Il peso della storia di Johannesburg sul grattacielo della polvere e della rovina

Verso l’inizio degli anni 2000 iniziò ad essere fatta circolare una nozione su articoli e telegiornali sudafricani. Il succo del discorso, enfaticamente reiterato, era che la gigantesca torre di Ponte City ad Hillbrow, il quartiere degli affari di Johannesburg, stava iniziando a risalire quella china deleteria che l’aveva condotta, nel corso dell’ultimo decennio, a trasformarsi in una valida approssimazione dell’inferno urbano immaginato da generazioni di creativi della fantascienza cinematografica e cyberpunk. “Se cercate un appartamento in centro, vi basterà visitarla (operazione possibile se accompagnati da un residente o l’agenzia immobiliare) per sentirvi trasportati in un futuristico edificio del tipo mostrato in Blade Runner.” Già… Come se fosse una cosa buona. E forse non è poi così male, quando si considera l’alternativa. Un tempo in cui l’interno dell’edificio era colmo di spazzatura fino al quattordicesimo piano. E le terrificanti grida dei suicidi risuonavano, in maniera ricorrente, nell’immenso spazio cavo che costituisce il suo volume interno.
Concettualmente parlando l’edificio di 173 metri e 55 piani, il cui nome parzialmente in latino voleva alludere ad un “ponte” tra la terra ed il cielo, fu in effetti concepito verso l’inizio degli anni ’70 per rispondere ad esigenze specifiche ed il maggior numero possibile di codici architettonici vigenti. Il che significava offrire finestre aperte su ambo i lati degli appartamenti, per garantire la circolazione d’aria per cucine e bagni. Dovette sembrare a questo punto totalmente logico, agli architetti Feldman, Hermer e Grosskopf, concepirlo come un sigaro cavo all’interno, di gran lunga il più alto edificio d’Africa ed almeno in parte ispirato dal caratteristico Marina City della città di Chicago. Luogo ameno contenente, oltre agli appartamenti, negozi, palestre, piscine ed ogni altro servizio immaginabile, il palazzo inaugurato nel ’75 vide dunque la sua immagine descritta come quella di un luogo di lusso estremo, con suite multipiano nella propria parte superiore e spazi interni dalla massima eleganza. Ciò che fin da subito caratterizzò la propria modalità d’impiego, tuttavia, fu la drammatica situazione sociale di quell’epoca nel suo paese d’appartenenza. Da ormai oltre un ventennio, tragicamente, in Sudafrica vigeva la dura legge dell’apartheid, il che significava che soltanto gli appartenenti ad etnia caucasica potevano legalmente risiedere nell’intera Hillbrow e lo stesso Ponte City, fatta eccezione per una serie di anguste residenze per la servitù, collocate nei più elevati locali “tecnici” del grattacielo e rigorosamente prive di finestre ad altezza occhi, così da scoraggiare l’osservazione del (magnifico) panorama cittadino antistante. Questa tipologia di discrepanze e contraddizioni su base etnica tuttavia, lungi dal preservare le grandi città dal crimine e l’illegalità, con il proseguire delle decadi condussero a situazioni tanto estreme da servire, paradossalmente, come prova dimostrativa del fallimento della segregazione umana. E sarebbe stato assai difficile, a partire dagli anni ’90, immaginare un esempio più lampante di questo della straordinaria torre di Johannesburg e coloro che, loro malgrado, continuarono ostinatamente a chiamarla casa…

Sormontato dal più visibile e spettacolare cartellone pubblicitario del paese, noleggiato dalla Coca Cola Company fino al 2000 ed oggi recante il logo della compagnia telefonica Vodacom, il Ponte City continuò ad essere redditizio per un tempo ragionevolmente lungo dopo l’esplosione della bolla immobiliare sudafricana. Si racconta a tal proposito di come negli anni ’80 e ’90, una grande quantità di “immigrati” dal nome e cognome straniero avessero iniziato inesplicabilmente a popolarla, trattandosi nella realtà dei fatti di persone dalla pelle nera, i cui stessi amministratori della torre erano più che disposti a far coesistere con gli affittuari dei piani alti dalla comprovata discendenza europea, perfettamente consapevoli di poter ricorrere in qualsiasi momento a sfratti e aumentargli l’affitto senza nessuna possibilità di ricorso legale. La situazione non era tuttavia sostenibile e non ci volle molto perché gli abusivi superassero di numero coloro che erano dotati di un contratto esplicito, il che in epoca di apartheid poteva portare soltanto ad un possibile effetto finale: l’aumento esponenziale di criminalità, droga e prostituzione, mentre le stesse forze dell’ordine decidevano di abbandonare e sorvegliare a distanza una zona giudicata ormai irrecuperabile, da cui venivano tolti i servizi di gas, elettricità ed approvvigionamento idrico. Il Ponte City, così magnifico, era nei fatti diventato l’equivalenza in vetro e cemento di una favelas a sviluppo verticale. Le storie di quest’epoca assumono tinte quasi leggendarie, come quella secondo cui la mega-insegna degli ultimi piani smettesse frequentemente di funzionare, poiché le sue lampadine erano della grandezza giusta per costruirci delle pipe da crack. Il fondo dell’atrio, lasciato al naturale con un fondo di pietra discontinua, che in origine avrebbe dovuto diventare una pista da sci (!) scomparì ben presto sotto il crescente strato di rifiuti e come anticipato poco sopra, le alte mura diventarono famose negli ambienti cittadini come il Suicide High. Non che vi siano dati chiari in materia, con alcuni residenti di quegli anni che sono pronti a giurare saltassero abbastanza persone da farne il singolo luogo più mortale al mondo, mentre altri ricordano, al massimo, qualche raro caso al trascorrere dei lunghi anni di degrado.
L’idea che il Ponte potesse ritornare, nonostante tutto, una struttura utile al benessere della città di Johannesburg iniziò ad essere evocata in modo alquanto inaspettato verso la metà degli anni ’90. In un periodo in cui lo spazio delle carceri si andava rapidamente esaurendo, l’architetto statuintense Paul Silver venne chiamato in Sudafrica per individuare nuovi siti da adibire a tale mansione, tra cui spiccò ben presto proprio l’elevato grattacielo metropolitano, essendo dotato di molte delle caratteristiche giudicate idonee a rinchiuderci dentro le persone. Alcuni politici particolarmente spregiudicati, addirittura, arrivarono ad affermare che si potesse semplicemente sigillare le porte con tutti coloro che si trovavano in quel momento all’interno, aumentando immediatamente la qualità della vita per tutti gli altri. Il che non teneva conto, chiaramente, della numerosa quantità di bambini ma da queste parti non erano particolarmente soliti, come purtroppo ben sappiamo, andare per il sottile. Entrambi i progetti furono fortunatamente scartati in fase decisionale, poiché a quanto pare non sembrava giusto che dei criminali dovessero vivere nel punto più alto della città. Ma il dado a quel punto era ormai stato tratto e campeggiava a più livelli l’idea che il palazzo dovesse ritornare agli “antichi fasti”. Qualunque fossero le implicazioni e il costo di una simile operazione…

I primi tentativi di sgombero vennero effettuati all’inizio degli anni 2000, da compagnie specializzate che a quanto narrano le fonti entrarono con armamento ed attrezzatura pesante. Scontrandosi necessariamente di fronte all’impossibilità di far uscire con la forza le circa 10.000 persone che si erano, nel frattempo, stabilite tra queste mura concepite per contenerne al massimo 2.500. Il processo fu dunque lungo e laborioso, richiedendo fino all’anno 2007, quando un nuovo sviluppatore si fece avanti per acquistare a prezzo ridotto il palazzo subito inserito nel progetto denominato New Ponte: un mega-condominio per la classe media, dagli affitti relativamente bassi e gli accessi severamente controllati.
Così da tenere a distanza per quanto possibile quel sentimento che per tanto tempo, ed in modo così acerrimo, aveva guidato le scelte degli abitanti del Sudafrica: la paura. Di quei criminali e terroristi, fluidamente identificati dal senso comune come Nigeriani, Xhosa, Congolesi, Zulu o qualsiasi altra identità etnica dalla pelle scura, che attraverso gli anni addietro erano stati visti “formare” dei nutriti gruppi criminali o terroristici tra le impenetrabili mura di edifici come il Ponte City. Laddove posti innanzi alla scelta tra saltare dai piani alti verso il grande baratro o costruirsi un più spietato schema di valori, molti sceglievano la seconda via. Con le palesi conseguenze di cui ancora oggi, qui ed altrove, possiamo ben vedere gli effetti a lungo termine sul naturale funzionamento della società umana.

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