La nube al centro dell’Universo e l’involontaria profezia del World Trade Center

Era una giornata di festa il 30 maggio del 1921 a Tulsa, Oklahoma e il resto degli Stati Uniti, per la celebrata ricorrenza del Memorial Day, dedicato alla memoria dei soldati che avevano combattuto in guerra per difendere la Nazione. Un popolo unito sotto Dio, la Costituzione e il Sole, nei momenti di gioia così come quelli di conflitto. Il cambiamento dalla prima alla seconda modalità, per questo, non richiese che un singolo momento: quando il lustrascarpe afroamericano Dick Rowland venne accusato di aver molestato la concierge di ascensore caucasica Sarah Page, del vicino Drexel Building. Uomini armati di entrambe le etnie, come avviene tanto spesso in questi luoghi, s’incontrarono in prossimità della linea ferroviaria cittadina. E dopo un alterco che portò allo scoppio accidentale di un colpo di pistola, scoppiò la fine del mondo. Una sparatoria durata fino a mezzanotte, in cui i combattenti in minoranza numerica, aggirati dopo aver ucciso 10 bianchi (e persi 2 dei loro) dovettero ritirarsi all’interno del quartiere di Greenwood, noto come la Wall Street Nera per l’opulenza e l’alto grado d’istruzione dei suoi abitanti. La brava gente di Tulsa, a quel punto, pensò bene di appiccare il fuoco agli edifici, portando all’evacuazione di 10.000 persone e danni equivalenti a 40 milioni di dollari attuali. Si stima, al sollevarsi del fumo residuo, che più di altre 300 persone persero la vita da ambo le parti.
Oggi presso il sito dove si verificò il disastro è stata posizionata un placca commemorativa. Molto meno imponente o visibile dello svettante grattacielo della Banca dell’Oklahoma, una torre di 52 piani costruita dallo stesso architetto delle Torri Gemelle, Minoru Yamasaki, con l’esplicita intenzione di riprenderne l’aspetto estetico, gli arredi interni ed il design. Forse per questa ragione innanzi ad essa, nel 1992, fu concesso allo scultore ed artista moderno di discendenza Apache, Bob Haozous, di mettere in evidenza nel miglior modo possibile le contraddizioni della società moderna, con la sua mancanza di rispetto per la natura e la spiritualità dell’uomo stesso. Pur non essendo propriamente politica dunque, come del resto nessun’altra delle sue opere, l’installazione quasi totemica di Artificial Cloud domina oggi la piazza, configurandosi come una nube in acciaio parzialmente ossidato, il cui palo aguzzo contiene immagini in sequenza di uomini senza braccia o gambe, ed aeroplani che cadono verso il terreno. Iconografia ed immagini dalle molte possibili interpretazioni, ma che nel paese che tentò un tempo di censurare la sigla del telefilm Mad Men perché la figura stilizzata giustapposta al grattacielo ricordava la terribile tragedia dell’11 settembre, tenderebbero soltanto ad una specifica allusione concettuale. Se soltanto ciò non fosse, data la sequenza cronologica degli eventi, del tutto impossibile…

Chissà quando la questione è stata portata all’attenzione dell’autore o se invero fu lui di propria iniziativa, a pensarci. Il fatto resta che un simile contegno profetico, su linee guida non del tutto scollegate dalla fatalità della storia, non è certamente al di fuori dello spettro comunicativo di Bob Haozous. Lui, figlio d’arte del grande artista e professore Allan Houser, che fece una scelta esplicita al concludersi del college di diventare celebre con il cognome dei propri antenati, pur avendo ripetutamente affermato di non identificarsi in alcun modo nelle antiche leggende, credenze o il presunto contegno “stoico” dei cosiddetti indiani. Avendo sempre dimostrato al mondo di avere tantissimo da dire, obiettivo perseguito tramite una produzione più che decennale di opere talvolta umoristiche, in altri casi emblematiche, quasi sempre latrici di quel messaggio di ritorno alla comunione tra uomo e natura, che lui ci tiene a definire appannaggio non soltanto di mistici guerrieri o depositari di tradizioni epocali, bensì frutto del mero buonsenso dell’uomo contemporaneo. Così come la nube artificiale di Tulsa fu intenzionalmente lasciata esposta agli elementi senza patine o trattamenti protettivi, affinché potesse arrugginirsi e scurirsi in conseguenza dell’inquinamento ambientale cittadino. (“Noi che distruggiamo l’ambiente, dovremmo almeno ricordarlo con dei monumenti”.) Ed alla stessa maniera delle altre sculture ricavate da sagome di metallo, un materiale che ha spesso impiegato a partire dagli anni ’80 e ’90, con orsi, lupi e figure antropomorfe in chiara difficoltà in cui è lo spazio negativo, tanto spesso, a rendere palese il messaggio di fondo. Sul fronte specifico delle tematiche razziali, toccato innanzi alla BOK Tower meramente con la scelta del sito per la sua nube, poteva a tal proposito essere emblematica l’opera del 1988 di Apache Pull Toy, figura di un cowboy impiegato come bersaglio per il tiro a segno da lui ed altri suoi nemici nativi americani, nella stessa maniera in cui era l’usanza fare tra i giovani statunitensi con figure dei selvaggi ed eternamente incompresi “indiani”. Un linguaggio comunicativo con un forte comparto di violenza e brutalità, forse inevitabile quando ci si approccia alla questione delle discriminazioni etniche e sociali. Che ricorre in molte altre creazioni dell’artista, tra cui Earth Wagon del 1994 creato per uno spazio espositivo all’aperto presso il College di Santa Fe, città dov’è nato ed opera, raffigurante un carro dei pionieri trasformato in feretro da funerale, e ricolmo della terra rossa di un paese che fu in molti modi condannato, successivamente all’insediamento incontenibile dell’uomo europeo e contemporaneo. Tematica forse portata alle più estreme conseguenze, assieme all’impostazione verticale di Artificial Cloud, nella sua scultura del 2020 “Tempio al razzismo”, imponente obelisco eretto nel terreno che la città del Nuovo Messico gli ha riservato, recante diciture cubitali in lingua inglese che richiamano gli innumerevoli tipi di discriminazione possibile: di casta, genere, etnia, religione, ricchezza, istruzione, ambiente di provenienza…

Un grido silenzioso in uno spazio vuoto in fin dei conti, così come quello che frequentemente lanciano i turisti all’ombra della sua profetica nube tulsiana. Proprio lì, di fronte alla Twin Tower solitaria (si narra che in origine, il proprietario della banca ne volesse ben quattro, dovendo arrendersi per mancanza di fondi per gli ascensori) dove un pattern circolare sul selciato della piazza è associato ad una strana caratteristica situazionale. Soprannominato come “Il centro dell’Universo” per ragioni largamente ignote, questo esatto punto è circondato da mura marmoree, fioriere ed altri arredi urbani in modo tale che, in maniera veramente atipica, possa formare l’eco delle altisonanti parole ivi pronunciate dai curiosi visitatori. Perfettamente udibili per loro stessi, pur scomparendo letteralmente a pochi metri fuori dalla zona miracolosa. Uno strano… Fenomeno, se così possiamo chiamarlo, che si aggiunge agli altri misteri irrisolti di un luogo dove ebbe inizio una delle ingiustizie più eminenti nella storia contemporanea di quel paese.
Nazione dove specifici membri ed organizzazioni all’interno delle forze dell’ordine, oggi più che mai, dimostrano l’inclinazione a percepire una particolare narrativa che istituisce una scala di merito inerente in base all’aspetto fisico, ovvero la discendenza degli esseri umani. Forse, come nella scena di apertura del più celebre film con Tom Hanks, l’ennesima deriva degli anni 2020 era già nell’aria all’inizio di quel dramma epocale. E prevederla, l’ipotetica conseguenza di saper cogliere la piuma metaforica che aleggiava in prossimità della fermata del bus.

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