Oh, copiosa metamorfosi! Ode all’imponente ipertrofia dell’ultramosca

Tra tutti i posti dove scegliere di deporre le proprie uova, è difficile immaginare per un insetto un alternativa peggiore della dispensa sotterranea di un formicaio. Specie se del tipo appartenente al genere Atta costruito dalle cosiddette tagliafoglie, imenotteri la cui capacità di suddivisione dei compiti è tanto avanzata da essere studiata come manifestazione pratica di un singolo organismo. E la cui vigilanza risulta essere così precisa, che persino durante il trasporto dei pezzetti di vegetazione da cui prendono l’appellativo una o più di loro trova posto sopra le lettiga improvvisata della fronda semovente, avendo cura d’attaccare con le affilate mandibole ogni potenziale parassita della giungla neotropicale. Ancorché la collettività sotterranea, in paziente attesa dell’insostituibile sostanza nutriente, non si mostrerà incline a fagocitarla in maniera pressoché immediata. Ma piuttosto deponendola sul fondo della stanza, lascerà che funghi e muffe crescano sopra i pezzi delle piante marcescenti. Ed è in questo florido contesto, dove feromoni e antenne cessano di funzionare in modo puntuale, che le più imponenti rappresentanti della famiglia Mydidae inoculano, con acuminato ovopositore, la prossima generazione delle proprie pallide uova rotondeggianti. Che non saranno d’altra parte in alcun modo nocive per le padrone di casa, contribuendo piuttosto una volta schiuse alla cattura e fagocitazione delle larve di scarabeo Dynastinae e Rutelinae, queste si, nemiche potenziali della militarizzata collettività dei mirmidoni. Verso l’accumulo di forze necessarie a crescere in salute e raggiungere l’età adulta, sulla base di un copione lungamente noto alla scienza. Tipico dei ditteri endopterigoti sottoposti ad olometabolia, che dopo il trascorrere di un tempo adeguato, compiranno la tortuosa trasformazione da uovo a neanide, poi ninfa ed infine la caratteristica imago ronzante. Già poiché stiamo qui parlando, per quanto difficile possa risultare intuirlo dalle immagini, di quella che rappresenta a tutti gli effetti una “semplice” mosca. Così come la balenottera azzurra, maggiore animale mai vissuto sulla Terra, è “soltanto” un cetaceo. Laddove i 7-8 cm della lucida forma esoscheletrica di questo insetto nella sua forma finale, più simile a una cavalletta finché non lo si osserva spiccare il volo, rappresentano un caso di evidente gigantismo all’interno della sua categoria d’appartenenza. Ed un mistero della biologia, che non possiamo dichiarare allo stato dei fatti attuali totalmente chiaro né appropriatamente semplice da contestualizzare. Col potente ronzio nelle orecchie, più simile al motore di una macchina, che rende complicata l’elaborazione di pensieri complessi…

Il genere cui appartiene la mosca più grande più mondo, con diffusione endemica nei paesi del Centro e Sud America tra cui Brasile, Bolivia, Paraguay e Colombia, è un gruppo tassonomico relativamente compatto con circa 471 specie distinte, cifra trascurabile laddove altre categorie di mosche vantano svariate migliaia, se non decine di migliaia di varietà esistenti. Un potenziale fallimento della scienza tassonomica, nel categorizzare e metterne in rilievo le differenze, vista la rarità percepita di questi insetti, la cui vita in forma adulta dura un tempo particolarmente breve, appena sufficiente ad accoppiarsi e trovare il sito idoneo per procedere alla deposizione delle salienti uova, in quantità e con metodologie non del tutto note. Ciò che possiamo altresì determinare, per quanto concerne la specie più famosa ed imponente della Gauromydas heros dalle antenne arancioni con rigonfiamento nella parte terminale, è quanto meno un dimorfismo marcato tra maschio e femmina, dove la seconda sembrerebbe vantare dimensioni mediamente maggiori potenzialmente finalizzate a compensare l’incapacità di nutrirsi una volta spiccato il volo. Laddove le mosche giganti di sesso maschile, di loro conto, sono state viste visitare i fiori per suggerne il nettare così da massimizzare il mantenimento delle forze necessarie ad individuare una controparte. Abitudine osservata anche nelle altre mosche della famiglia, che includono una rilevante quantità di specie caratterizzate dal mimetismo batesiano, ovvero la capacità di assomigliare fisicamente a pericolose vespe, scoraggiando in questo modo l’attacco di eventuali predatori. Unica capacità difensiva in effetti, di una categoria di volatrici la cui agilità permette di trovare comunque una via di fuga in un’ampia varietà di situazioni, sebbene a giudicare dai video reperibili su YouTube una persona veramente determinata possa riuscire in modo relativamente facile a catturarle. Senza incorrere in rischi particolari per la salute, vista l’assenza di alcun tipo di pungiglione o il rischio di trovarsi contagiato da patologie nocive, come nel caso delle mosche cavalline, i tafani o addirittura le loro cugine in grado d’infettare con le proprie uova sotto la dura scorza della pelle umana. Ragion per cui, probabilmente, questi ditteri sono considerati una priorità minore per gli studi entomologici, conservando ancora oggi molti dei propri misteri nelle profondità più remote delle giungle neotropicali fin dalla prima classificazione, avvenuta nel 1874 ad opera del naturalista e diplomatico russo Karl Robert Osten-Sacken. Il che non riesce a renderli in alcun modo più rassicuranti allo sguardo, nel ricco novero d’insetti maggiormente variopinti o più frequentemente in grado d’incrociare i nostri sguardi.

Con il loro stato di conservazione ignoto e l’effettivo areale soltanto accennato sulle mappe degli istituti naturalistici di conservazione, le mosche giganti sono il tipico esempio di eredità biologica risalente alla remota Preistoria, in modo particolare il Cretaceo inferiore nella maniera efficacemente dimostrata da alcuni fossili della specie estinta Cretomydas santanensis, o persino il Giurassico come desumibile causa la correlazione filogenetica con altri generi pre-esistenti. La cui sopravvivenza o prosperità futura appare difficile da prevedere, vista la deriva problematica dell’attuale mutamento climatico ed il progressivo ridursi degli spazio naturali a disposizione. Difficile, in effetti, immaginare un futuro in cui mosche come queste possano sopravvivere o venire tollerate all’interno di un ambiente urbano. Piuttosto che giustificare l’adozione di lampioni-trappola e palette elettrificate della dimensione approssimativa di una zweihänder medievale. Giacché l’uomo poco tollera ciò che non riesce a capire. Soprattutto quando quel qualcosa sembra un modellino d’elicottero, pilotato col sorriso sulle labbra dal sotterraneo Belzebù in persona.

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