La maschera mediterranea della mantide sottile dai molti colori

Territorio al centro della colonizzazione umana fin da tempi relativamente antichi, tramite l’aggregazione dei gruppi sociali che un giorno avrebbero portato a civiltà, insediamenti agricoli e un giorno alle metropoli contemporanee, l’Europa non conosce più quel tipo di foreste selvagge, praterie incontaminate o vere e proprie oasi biologiche, che ancora sopravvivono in mezzo ai confini di altri continenti del nostro affollato pianeta. Il che non significa, necessariamente, che la natura più selvaggia si sia totalmente ritirata dai nostri lidi, lasciando posto solamente ad animali domestici o egualmente privi di originalità circostanziale, quali gatti, cani, qualche ragno, piccioni. Il fatto che un’atipica o notevole presenza possa essere soltanto definita come “rara” dovrebbe forse farcela declassare come meno rappresentativa di un particolare ambito geografico? Dipende. Molti entomologi dei nostri giorni, di loro conto, sono pronti a entusiasmarsi e sfoderare gli strumenti tassonomici dell’analisi più approfondita, ogni qual volta si ritrovano in un prato assolato delle nostre terre. Soltanto per scorgere, con la coda dei propri sguardi, una presenza filiforme che ritmicamente oscilla avanti e indietro, avanti e indietro quasi fosse un rametto vegetale fatto muovere dal vento. “Sono foglia, sono foglia. Sono solamente una foglia!” Sembra dire come un mantra la Empusa pennata o mantide a testa di cono, o ancora “diavoletto” per l’aspetto alquanto aggressivo dei suoi tratti somatici geometricamente appuntiti. Non che il nome scientifico risulti necessariamente rassicurante, essendo preso in prestito direttamente dalla mitologia greca, con riferimento alle mostruose ancelle della Dea notturna Ecate, succhiatrici mutaforma del sangue dei viaggiatori. Un po’ come la portatrice che non supera i 10 cm di quel nome, nel suo piccolo, costituisce il terrore in paziente attesa d’insetti volanti o deambulatori, rapidamente catturati con un gesto calibrato dei due arti raptatori frontali, che ricordano l’approssimazione biologica di falci fatte per distruggere qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Mentre per quanto concerne la qualifica nominale di pennata, essa è facilmente rintracciabile all’aspetto delle antenne particolarmente visibili nel maschio, ma presenti anche nella femmina, caratterizzate dalla forma simile alle venature di una foglia. Un prodotto funzionale dell’evoluzione, utile a rilevare l’emissione feromonica dell’altro sesso, facilitando e velocizzando l’essenziale processo di accoppiamento. Il che apre la strada a un’importante tratto di differenziazione di questi animali, rispetto allo stereotipo che gli viene comunemente attribuito: sto parlando della quasi totale assenza della pratica del cannibalismo, ai danni del partner di dimensioni minori subito dopo l’accoppiamento, notoriamente praticato dalla femmina nel caso di molte specie cognate. Quasi come simili presenze, avendo preso nota dello stato non propriamente iper-solido della loro popolazione in costante calo (nonostante la classificazione nominale di specie LC – “Non a rischio”) le mantidi avessero imparato a conservare per quanto possibile la vita dei propri simili. Ma non quella delle vittime designate al sopraggiungere, giorno dopo giorno, dell’ora di pranzo…

Non altrettanto caratteristiche una volta raggiunta l’età adulta, queste mantidi mantengono tuttavia almeno un singolo tratto notevole di distinzione. Non è difficile, in effetti, comprendere perché possiedano l’appellativo di “pennate”.

Con una diffusione che si estende dalle propaggini continentali del Portogallo fino a Francia meridionale, Italia, Marocco ed Egitto, la mantide dalla testa di cono presenta significativi adattamenti al proprio vasto areale possibile, con differenti colorazioni in base al tipo di pianta utilizzata in qualità di piattaforma di mimetizzazione durante le ore trascorse in paziente attesa della preda di turno. Generalmente verde o marrone, nelle sue popolazioni concentrate al centro e sud della nostra penisola, incluse le valli a media ed alta quota degli ambienti appenninici (c’è una seconda specie italiana, attestata unicamente nei dintorni di Trieste: la E. fasciata) essa può assumere tonalità rosate o persino violacee negli ambienti più caldi, per analogia coi fiori delle piante spinose dove preferirà risiedere, con ovvio guadagno di protezione dell’assalto dei suoi possibili nemici. Con una durata di vita pari all’incirca ad un anno, le diverse specie appartenenti al genere Empusa possiedono inoltre il tratto distintivo di poter superare l’inverno in forma di ninfe subadulte dal nome tecnico di neanidi, piuttosto che perire lasciando posto alle uova della prossima generazione, nella maniera fatta da molte delle loro cugine. Ragion per cui, nei mesi autunnali e fino al pieno dell’inverno, la forma giovane dell’insetto riesce a rappresentare un soggetto tutt’altro che insolito dell’attenzione e le fotografie degli escursionisti, che finiscono per accostarla nella propria mente a creature fantastiche al pari di una manticora o un unicorno. Fino al sopraggiungere della primavera quando, con un addome più convenzionale dalla forma piatta ed allungata, piuttosto che bitorzoluta e ripiegata su se stessa, le mantidi adulte provvederanno alla fecondazione delle femmine, a loro volta incaricate di trovare una foglia opportuna dove attaccare saldamente la propria ooteca o involucro delle uova. Con all’interno una quantità variabile tra i 25 e 40 possibili nuovi nati, permettendo di comprendere facilmente la solida proliferazione di queste creature, ciononostante sconosciute a molti di coloro che trascorrono la propria vita all’interno delle odierne città. Laddove soprattutto i maschi di pennata possiedono una naturale inclinazione al volo che li porta occasionalmente ad irrompere oltre la soglia o le finestre delle case rurali, causando non poco spavento negli occupanti, pur non presentando alcun tipo di pericolo per l’uomo. Le geometrie inquietanti, l’aspetto aggressivo ed il volto diabolico di questi piccoli protagonisti hanno del resto ben pochi termini di paragone, nell’intero ecosistema “civilizzato” dei nostri tranquilli territori paleartici, sospesi tra antico e moderno. Con una pendenza particolarmente marcata in direzione del versante moderno…

Il caratteristico movimento altalenante di questa categoria d’insetti ha principalmente lo scopo di potenziarne il mimetismo inerente. Approccio fondamentale e pressoché insostituibile, al fine di prolungare le sue prospettive di sopravvivenza.

Eppure, dopo tutto, chi può dire di non conoscere o non aver subito, per il tramite di un qualsiasi opera d’ingegno contemporanea, il fascino senza aggressivo della mantide? Quanto di più simile a un modello animato d’infiniti mostri al centro della nostra fervida immaginazione. Sovradimensionate per la prima volta nel film statunitense del 1957 – The Deadly Mantis di Nathan H. Juran, questo insetto lì sopito tra ghiacci dell’Artico (fino a una malcapitata spedizione) figura spesso nelle ipotesi fantastiche di proporzionalità variabili, al fine di rendere il piccolo preponderante e noi mammiferi iper-deambulatori, da troppo tempo abituati al predominio, gli spuntini possibili di una giornata di tagliente ed efferato svago omicida. Spesso presentate come “il nemico” nei cartoni animati con creature antropomorfe, quali A Bug’s Life del 1998 o Kung-Fu Panda del 2008, le mantidi raggiungono forse la loro interpretazione più terribile nei film dei kaiju (mostri giganti) giapponesi, come creature in grado di devastare intere metropoli e pianeti. Una visione forse ultra-terrena che ascende al ruolo di puro ed incorporeo surrealismo. Benché stranamente calzante, alla sensazione di pericolo implicata dal semplice aspetto di tali specie.

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