Oh, bagnato bruco della mosca! Dalla lunga e lesta coda rattiforme!

Nella poliglotta e universale gerarchia degli insulti, spesso un repertorio valido deriva da particolari tipologie d’animali. Creature in qualche modo percepite come piccole o meschine, infelici o poco utili alle buone condizioni dell’ambiente e della civiltà umana. Esseri come i vermi, oppure i ratti, chiaramente condannati da eventuali malefatte in vite precedenti, al punto da finire reincarnati in siffatte condizioni, in una nicchia biologica del tutto priva di sbocchi o realizzazioni. Come se l’individualità, nell’Universo, forse null’altro che un’artificiale condizione elaborata da esseri pensanti ed unici, nell’infinita vastità delle possibili condizioni dei viventi. E dopo tutto, noi chi siamo al fine d’improntare una possibile architettura di giudizio? L’evidente scala dei valori che si adatti ad ogni cosa e circostanza, qualsivoglia genere di strisciante o zampettante creatura? La precisa e pratica realizzazione di un piano sofisticato, frutto di una lunga quantità di anni e plurime generazioni molto superiori alle nostre. Fino a poter mettere i nostri occhi sopra tutto questo: i molti piccoli vermetti nel barile d’acqua putrida e stagnante. Ciascuno egualmente lieto di essere nel mondo, mentre in silenzio mastica e trangugia larghe quantità di mucillagine aumentando di peso, la lunga propaggine sul retro in posizione obliqua che fuoriesce parzialmente dalla superficie. Fino al giorno in cui il suo possessore non sarà abbastanza forte, e grande, da poter nuotare oltre i margini di questo stagno maleodorante. Per andare a seppellirsi, con grandissimo senso d’aspettativa, tra il terriccio del nostro giardino: bestia o belva, mistica presenza semi-trasparente ed indefessa. Valida versione della vita, di per se perfettamente produttiva e completa in ciò che tenta in genere di fare. Ma come se ciò non potesse mai essere abbastanza, ecco ciò che la natura serba sotto i nostri occhi come ultima sorpresa della rinomata vicenda: la nascita due settimane dopo di una… Mosca. Dai colori assai variabili come anche le forme, poiché liberamente appartenente alle tribù degli Eristalini e Sericomyiini, più comunemente definiti delle hoverfly. Pronte a sollevarsi per cercare pollini o nettari abbastanza nutrienti, da riuscire a supportare la propria sopravvivenza fino al catartico momento riproduttivo. Una pratica ben collaudata e supportata dall’evidenza, soprattutto quando coinvolge fiori di colore giallo. Ecco perciò, oh pragmatico uomo moderno, l’effettiva “utilità” di cose come queste. Semplicemente una valida ragione d’esistenza, di agrimonia, alisso, anemone, dente di leone, ginestra e girasole, verbasco, qualche volta pure il tulipano. Orribile strisciante visu, passaggio utile a ogni cosa bella che sussiste nel mondo…

Chiaramente interessata, ella si aggira sul bordo della plasticosa barriera. Ben sapendo che i suoi piccoli, una volta venuti al mondo, qui potranno trovare il cibo e le risorse valide a permettergli la sopravvivenza. Madre saggia e snaturata al tempo stesso, che già pensa all’abbandono delle sue uova! Come detta l’eredità genetica della sua ronzante stirpe…

Una delle più importanti e antiche menzioni filologiche delle larve eruciformi compare dunque nella Bibbia, nell’indovinello proposto da Sansone durante il banchetto dei Filistei “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce”. Un velato riferimento alla carne del leone da lui ucciso, così elegantemente servito ai futuri suoceri, e le api produttrici di miele, generate per volere del Signore dalla sua carcassa lasciata per qualche tempo sotto il sole d’estate. Un fenomeno ben noto agli antichi anche precedentemente, come esemplificato dal mito della bugonia citato anche da Virgilio nelle sue Georgiche. La catartica circostanza vissuta dal pastore ed apicoltore Aristeo, che punito dalle driadi per aver causato accidentalmente la morte di Euridice, ritrova le sue api dopo aver sacrificato un bue agli Dei, dal cui corpo scaturiscono librandosi magicamente all’indirizzo dei fiori. Un racconto che oggi sappiamo essere possibile, benché causato da un fondamentale fraintendimento. Poiché molte mosche che depongono le uova sulla carne marcescente sono imitatrici d’imenotteri dotati di pungiglione, mediante l’uso di evidenti strisce gialle e nere sul dorso (benché create col colore dei peli, piuttosto che quello sottostante dell’epitelio) vedi ad esempio la diffusa Myathropa florea del territorio europeo, anche chiamata mosca testa di morto o “Batman” per il possesso d’intriganti figure geometriche come parte dominante della sua livrea. Un’efficace strategia di difesa, facilmente distinguibile per l’uomo data l’assenza del secondo paio d’ali, finalizzata a massimizzarne le opportunità di sopravvivere e accoppiarsi per permettere alla femmina di dare inizio alla deposizione. Di circa 20-40 uova, se ciò avviene nell’immediato nel corso della primavera ed estate, o fino a 200 nel caso dell’ultima generazione dell’anno, incline ad assopirsi in letargo per l’intero trascorrere dei mesi più freddi, per poi mettere a frutto il prezioso materiale genetico al primo scongelamento delle pozze ancora lasciate vuote dai predatori. Una prassi messa in pratica con minime e insignificanti variazioni, tra l’altro, da numerosissime altre specie con distribuzione cosmopolita, tra cui la Eristalis tenax o sirfide comune o l’Eristalinus aeneus, particolarmente diffusa sulle coste americane ed europee, dove ama stabilirsi nelle pozze tra gli scogli ricchi di materia organica pronta da riciclare. Ove nasceranno ed avranno modo di crescere i loro piccoli dalla forma larvale, generalmente non più lunghi di un centimetro e mezzo esclusa la coda longilinea e telescopica. Capace per l’appunto di estendersi fino a parecchie volte la lunghezza dell’animale, in quanto organo finalizzato alla respirazione, permettendogli sostanzialmente di assumere l’ossigeno dalla parte posteriore del proprio corpo, senza dover mettere letteralmente la testa fuori dall’acqua.

Il problema delle contaminazioni di fonti d’acqua potabile da parte delle larve rattiformi è una questione nota, sebbene tendenzialmente sopravvalutata in termini di probabilità ed occorrenza. Come in un caso particolarmente celebre nel 2003 a Città del Capo, quando i media parlarono di letterali “fiumi di vermi provenienti dai rubinetti”, eventualità in realtà poco probabile per via dei sofisticati sistemi di filtratura utilizzati nella moderna rete di distribuzione idrica cittadina.

Esteriormente strane ma non per questo necessariamente inquietanti, le piccole larve nascondono tuttavia un pericolo fondamentale per l’uomo. Dovuto alla loro capacità naturale di sopravvivere in un’ampia varietà di situazioni, inclusi per l’appunto i succhi gastrici e l’intestino di creature molto più grandi di loro. Da che il rischio, ampiamente documentato in campo medico, di agevolare l’insorgere di un tipo particolarmente sgradevole di miasi o parassitosi, dovuto all’ingestione accidentale dei piccoli o delle loro uova prossime alla schiusa. Chiaramente un errore anche per l’insetto, che in tale angusto ambiente non potrà di certo sperimentare la metamorfosi o sopravvivere nella forma di una mosca adulta, pur potendo causare danni significativi all’intero tratto gastrointestinale umano. Per non parlare della shockante esperienza, vissuto ad esempio in un celebre caso descritto nel 1969 da Lecrercq, di un uomo tedesco che defecò 40 larve il primo giorno successivo all’infezione. Ed ulteriori 10-30, rigorosamente vive, per l’intera settimana a venire. E chissà quali tremende conclusioni avrebbero tratto gli antichi, dal verificarsi di un siffatto prodigio! A quanti esseri superni avrebbero rivolto le proprie enfatiche preghiere… Giungendo infine all’algida realizzazione della sacra essenza di siffatte creature. Poiché nulla può essere davvero maligno, se proviene dal verificarsi di concatenazioni di eventi dal così alto grado di sofisticazione animale. Una letterale fuga di cervelli ed aspirazioni future, dal più cupo e inesplorato labirinto del corpo umano.

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