Il rischio spesso sottovalutato dell’albero di palma con gli aghi dentro

Frequentando certi spazi multimediali di Internet, diventa gradualmente più facile determinare la natura spettacolare o esorbitante di determinati contenuti online. Talvolta per la qualità delle immagini mostrate. Certe altre è l’argomento. O ancora può trattarsi del commento fuori campo dell’autore, coadiuvato da un’approfondita descrizione divulgativa in qualità di didascalia. Ma soltanto in rari casi è al termine della fruizione, durante la lettura dei commenti, che si riesce finalmente ad acquisire la portata nozionistica di quanto si è appena visto. Questa è senza dubbio l’opportunità che viene offerta dal qui presente capitolo dello sperimentatore gastronomico “All The Fruit”, viaggiatore tedesco operante sulla falsariga di tanti altri influencer a cui non manca il coraggio di trangugiare i più diversi frutti situati sopra i rami più alti degli alberi di questo vasto mondo. Sequenza videografica entro la quale egli osserva, descrive e infine tocca senza esitazione un albero facilmente riconoscibile come l’arecacea che gli anglofoni chiamano fishtail palm (palma a coda di pesce) ma nella natìa India ed il resto dell’Asia Meridionale viene definita molto più semplicemente khitul.
Un albero dal tronco distintamente isolato e le famose foglie sfrangiate, ma anche le copiose, attraenti cascate di frutti sferoidali simili a datteri multicolori o chicchi d’uva sovradimensionati. Che come preannunciato all’inizio della sua dichiarazione costui, almeno a quanto ci viene fatto capire, arriva addirittura a trangugiare. Al che “Sei pazzo?” scrivevano in calce al canale: “Come ti senti? Non hai dolore?” Ottenendo lì soltanto la laconica risposta: “Yes.” Un eufemismo se mai ce n’è stato uno, degno di essere approfonditamente delineato. Giacché pressoché chiunque abiti o abbia sperimentato quell’angolo di mondo per un tempo abbastanza lungo, ha ricevuto almeno una volta il perentorio avviso: non toccare, non avvicinarti senza guanti e soprattutto NON MANGIARE la palma khitul. Se non vuoi sperimentare un sublime livello di sofferenza che potremmo definire, in modo metaforico, la perfetta traduzione funzionale dell’inferno in Terra…

Trattasi d’altronde di un tipico caso di tossicità vegetale, ancorché operi su gradi e tramite un approccio radicalmente diverso dalla convenzione acquisita in materia. La palma a coda di pesce in effetti, pur contenendo una quantità potenzialmente nociva del composto carbossilico dell’acido ossalico, capace in linea di principio di causare l’anemia e varie tipologie d’osteoporosi, difficilmente potrebbe in funzione di questo arrivare a nuocere all’organismo umano. Che d’altronde assimila di continuo tale sostanza, presente anche nei cereali integrali, negli spinaci, il rabarbaro ed i kiwi, tra gli altri prodotti normalmente presenti sulle nostre tavole. Mentre la sua arma segreta, nonché principale fonte del pericolo, è rappresentata dalla maniera in cui tale acido viene effettivamente indotto a cristallizzarsi assieme al sale contenuto entro le singole parti della pianta, nella forma allungata che la scienza è abituata a definire un rafido. Bastoncino appuntito da ambo i lati simile a uno stuzzicadenti, della lunghezza variabile tra i 16 e 300 nanometri, che data la sua dimensione ridotta può incunearsi nella dura scorza della pelle o dell’esofago, penetrarvi all’interno e danneggiare addirittura la membrana cellulare, causando prurito, eruzione cutanea, dolore. O conseguenze anche più estreme nei casi di contatto prolungato, in qualità di contromisura nei confronti della brucazione da parte di animali erbivori che non desistano in maniera sufficientemente rapida dall’idea di fagocitare la pianta. Un approccio all’autodifesa, quest’ultimo, considerevolmente più raro ma che trova alcuni altri casi celebri all’interno del mondo vegetale. Tra cui quella dell’Arisaema triphyllum o cipolla di palude, che i nativi americani appartenenti al popolo dei Meskwaki erano soliti utilizzare come punizione contro i loro nemici, eliminando il sapore sgradevole mediante l’utilizzo della cottura. Per poi nutrirli con soltanto tale cibo per periodi prolungati, finché non sopraggiungesse una notevole sofferenza ed infine, la morte.
Il che si trova radicalmente all’opposto della percezione di questa palma in Asia, effettivamente molto apprezzata per le sue qualità ornamentali ed utilizzata addirittura come pianta da appartamento nella forma di esemplari maggiormente minuti. Biologicamente monocarpica, la khitul raggiunge la fase riproduttiva soltanto una volta dopo un periodo di 10-15 anni, quindi muore. Occasione durante la quale diviene temporaneamente rilevante dal punto di vista economico, essendo il nettare prodotto dai suoi fiori bianchi una sostanza zuccherina utile alla produzione di jaggery (zucchero) o un’apprezzato sciroppo il quale, successivamente alla fermentazione, può essere trasformato nella bevanda alcolica che prende il nome di toddy. Ma non prima di aver costituito, nella sua pura ed apprezzabile essenza, un tipo di prodotto paragonabile allo sciroppo d’acero che viene talvolta descritto come una possibile futura esportazione redditizia di luoghi come lo Sri Lanka.

Il che non significa che la coltivazione su larga scala di queste palme sia priva di difficoltà inerenti. Non soltanto relative alla tossicità dell’albero, ma anche l’effettiva raccolta del nettare in questione, che diversamente dal beneamato sciroppo canadese non può essere veicolato mediante tubi inseriti direttamente nel tronco, bensì attraverso dei semplici recipienti disposti sotto la pianta. Ed è per questo soggetto a contaminazioni dovute a detriti, insetti e le poche, coraggiose specie di uccelli che riescono a nutrirsi dei frutti risultanti. Questione tale da rendere molto difficoltosa, per non dire improbabile, la certificazione da parte della maggior parte degli enti normativi internazionali. Non che ciò esuli dall’essere una fortuna sotto mentite spoglie per l’ambiente locale, vista l’inerente capacità di propagazione notevole delle arecacee, che ha portato alla grave problematica antropogenica dell’ormai preponderante Elaeis guineensis o palma da olio originaria dell’Africa Occidentale, ormai diffusa pressoché ovunque. Ed immaginate i danni che avrebbe potuto fare qualcosa di similmente prolifico, ma che è in più anche tossico per gli animali senza contromisure evolutive atte a proteggerli dal suo terribile veleno aghiforme. Per non parlare dell’occasionale entusiastico o imprudente youtuber, incline alla dimenticanza del pericolo di fronte al luccicante mondo della popolarità online.

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