Da diavolo con le tenaglie, una libellula predatrice: abracadabra

Ascalafo, figlio di Acheronte e della ninfa Gorgira, era un antico demone che credeva fermamente nella giustizia. O quanto meno, nel suo diritto ad assolvere al compito che gli era stato assegnato dal suo signore Ade, di far la guardia al frutteto degli alberi di Melograno che crescevano da tempo immemore di fronte al fiume Stige. Quello che non gli riusciva particolarmente bene, tuttavia, era curarsi in modo particolare dei suoi interessi, agendo secondo gradi di cautela commisurati alle specifiche circostanze di ciascun caso. Così quando vide, secondo un’importante leggenda, la principessa rapita Persefone che coglieva uno dei sacri frutti, nutrendosi dei suoi semi deliziosi, andò immediatamente a riferirlo al suo datore di lavoro nonché spasimante non corrisposto di lei, che per punizione decise di prolungare di un anno la prigionia che le aveva ingiustamente imposto nel suo regno tenebroso. Non considerando, per sua grande sfortuna, chi fosse esattamente la madre della diretta interessata: niente meno che Demetra, Dea del raccolto e delle metamorfosi. La cui rabbia non conosceva alcun tipo di confine: per molti mesi, dunque, nessuna pianta poté più dare i suoi frutti sulla Terra. Terribili carestie sconvolsero il mondo. E sul presuntuoso Ascalafo, malcapitato, fu posta una pesantissima pietra che l’avrebbe schiacciato per tutto il tempo necessario a pentirsi. Quindi, una volta tornato libero, Demetra lo trasformò in un gufo. Di questa leggenda parla estensivamente il poeta Ovidio, sebbene per ovvie ragioni manchi di descrivere esattamente l’aspetto naturalistico del “pennuto”. Che a conti fatti avrebbe anche potuto non essere un uccello e molti la pensano in questo modo, quando si considera il nome scientifico di questa famiglia d’insetti: spesso chiamati Ascalaphidae, ovvero le mosche gufo.
Che poi gufi non sono e dopo tutto neanche mosche, bensì puri appartenenti alla divisione degli insetti neurotteri, caratterizzati da quattro ali ricoperte di venature, avendo mandibole masticatrici e la propensione a modificare completamente il loro aspetto al raggiungimento dell’età adulta. Da una forma larvale, inteso come biologico punto di partenza, che potremmo definire al tempo stesso preistorico, mitologico e conforme all’aspetto orrorifico di un imbattibile boss videoludico della serie Dark Souls/Elden Ring. Piatto e largo, al di sotto del centimetro di lunghezza (per fortuna) occupato dal suo dorso finemente ornato ed irsuto, capace di assomigliare a un fine merletto artigianale, una caratteristica graziosa fortemente controbilanciata dalla forma inquietante del suo apparato nutrizionale: una bocca malefica composta dal paio di tenaglie acuminate, del tutto simili a quelle del più frequentemente discusso Myrmeleontidae, il cosiddetto formicaleone. Dal quale secondo alcuni (Machado et al, 2018) potrebbe derivare dal punto di vista evolutivo, sebbene le specifiche convenzioni tassonomiche del complesso mondo degli insetti abbia portato a classificarlo semplicemente in una famiglia del tutto distinta. Pur costituendo anch’egli nel corso del suo stadio giovanile un esperto catturatore di sfortunati artropodi di passaggio, le sue imboscate partono da condizioni molto più semplici e dirette. Niente cono dantesco di sabbia, all’interno del quale formiche o altri “ospiti” scivolano inesorabilmente finendone intrappolati. Lui semplicemente aspetta immobile, qualche volta coperto di rametti o detriti, e quando giunge il momento, CLACK! Ghermisce. Finisce. Ed orribilmente, rapisce…

Colorata, graziosa eppure terribile, la mosca gufo ci ricorda quanto possa essere magnifica la natura. E che non servono necessariamente pinze giganti anche una volta che ci si solleva in volo, come avviene ad esempio nella dobsonfly (fam. Corydalinae) per aver successo nella propria carriera di neurotteri predatori.

Pur trattandosi di una categoria d’insetti con diffusione largamente cosmopolita, con diffusione attestata in Eurasia, in tutto il Nuovo Mondo e persino nel distante continente d’Oceania, quella delle mosche gufo risulta essere atipica perché non studiata o descritta ufficialmente fino 1842, quando finalmente l’entomologo francese Jules Pierre Rambur si offrì di produrne una classificazione. Esiste tuttavia almeno un possibile precursore di questo tardivo riconoscimento, grazie all’opera dell’importante naturalista e botanico italiano Ulisse Aldrovandi (1522-1605) che nel suo trattato in latino del 1602, De animalibus insectis menziona e descrive, illustrandole con tavole acquerellate, una serie di presunte “farfalle” o “libellule” tra cui la misteriosa Papilio Subcastanus, una specie mai identificata che potrebbe tuttavia, per le sue caratteristiche, rientrare a pieno titolo nella divisione corrente delle Ascalaphidae, portatrici sane d’aggressività. Per gli occhi sporgenti, origine del loro soprannome gufesco assieme alle abitudini talvolta vesperine, ma anche l’atipica lunghezza delle antenne, ben diverse dalle corte appendici che potevano essere tipiche degli Odonata. Contro questa possibile associazione (comunque sostenuta nel 2019 in un articolo scientifico di Rinaldo Nicoli Aldini) l’assenza nell’illustrazione di una delle caratteristiche maggiormente distintive e curiose di queste astute volatrici, la coppia di “palline” o rigonfiamenti al termine delle suddette antenne, capaci di farle assomigliare alla stravagante creatura fantastica di un libro per bambini, soprattutto in congiunzione con la livrea variopinta e gli splendidi disegni sulle ali di talune varietà particolarmente attraenti. Laddove le mosche gufo anche una volta adulte, in effetti, costituiscono dei predatori terribilmente pericolosi per qualsiasi insetto più piccolo dei loro 3-3,8 cm di lunghezza, che afferrano al volo in un singolo passaggio sia che si trovi a sostare inconsapevole su una foglia, sia che fosse in corso o procinto di librarsi. Per poi procederne a frantumarne il rigido carapace, poco prima di mettersi a suggerne i deliziosi fluidi contenuti all’interno.
E guai (si fa per dire) a chiunque o qualunque cosa dovesse tentare d’aggredirli; gli ascalafidi risultano infatti capaci di emettere al bisogno un fetido fluido simile a quello delle cimici. Capace di far passare l’appetito a una vasta selezione d’eventuali pericoli passeggeri. Mentre sarà proprio la loro colorazione conseguente deimatica, capace di sorprendere o spaventare, a occuparsi in molti casi della mansione non meno importante d’attrarre le femmine da lontano. Per procedere all’imprescindibile momento dell’accoppiamento. La conseguente deposizione delle uova, attaccate ai rami o le foglie di una pianta in quantità variabile tra le decine e le centinaia, avviene quindi in un periodo dell’anno variabile sulla base del territorio d’appartenenza, cui fa seguito la nascita delle sopradescritte larve diaboliche, già pronte a coltivare la propensione carnivora che fa parte della loro natura inerente. Uno stile di vita perseguendo il quale non tarderanno a lasciarsi cadere a terra, nascondendosi tra pezzetti foglie e detriti, o persino attaccandoseli sulla schiena nel caso di alcune specie delle tipologie “decoratrici”. Una volta mangiato abbastanza, perciò, la larva di mosca gufo costruirà il proprio bozzolo all’interno di un luogo nascosto. Per andare incontro al processo di trasformazione completa che per svariati millenni, con tanta meritata enfasi, ha saputo affascinare e ispirare generazioni di artisti e poeti umani.

Non tutte le Ascalaphidae adulte presentano una colorazione deimatica, preferendogli piuttosto livree mimetiche di vario tipo. Ciò è spesso connesso alle abitudini orarie dell’insetto, ovvero se sia solito alzarsi in volo nelle ore diurne piuttosto che quelle più scure della sera.

Mostri magnifici e demoni condannati. Storie leggendarie che trovano echi distanti nell’inarrestabile progressione della natura. Non è difficile comprendere perché, in determinati ambienti, tutto ciò continui ad essere associato al senso primordiale di tutto ciò che è Divino, o quanto meno l’intervento occasionale di un saggio Demiurgo guidato dalle necessità fondamentali dell’Universo. O forse, dovremmo semplicemente pensare che il mantenimento dell’equilibrio sia di per se un canone generativo della bellezza, bilanciata dalle sue terribili conseguenze, che non sono sempre facili da prevedere. Poiché si possono trovare causa ed effetto raccolte all’interno di un singolo concetto, monade o essere vivente. Il cui nome stesso, prima o poi, finisce per diventare Leggenda.

Papilio subcastaneus: chi sei veramente… Immaginate l’abilità di coloro che dovevano disegnare simili creature nel XVII secolo, dal vivo, senza macchina fotografica e talvolta ricordandosele a distanza di qualche tempo. Che cosa volete che sia, nel grande schema generale, la mancanza di un paio d’insignificanti pomelli?

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