Lo stratificato castello che sorveglia l’accesso fluviale della Polonia

Stephen Báthory, supremo voivoda della Transilvania, mise piede in quel fatidico 1577 sull’altura di fronte alla città “libera” di Danzica, il cui popolo era stato obnubilato dalle bugie degli Asburgo. “Sia dannato Massimiliano II” pronunciò sommessamente tra se e se l’aspirante sovrano di Polonia e Lituania, mentre ripensava ai passaggi tormentati che lo avevano portato a spodestare sul campo di battaglia il suo rivale Gáspár Bekes, capace di aspirare al merito della stessa elezione. Ma il Sacro Romano Impero, come sapevano tutti nobili d’Europa, era uno stagno dove soltanto il pesce dai denti più affilati poteva sperare di prevalere, anche a costo di mandare a infrangersi l’intero grande pubblico dei suoi fedeli soldati contro alte mura o devastante fuoco di sbarramento. Quindi rivolgendosi ai suoi capitani che avevano recentemente completato il rapporto sulla situazione, diede l’ordine che bene o male tutti si erano aspettati. “Riscaldate le palle di cannone. Voglio che siano incandescenti prima di abbattersi sulle mura del nemico. Faremo vedere a quegli stolti mercenari scozzesi come combatte un vero esercito del centro d’Europa” Sette mesi. Sette mesi della sua vita gli era costata questa futile campagna, iniziata nel momento in cui la gente del più importante e prosperoso porto sulla costa del Mar Baltico si era improvvisamente ribellato, rifiutando il suo diritto di succedere al compianto Re Sigismundo II Augusto, come marito di sua sorella. Contingenza alquanto insolita per cominciare una sanguinosa serie di battaglie sul confine ed oltre i limiti della Confederazione, come sancita dal trattato di Varsavia stipulato soltanto quattro anni prima. Ma Danzica, da sempre, aveva costituito un caso da gestire separatamente. Per la sua posizione strategica alla foce del Martwa Wisła (“Vistola morta”) un fiume d’importanza fondamentale nel passaggio dei commerci verso il cuore di quei territori. E la veemenza con cui erano stati in grado di difenderlo, almeno fino a quella complicata serie di eventi. Culminanti con la battaglia di Lubiszewo, in cui i 12.000 miliziani e soldati di ventura assoldati dai ribelli erano stati sconfitti, senza eccessive difficoltà, dall’esercito di pari numero ma meglio equipaggiato al servizio del legittimo voivoda. Soltanto per ritirarsi, come era accaduto altre innumerevoli volte a partire dal XIV secolo, nella formidabile fortezza di Wisłoujście, soprannominata “la corona” per la sua forma utile a racchiudere e proteggere un’ampia area sotto il fuoco inevitabile dei suoi cannoni. E se soltanto l’ambizioso Báthory fosse giunto in questo luogo due secoli prima, quando al tempo dei cavalieri Teutonici queste mura erano state facilmente messe a ferro e fuoco da una semplice marmaglia asservita all’eresia degli Hussiti, la sua vittoria sarebbe stata senz’altro assicurata. Ma da quando all’inizio del XVI secolo Danzica si era trovata al centro del formidabile conflitto chiamato reiterkrieg o guerra dei cavalieri, tra il regno di Polonia e i discendenti di quegli stessi severi protettori della Cristianità, molti miglioramenti erano stati apportati a tale fondamentale complesso, fino ad aggiornarlo con le migliori tecnologie importate dalla Francia e l’Italia. Così che Wisłoujście era giunta a rappresentare, sotto molti punti di vista, il castello perfetto…

Le fondamenta della fortezza erano state costruite tramite l’approccio ingegneristico della kaszyca, un particolare tipo di contenitore in legno riempito di pietrisco e macerie, pensato per resistere all’affondamento nei sedimenti. Qualcosa di simile a quanto sarebbe stato usato, molti secoli dopo, per la costruzione dei porti temporanei utilizzati durante lo sbarco degli Alleati in Normandia.

Giustifichiamo dunque come prima cosa, a questo punto, l’utilizzo di un termine tanto desueto. Al principio del Rinascimento quando ormai la diffusione della polvere da sparo, ed il crescente potere distruttivo dei cannoni, avevano sostanzialmente eliminato l’importanza delle torri sporgenti al di sopra di un impenetrabile terrapieno capace di agire come impenetrabile corazza per le opere architettoniche ed i soldati contenuti al loro interno. Laddove il più famoso castello di Danzica, fin dall’epoca della sua prima costruzione, fu iconograficamente inseparabile dallo svettante pinnacolo alto più di 20 metri che pareva sfidare il nemico, attorno al quale sorgeva un più basso mastio centrale dalla forma cilindrica a cui si appoggiavano gli alloggiamenti degli ufficiali. Una struttura che fu molte volte prevedibilmente distrutta, eppure di lì a poco inevitabilmente ricostruita. Questo perché la sua funzione principale, forse contrariamente alle più ingenue aspettative, non era certo incrementare le capacità difensive del forte bensì guidare le navi all’interno del porto di Danzica, agendo sostanzialmente come il faro della città. Soprattutto da quando nel 1482 l’originale struttura in legno era stata sostituita dal successivo pinnacolo cilindrico in laterizi, che in varie forme avrebbe costituito da quel momento uno standard minimo di solidità verso cui fare ritorno. Così come una serie di possenti fortificazioni dotate di numerose bocche di fuoco e mura spesse particolarmente difficili da demolire.
Così Stephen Báthory, senza perdersi d’animo, diede inizio al suo bombardamento. E nel giro di qualche settimana, come molti altri prima di lui, aveva demolito l’alta torre castelliforme. Dopo circa un mese aveva raso al suolo le strutture periferiche e le stalle della fortezza, già da tempo abbandonate trasferendo il loro prezioso contenuto dentro le “casette” a raggera, costruite ad arte in posizione tale da non poter essere raggiunte dalle angolazioni di tiro degli assedianti. Ma ad altri quattro di distanza, nessun altro passo avanti sembra essere possibile in tempo utile, costringendo il voivoda a sedersi al tavolo delle trattative, ottenendo un accordo che potesse permettergli di limitare il danno al suo prestigio ed orgoglio di governante. Fortuna volle, tuttavia, che i mercanti di Danzica fossero stati sufficientemente colpiti dal protrarsi delle ostilità ed il conseguente blocco dei commerci, da permettergli comunque di assumere il titolo di Re di Polonia. Dietro il pagamento di “appena” 220.000 złotys e la promessa di proteggerli dal nuovo pericolo che stava sorgendo ad Est: la venuta delle armate di Ivan IV Vasilyevich detto “il Terribile” dalla remota e formidabile regione della Moscovia. Chiaramente tutti sapevano, a quel punto, che la fortezza di Wisłoujście era ben lontana dall’aver combattuto la sua ultima battaglia…

La pianta circolare del mastio centrale non presentava particolari presupposti di efficienza nel contesto degli assedi scientifici successivi all’inizio del medio Rinascimento. Ma il principale forte di Gdansk, anche al volgere dei secoli, non perse mai il carattere gotico che aveva in origine condotto all’elaborazione del suo progetto.

Il vero punto di svolta verso l’aspetto corrente della fortezza, come dicevamo, sarebbe giunto soltanto all’inizio del XVII secolo, quando una serie d’iniziative finanziate dal concilio cittadino avrebbero visto sorgere attorno al corpo centrale del complesso un cosiddetto “Fort Carré” così denominato per antonomasia dalla struttura a forma di stella facente parte del principale bastione della città di Antibes in Francia meridionale, nei dintorni di Nizza. Di cui una versione piuttosto fedele dotata di quattro “punte”, ciascuna delle quali utilizzata come piattaforma di tiro per imponenti dotazioni d’artiglieria, era diventata da quel momento un’istrice inavvicinabile per chiunque avesse l’intenzione di prendere la Libera Città, qualunque fosse la grandezza della sua armata. Persino quando si trattò, nel 1627, di una parte significativa dell’invincibile flotta svedese fermamente intenzionata all’ampliamento dei propri domini, che dopo aver perso la nave ammiraglia Tigern nella battaglia di Oliwa eseguì la propria rappresaglia affondando nella notte due vascelli polacchi situati innanzi alle mura della Wisłoujście. Ma dovette, nononstante il vantaggio acquisito, ritirarsi nondimeno in tutta fretta, prima di essere devastata dal fuoco di sbarramento del forte nemico. Una circostanza ogni anno entusiasticamente rievocata nel festival storico cittadino, tra l’esultanza e la partecipazione degli attuali abitanti dell’intera regione di Pomerania.
Nel 1807 dunque, di nuovo sotto assedio dall’esercito schierato da Napoleone, la torre del forte di Danzica venne ancora una volta abbattuta ma le mura del forte riuscirono a resistere, pur dovendo in ultima analisi arrendersi alle forze francesi. Che di fatto erano al controllo della sua difesa, quando i russi iniziarono un lungo assedio, di nuovo incapace di violare quei bastioni leggendari, costringendo dopo un intero anno l’atamano Matvey Platov a una frettolosa ritirata. Ancora una volta, il castello dei cavalieri aveva resistito all’ondata dei propri invasori, riconfermando una posizione strategica primaria che sarebbe passata in secondo piano soltanto con l’implementazione dei metodi di guerra del Novecento. Successivamente trasformata in un carcere politico, come molte altre strutture simili in Europa, la fortezza venne quindi bombardata e parzialmente demolita tra le due guerre mondiali, dagli accesi combattimenti capaci di riflettersi nello stato complessivo delle sue mura. Fino all’ultima ricostruzione in cemento armato, ancora una volta completa e inveterata, della torre centrale negli anni ’60 verso lo stato in cui si presenta ancora oggi.
E difficilmente risulta possibile immaginare un luogo migliore da cui osservare il panorama della libera Danzica, le acque della Vistola e la vasta baia sul Mar Baltico, per la quale tante vite furono annientate attraverso il passaggio dei secoli, al suono rimbombante d’infiniti cannoni. Persone le cui anime, forse, ritornano sotto la guisa delle centinaia di pipistrelli, che qui sostano durante la stagione degli accoppiamenti, per una sorta di accordo non scritto con le moltitudini degli operosi ed inquieti esseri umani. Poiché niente può condizionare maggiormente la vita di una città, che il suo posizionamento come punto di svolta al culmine d’importanti scelte diplomatiche o campagne militari. Una circostanza non priva d’errori e che in determinati casi, purtroppo, tende a verificarsi ancora, ed ancora…

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