L’aspetto attuale del castello che appartenne al re assassino della montagna

È cosa nota che la realtà superi spesso la fantasia ma vi sono casi particolari in cui questi due aspetti, per quanto ci è possibile desumere, si mescolarono a tal punto da diventare indistinguibili, giungendo a generare improbabili mitologie con validi riscontri, agli occhi degli storici, nella progressione storica degli eventi. Perché ad esempio il più potente sultano e protettore della Sunna dell’XI secolo, Saladino il grande, avendo posto sotto assedio la roccaforte siriana del suo più acerrimo nemico nel 1176 di ritorno dalla campagna yemenita, scelse improvvisamente di ritirare l’esercito per sedersi quietamente sul trono egiziano? Si può affermare a tal proposito che vi siano varie possibili interpretazioni di tale scelta. Ma le narrative più frequentemente ripetute coinvolgono tutte, in un modo o nell’altro, l’intervento diretto della mano del Vecchio della Montagna. Sotto forma del suo stesso gesto d’infiltrarsi, sotto mentite spoglie, nella tenda dell’odiato condottiero. Per lasciarvi, a seconda delle versioni, un cornetto nella forma del sigillo a lui associato, oppure il corpo esanime di un fidato luogotenente. “Doni” accompagnati, ad ogni modo, da un coltello avvelenato ed un cortese invito scritto a lasciar perdere l’idea di partenza, rinfoderando la scimitarra grondante del sangue dei Nizariti. Quella stessa corrente parte dell’Islam Sciita, nata nell’attuale Iran presso la fortezza di Alamut e diventata influente circa un secolo prima, sotto l’egida del suo sovrano Hasan-i Sabbah, che anche per questo aneddoto sarebbe stata associata nelle cronache con il termine di dubbia precisione storica di Assassini. Molti dimenticano, tuttavia, come il castello di cui abbiamo fin qui parlato ed il relativo shaykh al-jabal (letteralmente “capo tribale della montagna”) menzionati anche da Marco Polo, non potessero semplicemente essere gli stessi, per una mancata corrispondenza cronologica e della collocazione geografica degli eventi. Essi potrebbero nel resto essere identificati nella figura del condottiero Rashid ad-Din Sinan e la rocca situata sopra la città di Masyaf, tra le colline da cui ha inizio la catena montuosa di Jabal Ansariyah. Un luogo molto noto ai videogiocatori o appassionati di cultura digitale contemporanea, per la sua ricostruzione fantastica all’inizio della serie interattiva Assassin’s Creed, in cui i celebri consumatori di hashish (traduzione, anch’essa, messa fortemente in dubbio dai filologi dei nostri giorni) hanno assunto le caratteristiche di antichi protettori dell’umanità dai rischi derivanti da misteriosi e potentissimi manufatti alieni. Eppure tralasciando questa parte, che potremmo eufemisticamente definire come alquanto speculativa, resta indubbia in tale opera una certa ricerca di precisione estetica nella formale rappresentazione di quei tempi e luoghi.

La fortezza degli Assassini, in base al racconto di Marco Polo, era un luogo ameno ricco di giardini e straordinarie biblioteche, dove i membri della setta usavano droghe per sperimentare l’estasi del Paradiso. Non che simili aspetti fossero del tutto inimmaginabili, all’epoca e considerata la ricchezza commerciale di Masyaf.

Così come risulta corretta, a tal proposito, l’effettiva collocazione del quartier generale nizarita in cima a uno sperone di roccia calcarea, nel centro esatto di una città che sarebbe stata, a più riprese, luogo d’intercambio commerciale con le genti provenienti da mezza Europa. Con cui il “Vecchio” Sinan si sarebbe ripetutamente avvicendato nell’amministrazione del proprio potere, facendone uccidere spietatamente i condottieri, e in altri casi alleandosi con loro contro il comune nemico della dinastia ayyubide, guidata dall’odiato ed altrettanto temibile Saladino. Tutto questo governando da una sala del trono panoramica, collocata strategicamente a ridosso della piazza d’armi di un forte molto antecedente al suo arrivo in Siria, che oggi sappiamo risalire almeno all’epoca bizantina. Come desumibile dagli strati sovrapposti di decorazioni ed elementi archeologici d’indubbia attribuzione al Mondo Antico, benché mescolati con soluzioni difensive e caratteristiche architettoniche tipiche dell’epoca medievale. Effettivamente dotato, come nella versione del videogioco, di numerosi passaggi segreti e tunnel che s’inoltrano nel promontorio sottostante, il castello ne segue dunque l’effettivo profilo, risultando ragionevolmente ben protetto grazie alle numerose torre di guardia lungo il profilo ed il singolo portale d’accesso, dalla parte meno scoscesa del suo declivio. Particolarmente interessante, nella parte ovest del complesso, la torre costruita a mezza altezza che s’integra nelle mura costruite dall’uomo, offrendo un’efficace postazione di tiro sull’intero quartiere antistante. Catturata dagli assassini sotto il comando di Sinan nel 1140, dopo aver sconfitto il suo comandante mamelucco di nome Sunqur al servizio dei Munqidhidi in una feroce battaglia, la rocca di Masyaf avrebbe dunque costituito a partire da quell’anno una base operativa primaria, nella successiva conquista sciita delle città di Aleppo e Damasco. Dove il regno del terrore di questi ultimi, alimentato da un sistematica campagna di eliminazione fisica dei propri oppositori politici e militari, sarebbe proseguito fino al 1260, anno in cui i Mongoli conquistarono brevemente Masyaf. Prima di essere ricacciati a settembre di quello stesso anno nella battaglia di Ain Jalut, da forze mamelucche provenienti dall’Egitto. Ma la temuta setta degli assassini, ormai da tempo in declino, non si sarebbe mai più ripresa. Così lungamente abbandonato fino all’epoca Ottomana, il castello vide un’ulteriore battaglia soltanto nel 1808, quando lo sceicco Mahmud Raslan attaccò le sue cadenti ma elevate mura, sul mandato delle autorità imperiali per l’eliminazione dell’ultimo clan ribelle ismailita, guidato da Mustafa Milhim. Soltanto nel 1917, dunque, la fortezza di Masyaf compare nuovamente nelle cronache, per aver ospitato il generale inglese T. E. Lawrence durante la sua campagna siriana nel corso della prima guerra mondiale.

Con una pianta non dissimile da quella di molte altre fortezze dell’Alto Medioevo, la rocca di Masyaf risultò difficile da prendere mediante i metodi tradizionali. Ma l’invenzione di mezzi d’assedio più efficienti, tra cui in modo particolare la polvere da sparo, non avrebbe tardato ancora molti secoli nel renderla sostanzialmente inutile e ridondante.

Oggi per lo più in rovina, nonostante un programma decennale di restauro finanziato dalla fondazione AKDN (Aga Khan Development Network) l’imprendibile castello del Vecchio è diventato una meta turistica per tutti coloro che, sprezzanti del pericolo inerente nel viaggiare nell’instabile territorio siriano, desiderano vedere con i propri occhi un luogo del potere a suo tempo incontrastato, al punto da restare intrecciato nel regno della pura leggenda.
Come quando nel 1191, due anni prima della sua dipartita, la figura di Sinan sarebbe stata coinvolta nell’uccisione misteriosa di Corrado del Monferrato, il re straniero di Gerusalemme. Episodio a seguito del quale lo stesso Riccardo I d’Inghilterra, accusato forse ingiustamente di complicità nel gesto, avrebbe prodotto una lettera in cui gli assassini se ne prendevano il merito scagionandolo al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma chi può dire, veramente, di chi fosse stato il pungo a mettere il sigillo valido a una tanto pratica, e risolutiva attribuzione di colpa?

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