Sull’elegante tavolo di rovere, il cameriere depone il recipiente dal flessuoso gambo, simile al collo di un cigno. Oltre il bordo dell’oggetto emergono, in posizione vicendevolmente equilibrata, tre gibbose forme organizzate sulla base di un gradiente cromatico dotato di un possibile significato nascosto. Una bianca come il latte, una di un leggiadro rosa antico ed infine la terza, di un sorprendente verde oliva che ricorda l’antica giada di un tempio dedicato alla ricerca della Via. Si tratta, ad uno sguardo maggiormente approfondito, di semplici uova. Ma ciascuna caratterizzata da una storia totalmente diversa. Giacché la prima fu deposta, in origine, da un’anatra e successivamente messa in salamoia, onde preservarne per quanto possibile la commestibilità inerente. La seconda viene in modo molto semplice da un pollo, che l’ha posta in terra sul finire di questa mattina. E la terza, la terza è frutto di un preciso a antico rituale che prosegue l’opera di quella stessa anatra, frutto dello studio molto umano di ciò che assolve alla mansione frutto di una rilevante necessità. Senza particolari concessioni all’apparenza, più o meno gradevole, del risultato finale. Benché innanzi alla realtà dell’esperienza ereditariamente acquisita, l’eterno pídàn (皮蛋) o “uovo di cuoio” venga considerato una vera delicatezza per il palato ed ANCHE gli occhi di chi sa riconoscere la suprema qualità degli ingredienti tradizionali. Con un’espressione indecifrabile, il commensale in visita solleva a questo punto le bacchette. Ed impugnandole come una spada leggendaria, le imprime in modo energico sul “guscio” esterno dell’iconico progetto culinario. Un globo che si piega su stesso e si comprime finché si apre nel cratere, rivelando il denso contenuto verde-rame agli altri silenziosi avventori. Un odore acre e pungente, simile a una fonte solforosa, avvolge l’intero vasto ambiente del ristorante…
Considerata la natura straordinariamente eterogenea della cucina cinese, le cui sfaccettature plurime si riflettono tra le umide valli del Sichuan, gli alti picchi dello Shandong, le spaziose pianure del Jiangsu, è senz’altro significativo che persistano ingredienti, dalla storia lunga ed altrettanto stratificata, la cui esistenza è collegata alla stessa identità linguistica e culturale di un’intera nazione. Un pregiato novero all’interno del quale rientra senza dubbio quello che gli occidentali chiamano il century egg o “uovo del secolo”, mentre in Thailandia prende il nome molto più prosaico di khai yiao ma, ovvero “uovo dell’urina di cavallo”. Poiché si è soliti scherzare che per garantirgli il gusto e consistenza straordinariamente particolari, i segreti saggi siano soliti deporlo per cento anni dentro un contenitore pieno del suddetto fluido maleodorante. Ipotesi semi-seria che, per quanto improbabile persino nella vasta e misteriosa terra d’Asia, appare almeno in parte giustificata dal modo in cui tende ad essere istintivamente interpretato questo globo sorprendente, per lo meno dai non iniziati alle sublimi zone periferiche del gusto e del palato…
strano
Il rischio spesso sottovalutato dell’albero di palma con gli aghi dentro
Frequentando certi spazi multimediali di Internet, diventa gradualmente più facile determinare la natura spettacolare o esorbitante di determinati contenuti online. Talvolta per la qualità delle immagini mostrate. Certe altre è l’argomento. O ancora può trattarsi del commento fuori campo dell’autore, coadiuvato da un’approfondita descrizione divulgativa in qualità di didascalia. Ma soltanto in rari casi è al termine della fruizione, durante la lettura dei commenti, che si riesce finalmente ad acquisire la portata nozionistica di quanto si è appena visto. Questa è senza dubbio l’opportunità che viene offerta dal qui presente capitolo dello sperimentatore gastronomico “All The Fruit”, viaggiatore tedesco operante sulla falsariga di tanti altri influencer a cui non manca il coraggio di trangugiare i più diversi frutti situati sopra i rami più alti degli alberi di questo vasto mondo. Sequenza videografica entro la quale egli osserva, descrive e infine tocca senza esitazione un albero facilmente riconoscibile come l’arecacea che gli anglofoni chiamano fishtail palm (palma a coda di pesce) ma nella natìa India ed il resto dell’Asia Meridionale viene definita molto più semplicemente khitul.
Un albero dal tronco distintamente isolato e le famose foglie sfrangiate, ma anche le copiose, attraenti cascate di frutti sferoidali simili a datteri multicolori o chicchi d’uva sovradimensionati. Che come preannunciato all’inizio della sua dichiarazione costui, almeno a quanto ci viene fatto capire, arriva addirittura a trangugiare. Al che “Sei pazzo?” scrivevano in calce al canale: “Come ti senti? Non hai dolore?” Ottenendo lì soltanto la laconica risposta: “Yes.” Un eufemismo se mai ce n’è stato uno, degno di essere approfonditamente delineato. Giacché pressoché chiunque abiti o abbia sperimentato quell’angolo di mondo per un tempo abbastanza lungo, ha ricevuto almeno una volta il perentorio avviso: non toccare, non avvicinarti senza guanti e soprattutto NON MANGIARE la palma khitul. Se non vuoi sperimentare un sublime livello di sofferenza che potremmo definire, in modo metaforico, la perfetta traduzione funzionale dell’inferno in Terra…
Il prestigio imperituro che deriva dal possesso del fringuello più soave del Belgio
Il sovrapporsi dei cristalli lucidi sotto l’impulso fotonico dei raggi diurni; il congelamento dei tenui rivoli soltanto in parte paralleli, che diventano nel giro di minuti totalmente uniformi; la sottile scurezza rispetto al codice della conformità cromatica, presto curata dall’ossigeno che viene spostato grazie al vento. Si è soliti dire che “osservare la vernice mentre si asciuga” possa costituire un’attività indegna delle agili sinapsi di una mente adulta. Laddove, la realtà c’insegna, è possibile coltivare una passione per qualsiasi cosa. Previa ri-progettazione del sofisticato castello delle aspettative inerenti. E questo è vero per lo sguardo, quando nello spazio auditivo che compete all’incessante acquisizione della conoscenza. Una sublime verità da sempre posseduta, a loro modo, dagli appartenenti alla sublime stirpe dei volatili di questo mondo. E tutti coloro che li amano, non soltanto in modo implicito, bensì attraverso l’intelletto che ogni cosa tende a contestualizzare e se possibile, posizionare nel preciso ordine di una graduatoria complessa. Oh, mercanti delle Fiandre! Che agli albori dell’epoca moderna, tra il XVI e XVII secoli, tornavate presso questi lidi con al seguito preziose spezie, tesori e merci provenienti dal distante Oriente. Cosa mai avrebbe potuto soddisfare, a questo punto, le vostre menti alimentate dal più eclettico catalogo di ricordi ed esperienze? Se non l’elevazione di un qualcosa di mondano, ricorrente nella Vs. quotidianità territoriale, persino fastidioso in certe circostanze… Ad una Vera Arte, completa di sublimazione delle tecniche, con spostamento delle aspettative a nuovi gradi di eccellenza precedentemente inusitati. Nell’allevamento con fini canori del vink o fringuello comune (Fringilla coelebs) un uccello celebre per i propri richiami stagionali, per segnalare adeguatamente i confini del suo regno e richiamare l’attenzione della necessaria e beneamata compagna.
In linea di principio, s’intende. Giacché al giorno d’oggi, nell’intera zona dei Paesi Bassi, chi ode quel trillo inconfondibile che viene trascritto con il susseguirsi dei fonemi susk-e-wiet ha un buon 50% di averlo sperimentato nel contesto di una ricorrenza implementata e resa imprescindibile dall’uomo stesso. Ovvero l’ordinato susseguirsi d’individui chini in avanti, per lo più pensionati ma non solo, seduti su semplici sgabelli o sedie da regista poste in posizione equidistante sulle strade delle rispettive comunità di appartenenza. Dinnanzi a dei contenitori in legno con opache tapparelle apribili, soltanto nella parte frontale e/o sul retro. Da cui ricorre l’emergenza, cadenzata eppure non del tutto regolare, di una musica frutto del cuore, piccolo ma ricco di un profondo sentimento. E ad al concludersi di ciascuna singola strofa di un altoparlante, l’antistante personaggio appone un rigo sulla propria lunga asta lignea di riferimento. È la conta che conduce al ritmo del trionfo. Piuttosto che l’abisso della più totale o insuperabile indifferenza…
Uccelli concentrici cotti per 24 ore nell’arrosto a matrioska della Francia Imperiale
Ispezionando la linea quasi marziale dei suoi servitori in livrea cupa dai risvolti multicolori, Grimod de La Reynière ebbe una delle sue formidabili intuizioni “Le temps… Est venu! Mio fedele esercito, attraverso valli e ripide colline voi mi avete accompagnato. L’amichevole grugnente ami, oltre la noiosa quotidianità, avete nutrito…” Qui rivolse un cenno al piccolo maiale a capo-tavola, cui era stato servito un vassoio d’uva e mele cotogne in base a sue precise istruzioni; “Ed ora in mezzo a queste antiche mura, che furono della mia famiglia per generazioni, faremo la Storia.” Così l’avvocato, critico d’arte nonché ricco ereditiere salvatosi dall’ira rivoluzionaria grazie ai suoi ferventi libelli contro il potere costituito, si alzò da tavola, poggiando il bavaglino sulla sedia riccamente ornata. Il lungo bastone da passeggio stretto nei candidi guanti protesici per mitigare l’anomalia congenita di quelle dita maledette, fece strada giù per le scale e dietro i locali della leggendaria cucina di Villiers-sur-Orge. Dove in gran segreto, stipendiando una famiglia popolana di cacciatori ed allevatori, aveva fatto allestire un tendone simile a quello di un circo. Ma adesso maggiordomi e cameriere, finalmente, sarebbero stati messi al corrente del contenuto. Un semplice gesto spalancò il passaggio, diffondendo un’espressione di stupore tra i presenti “Osservate, amici miei, l’origine del sogno!” Con le tende aperte, la luce che inondava quell’ambiente caotico e multicolore. Un gran totale di esattamente 17 spazi recintati lasciavano vedere i variegati occupanti di una vera e propria menagerie pennuta. Da una parte uccelli selvatici, un paio d’otarde, una famiglia di tacchini, tre fagiani reali. Nei recessi all’altro lato, anatre e fagiani, una gallina faraona dall’aria perplessa e due chioccianti beccacce. Ivi accompagnate dal germano lacustre ed un piviere, accanto al tordo ed alla quaglia, il passerotto e l’allodola. E in un angolo gabbiette contenenti piccoli ortolani, allodole, canapini. A questo punto mentre già il bastone si sollevava per anticipare la rivelazione finale, il cuoco della prestigiosa magione, che si era messo al seguito del gruppo con ancora una mannaia stretta nella mano sinistra, comprese ciò di cui stava parlando il padrone il casa. “Oh, Mon Dieu… Non voglio sentire” Lasciando cadere quel metallo sferragliante a terra, si portò le mani alla bocca e agli occhi in alternanza. Ma l’effettivo desiderio alchemico del suo datore venne pronunciato pochi attimi dopo: “Dal macroscopico al microscopico. L’insieme del totale. Ciò che era molto, diventerà uno soltanto. Per la festa della settimana prossima, noi cucineremo e serviremo in tavola… Un rôti sans pareil. (Arrosto Senza Pari).
Ah, si, l’eccesso. Con la fine dell’epoca Barocca ed i duri capitoli di lotta sociale, culminati tramite l’impiego reiterato della macchina perfetta per decapitare le persone, il popolo francese si era reciprocamente convinto di essersi lasciato alle spalle ogni espletamento in contrapposizione al mero dipanarsi della quotidianità vivente. Ma se l’ascesa del grande Napoleone aveva insegnato qualcosa alla collettività ancora una volta rimasta indivisa, era che il lusso e l’eccesso non dovessero per forza essere la conseguenza di diritti acquisiti per nascita. E mentre la cucina raffinata usciva dai palazzi del potere per infondere prestigio nei nuovi ristoranti dedicati alla borghesia, trovava modo e una ragione di prosperità la particolare visione del mondo posseduta da individui davvero… Particolari…