Candid al museo: il prestigiatore le fa credere di aver scoperto gli alieni

The Crab Effect

Al di là delle ipotesi sul velo d’illusione che tentacolari organizzazioni pseudo-governative avrebbero disposto innanzi ai nostri occhi per tenerci all’oscuro sul ritrovamento di questo o quel disco volante, è indubbio che gli extraterrestri potrebbero già essere fra noi. Per il semplice fatto che non possiamo sapere come siano fatti e dunque, come potremmo mai riuscire a riconoscerli? L’esistenza della Terra è più lunga di molti milioni di anni rispetto all’esistenza degli umani, per non parlare della nostra storia registrata: poco più che un foglio di appunti, risalenti appena all’altro ieri. Dunque basandoci su quanto possiamo conoscere per certo, ogni singola specie vivente tra tutte quelle che ci circondano, potrebbe essere giunta nella nostra tiepida atmosfera grazie a un seme custodito sulla superficie di una mistica cometa, proveniente dai recessi periferici della vasta nube di Oort. Voglio dire, perché no… Potremmo essere persino noi, gli alieni. Esseri la cui coscienza, trasferita grazie a macchine inimmaginabili, è stata intrappolata dentro al cranio dei primati. Mettendo in moto quel processo evolutivo sregolato che, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ancora in corso di realizzazione. Purché altre specie, nostre nemiche fin dall’epoca del viaggio fin da Andromeda, non sopraggiungano a nullificare i nostri sforzi, condannandoci a restare eternamente incatenati ai nostri limiti di forma.
Perché un “mostro” può essere qualsiasi cosa. Presentarsi come un ibrido di multipli animali, un drago, un grifo, una chimera. Oppure presentarsi come un semplice sussurro di energia invisibile, in grado di lasciare un segno indelebile nei nostri sogni. O ancora una creatura in qualche modo familiare, tuttavia dotata di un potere totalmente nuovo. La… Trasformazione. “Erano granchi, Michael, erano granchi!” Esclamò la giovane donna:”Li ho visti bene. Ed invece, adesso sembrano proprio dei…” Siamo al museo Tellus di Storia Naturale del Northwest della Georgia, dove la protagonista era stata assunta per un lavoro di una singola giornata: soldi facili, da guadagnarsi come assistente del custode in occasione di un convegno. Il cui punto focale si trovava guarda caso, proprio in quella stanza, sotto la tipica teca di plexiglass per i reperti scientifici di ogni tipo, nonché sopra un pavimento che necessitava di una rapida pulita a mezzo mocio regolamentare. I due quindi, prima di mettersi all’opera, si intrattengono per qualche momento in una gradevole conversazione. Lui, apparentemente dotato di un sincero interesse personale per l’argomento, le racconta di come quelle strane pietre fossero state trovate qualche tempo fa, in prossimità di un cratere nel deserto del Mojave, lasciando del tutto spiazzati i geologi del gruppo di ricerca. Inizia quindi, alquanto stranamente, a riordinarle. Ma sembra all’apparenza ben sapere ciò che fa. Tali pietre, spiega alla ragazza, sono totalmente lisce ed insolitamente leggere: “Vuoi toccarne una? Prova, prova.” Difficile resistere alla tentazione. Peccato solo che al momento di rimetterlo nella sua teca, il sasso venga urtato accidentalmente, finendo per cadere dentro al secchio di acqua e detersivo. Per tornare a galla, soltanto un istante dopo, a dimensioni sensibilmente ingrandite! Ed iniziare quindi, con un suono netto ed improvviso, a schiudersi dinnanzi agli occhi spalancati dei presenti!
Perché il fatto, ecco, è che costui non si era presentato onestamente alla collega d’occasione. Perché non poteva certo dire di essere Michael Carbonaro, famoso illusionista da strada di origini italo-americane, che da qualche tempo imperversa sugli show della Tv statunitense, spesso mettendo in scena le sue rinomate candid camera. Delle quali, in tutto il palinsesto, non c’è eguale.

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L’allucinazione del supermercato dove tutto è cane

Dog Market

Quanto sto per raccontare è assolutamente accaduto, anche se non si conoscono il luogo ed il momento esatto della vicenda, il nome delle persone o tecnologie coinvolte, il tipo di strumenti utilizzati, la causa scatenante, il destino vissuto dal prodotto finale. Negli anni ’80, l’esercito degli Stati Uniti si trovò innanzi ad un dilemma: come sfruttare le nuove tecnologie informatiche per aumentare non soltanto la letale precisione delle proprie armi, ma anche per accrescere il potenziale di sopravvivenza di chi pilotava i carri armati? La risposta, a quanto pare, fu ben presto chiara ed immediata: tramite l’intelligenza artificiale. Poiché era possibile, almeno in via teorica, addestrare un computer per assistere gli equipaggi in quello che è sempre stato il singolo compito più importante nei contesti bellici, ovvero avvistare il nemico, prima che lui potesse far lo stesso a noi. Possibile, sia chiaro, ma non semplice. In quanto noi non umani ben difficilmente potremmo affermare di comprendere alla perfezione ciò che ci consente d’individuare la forma e/o l’essenza delle cose, come enunciato nella frase: “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente” e l’evidenza, parimenti a ciò che scrisse Shakespeare del più amato fiore, non determina la pura verità. Così avvenne, all’interno di una qualche cupa installazione di ricerca militare, che alcune le menti più brillanti del Pentagono fossero instradate alla progettazione di un computer differente da qualsiasi altro mai creato prima. Che fosse in grado di interpretare le immagini, ma non in modo matematico (la conta dei pixel o dei colori, l’individuazione delle auguste geometrie) quanto sulla base di una semplice domanda monotipica: “Dietro a quel particolare albero, c’è per caso un carro sovietico, in agguato?” Ah, magnifico, persino carico di un vago senso d’ironia. Pare quasi di vedere gli scienziati ed ingegneri in camice bianco, con il loro album fotografico di 100 panorami, alcuni con sorpresa cingolata, altri privi di elementi minacciosi di alcun tipo. Intenti ad inserirli, in rapida sequenza, nella fessura orizzontale di uno scanner primitivo. All’altro capo del quale non c’era una singola entità artificiale, ma diverse interconnesse, secondo il metodo e la prassi che si usa ancora oggi, per (tentare di) riconoscere calligrafie, parole pronunciate ad alta voce, i volti delle persone presenti in una scena. Li chiamano network neurali. E pur essendo *ancòra notevolmente meno efficaci di un vero cervello umano, non sono in alcun modo meno misteriosi, o difficili da dominare. Pensate di essere, per un momento, un singolo neurone sospeso nella guaina mielinica di un cranio, dotato delle cognizioni necessarie a riconoscere soltanto il blu. Trovandovi di fronte ad un qualcosa di verde, non potrete far altro che passarlo al vostro vicino, il quale forse noterà l’assenza del giallo, oppure quella del rosso e così via, fino a trovare la risposta. Ma un carro armato è molto più complesso di così, perché può trovarsi in mille angolazioni differenti, essere coperto parzialmente dal paesaggio…Passarono i giorni, le settimane. A fronte di un frenetico processo di addestramento, si giunse infine al punto in cui, senza timor d’errori, il sistema riconosceva e contrassegnava tra le 100 foto quelle da considerare “pericolose” senza il minimo margine d’errore. Il numero dei successi continuava ad aumentare. La missione era…Riuscita? Furono chiamati il capo-progetto, il generale d’armata, forse addirittura il presidente degli Stati Uniti. Per inserire dinnanzi a loro, non senza un certo grado di aspettativa e pathos, una nuova serie di foto nel computer, nuovamente suddivise tra bucolici contesti e luoghi prossimi all’agguato veicolare. Ebbene, a quanto pare, il computer stavolta fallì nell’identificare il dovuto, con una percentuale di successi molto inferiore a quanto mai fosse successo in precedenza. Furono effettuati degli studi, nuovi saggi e dimostrazioni. Finché non si giunse all’orrida realtà: che nelle fondamentali 100 foto utilizzate inizialmente, c’era un tratto distintivo ben più evidente dell’eventuale presenza del nemico. Perché tutte quelle senza carro armato, erano state effettuate in una giornata di sole piuttosto intenso. Mentre le altre, con il cielo parzialmente coperto. Ciò che il computer stava identificando, dunque, era semplicemente la luce ambientale della scena! Non è terribile, tutto ciò? Personalmente, trovo che sia una progressione dalle analogie profondamente nichiliste. Ecco una macchina creata per “comprendere” di avere uno scopo, ma la quale non è in grado di capire quale questo, in effetti, sia. E s’impegna quotidianamente, per l’intero segmento del suo attimo di gloria, nel perseguire un obiettivo che non si dimostra quello designato dai creatori. Prima di essere per sempre spenta, poi dimenticata.

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Tremate roditori, perché ritornano i terrier

Plummer Terriers

La più grande furbizia del topo è stata quella di imparare, con estrema efficacia, la maniera per passare inosservato. Silenziosamente acquattato nelle tane, le intercapedini dei muri, in mezzo alle radici di qualche albero in giardino, attende sempre il suo momento prima di colpire. Rubacchiando il necessario per moltiplicarsi, finché un giorno… Camminando nella notte per andare al bagno della casa di campagna, non odi nel buio quei passetti che rivelano la verità. Ma a quel punto è troppo tardi per accontentarsi di mettere una trappola. O due. Le fondamenta sono una metropoli squittente, che si muove al ritmo di una musica soltanto: masticare, divorare tutto quanto. I danni che i ratti infestanti possono causare alle proprietà degli umani sono quasi inconcepibili: tanto per cominciare, non soltanto mangiano fino a sazietà, ma una parte ancora superiore di vivande le sottraggono, portandole al sicuro nella buca che è la loro casa. Sono diabolicamente abili, nel fare questo. Ike Matthews, un disinfestatore inglese, raccontava nel suo Full Revelations of a Professional Rat-catcher (1898 – di pubblico dominio e disponibile su Project Gutemberg) diversi episodi vissuti durante la sua carriera più che ventennale, tra cui quello di due ratti, ritrovati all’interno di una cantina, con quindici uova di gallina grosse quanto loro, fatte rotolare fino al ciglio delle scale discendenti, poi letteralmente sollevate in qualche modo misterioso e trasportate fino all’intercapedine presente sotto un’asse del pavimento. Il suo libro è un fantastico viaggio nel mondo dell’orrore, con un ricco catalogo d’esperienze, sempre rigorosamente vissute in prima persona dall’autore e quindi comprovate a nostro beneficio, anche a distanza di oltre un secolo di tempo. Alla sua epoca, i roditori regnavano incontrastati, e non era affatto insolito che causassero decessi, non soltanto per l’effetto delle malattie. Uno di loro poteva, ad esempio, facilmente distruggere per il suo istinto di tenere in salute i propri denti un tubo del gas, portando al verificarsi di un pericoloso incendio notturno. O poteva fare lo stesso con quello dell’acqua, allagando abitazioni o locali commerciali. La soluzione? Allora come adesso, tolleranza zero.
Certo, l’uccisione indiscriminata di una genìa d’animali può sembrare crudele, ma è pur vero che queste creature sono tanto prolifiche e resistenti, che probabilmente sopravviveranno alla maggior parte delle altre sul pianeta. Noi inclusi. E sono due, gli strumenti principali usati da questa vera e propria personificazione del Van Helsing letterario: il tradizionale furetto addestrato creato a partire dalla puzzola europea, una vecchia gloria della de-rattizzazione, ed una grande novità tecnica dei suoi tempi, i piccoli “cani da terra” ottenuti dagli incroci con lo scopo specifico di penetrare negli spazi angusti e muoversi agilmente in luoghi inaccessibili, colpendo infine con mascelle rapide e scattanti. Il chien terrier, un concetto originariamente proveniente dalla Francia, doveva avere determinate caratteristiche innate, tra cui una larghezza del torace inferiore ai 35 cm nonostante la muscolatura ben sviluppata, un’indole aggressiva, un senso dell’olfatto molto efficace e l’intelligenza necessaria a comprendere quando fosse il caso di attaccare, e invece quello di tornare a marcia indietro fino al punto d’ingresso della tana. Caratteristica, quest’ultima, particolarmente importante, visto come in origine il terrier fosse stato creato per la caccia ad animali vicini o superiori alla sua stazza, come la marmotta, la volpe o la nutria, l’opossum e il procione negli Stati Uniti, o addirittura il feroce e pericolosissimo tasso. Ma i più grandi successi, simili fedeli cacciatori, fin da subito li conseguirono contro il topo.

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Si cucina meglio con l’aiuto dello Shiba Inu

Mari-kun

Cani gioiosi, cani seriosi, barboncini attenti e bassotti iperattivi. Ogni razza ha il suo carattere che nasce da stereotipi spesso riconfermati: avete mai visto un pastore tedesco meno che educato? Un levriero che non sia…Veloce? Difficile poi distinguere tra quelli che siano tratti innati, geneticamente selezionati fino alla costituzione di uno standard ereditario, e quanto preconcetti, invece, siano il frutto dell’educazione ricevuta nelle dai principali quadrupedi di casa, sulla base di nozioni pre-acquisite dai padroni. Però guarda, cinofilo (amante del cinema peloso) siamo in un’epoca di cambiamenti. Basta digitare un indirizzo a caso di YouTube per ritrovarsi nel bel mezzo di una sovversione delle aspettative, una vera bailamme delle bestie scatenate. Uomini che vivono coi furetti, con le donnole, coi formichieri. Giusto l’altro giorno, faceva notizia un tipo dell’Alaska che si era fatto amico il feroce Gulo gulo, quello che in Italia chiamano ghiottone, mentre negli States da sempre presta il nome al più bestiale degli X-Men. La realtà è che tutti possono diventare tutto, previa l’adeguata dose di attenzioni, cibo e addestramento. Ma in una simile divergenza delle tradizioni, è pur sempre rassicurante ritrovare dei creativi che si affidano alla naturale spiritosaggine dell’animale cane. Un vecchio, caro e burbero amico, pure quando fa i dispetti senza una ragione chiara.
Questo ultimo video di Inosemarine (un nome che parrebbe per metà in giapponese, per il resto ispirato a quello dell’onnipresente corpo militare americano) assume la configurazione di una parodia. Cosa stia prendendo in giro, sarà chiaro a chi frequenta spesso i lidi rilevanti, e nello specifico quel beneamato canale di cucina, Cooking with Dog, in cui un’affabile signora nipponica si applica in ogni sorta d’improbabile manicaretto, mentre il suo stolido barboncino Francis la “assiste” restando perfettamente immobile sul tavolo della cucina. Ora, naturalmente la questione più appassionante della serie è l’incredibile forza di volontà dell’animale, quando chiunque abbia mai vissuto per un tempo medio con un quattro-zampe ben conosce la fame incontenibile che perennemente consuma la specie biologica dei divora-croccantini. Il Fido(In-) medio, posto di fronte a una ciotola di cibo delizioso e inusuale, dimentica persino il luogo in cui si trova, per meglio trasformarsi nell’approssimazione slinguazzante di un potente aspirapolvere; e non è che in effetti, pure quel particolare grigetto giapponese sia scolpito nel vero e proprio marmo, tanto che, specie negli ultimi tempi, parrebbe tendere all’agitazione nei momenti in cui la cuoca tira fuori le fette di carne per il ramen o altri ingredienti particolarmente succulenti. Qualcuno, ultimamente, tende a seguire le sue tribolazioni un po’ come si fa con le gare motoristiche della Nascar negli ovali: aspettando l’incidente.
E se invece di aspettarlo, un simile sollazzo a spese dei malcapitati, ce lo andassimo a cercare? Nessun problema. Basta andare da questo diverso provider d’intrattenimento che usa, per i suoi video, tutt’altra cosa che un grazioso e morbido frisè; ovvero, lo Shiba Inu, detto dagli amici Shibe, oppure più direttamente Doge. Il più enigmatico dei cani giapponesi.

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