostra beneamata, quasi onnipresente bacca gialla di Cavendish, essendo i semi risultanti dalla fioritura contenuti all’interno di un frutto comparabilmente oblungo, ma coriaceo, incommestibile, sgradevolmente insapore. Il che rende alquanto sorprendente la descrizione della pianta come “albero contro la fame” dovuto in senso pratico alla sua capacità di offrire il nutrimento necessario annualmente a un gran totale stimato di circa 25 milioni di persone. Ciò mediante l’implementazione di un sistema di processazione che non trova, da nessun punto di vista rilevante, equivalenze pratiche in alcun altro paese del mondo. Tutto ha inizio, nella maggior parte dei casi, dopo un periodo di siccità abbastanza lungo da mettere in crisi le comuni fonti di cibo disponibili alla popolazione: senza cereali, con scarsità di bestiame e/o un periodo di pesca improduttivo alle spalle, quando il popolo di comune accordo impugna le proprie asce e si dirige nei frutteti strategicamente disposti dai loro prudenti antenati. Per dare inizio da una pratica ecatombe arbustiva, necessaria per porre le basi di quello che sarò un successivo periodo di fervente lavoro in cucina. Seguìto dal glorioso, soddisfacente banchetto finale… Il che suscita la necessaria dom,anda: se non il frutto, cosa mangiano esattamente di questa stimata pianta gli abitanti d’Etiopia?
L’ensete o falso banano si presenta dunque come un fusto erbaceo centrale dalle sfumature tendenti al giallo di fino a 13 metri d’altezza, privo della normali ramificazioni di un albero. Ma capace di crescere producendo, in strati successivi, le ampie foglie dai riflessi rossastri estruse verticalmente fino ad un massimo di 6 metri, che una dopo l’altra deperiscono, andando a formare lo strato sovrapposto in grado di proteggere il tronco in prossimità della sua base dalla forma gibbosa (da cui la definizione latina ventricosum – dotato di un ventre). Pianta dall’aspetto molto attraente capace di espandersi orizzontalmente fino a 5 metri di ampiezza, essa fu apprezzata fin da subito per le sue qualità ornamentali dopo l’introduzione negli orti botanici europei, a partire da un’iniziativa del console inglese nel 1853 che ne fece recapitare alcuni semi presso i giardini di Kew. Ciò detto, il suo significato nella cultura etiope va ben oltre tale aspetto, essendo strettamente interconnesso alla necessità di salvaguardare la popolazione attraverso i periodi maggiormente problematici dei suoi trascorsi. Quasi ogni parte dell’albero, in effetti, trova un’applicazione pratica nella vita di tutti i giorni. A partire dalle fronde usate per la costruzione dei tetti nelle dimore tradizionali etiopi, passando per le fibre utilizzate nella costruzione di corde, materassi, abbigliamento. Ma soprattutto e più di ogni altro aspetto, la polpa commestibile situata sotto lo strato legnoso dello pseudo-fusto, laboriosamente decorticato tramite l’applicazione di un mestiere tradizionalmente legato al mondo femminile, prima di trovare la propria destinazione all’interno di recipienti o sacchi di raccolta, come ingrediente primario di una serie di piatti nazionali dal sapore e l’aspetto particolarmente distintivo. Pietanze come il pane kocho, frutto di un impasto fermentato dal contenuto proteico sorprendentemente elevato e dotato di un sapore apprezzabile che alcuni paragonano al tamarindo. Di primaria importanza la sua capacità, in condizioni ideali, di venire sepolto e lasciato fermentare senza comprometterne la salubre nature per un periodo massimo di fino a tre anni. E che dire invece del bulla, polvere proveniente dal tronco che venendo trasformata in impasti gelatinosi, diviene il fondamento di varie tipologie di porridge, frittelle o bevande, tutte altrettanto apprezzate nella dieta quotidiana della gente. Così come l’amicho, tratto dal cormo o radice sotterranea della pianta, consumato fresco poco dopo la raccolta nei momenti convivali di festa e celebrazione che comunemente seguono ad un tale evento. Il periodo di maturazione della pianta di ensete risulta essere in effetti piuttosto lungo, con un gran totale minimo di sette anni prima della singola fioritura prevista, soltanto dopo la quale l’albero dovrebbe essere idealmente abbattuto prima dell’insorgere della senescenza. Un piano non sempre realizzabile, dato l’aumento di frequenza dei periodi di magra in Etiopia con importanti conseguenze sulle prospettive future di una parte rilevante della popolazione di questo paese.
Elogiato in determinati contesti come cibo dai meriti nutrizionali eccellenti, facile da coltivare e resistente alla siccità e alle malattie, l’ensete costituisce in effetti l’anomalia di una pianta utile rimasta strettamente legata ad un profilo territoriale particolarmente ristretto. Ciò potenzialmente a causa dell’impossibilità pratica di estendere il proprio areale al di fuori della zona fertile etiope, ma anche la stretta interconnessione a piatti culturalmente distintivi, difficilmente trasferibili nel contesto gastronomico dei paesi vicini. Basti aggiungere a questo il graduale ridursi delle zone coltivabili ad esso dedicate, gradualmente sostituiti con canonici cereali inerentemente meno adatti alle condizioni ecologiche di riferimento, per comprendere le implicazioni problematiche di tale anomalia. Soltanto negli ultimi tempi, grazie all’introduzione sul territorio etiope di macchinari automatici capaci di occuparsi dell’impresa oggettivamente estenuante della processazione dell’arbusto stanno avendo risultati positivi sulla qualità della vita, benché l’accessibilità delle cooperative agricole possa variare a causa delle asperità e discontinuità del territorio degli altipiani.
Giacché l’evoluzione dei processi necessari all’interno di un pianeta condizionato dal mutamento climatico non dovrebbe sempre sottintendere l’abbandono dei sistemi a vantaggio di sentieri del tutto nuovi. Bensì l’integrazione dei vecchi metodi grazie all’uso di tecnologia adeguatamente calibrata. Ed un piano preciso, per guidare la comune imbarcazione lungo le propaggini di una tempesta vegetale, che minaccia di spazzare via interi gruppi culturali dall’eredità egualmente importante.