La rinata torre di Babele nel più alto e significativo minareto d’Iraq

Osservando la Grande Moschea dell’antica capitale Samarra dal suo lato settentrionale, verso lo spiazzo dove sorgeva il suo edificio principale, tutto quello che un visitatore potrà scorgere è una serie di mura con finestre e piattaforme quadrate, un tempo usate come basamento di quella che doveva essere una letterale foresta di colonne. Qualche residuo parzialmente eroso, degli antichi stucchi e bassorilievi geometrici che circondavano la piazza un tempo gremita di fedeli. E i contorni ben definiti, di quella che può essere chiamata solamente l’ombra di qualcosa di enorme, che segna il terreno come la perfetta sagoma di una meridiana. E sarà allora, voltandosi dal lato opposto, che potrà scorgere coi propri l’impressionante edificio tante volte visto nelle illustrazioni a tema religioso, suscitando un istintivo senso di soggezione e reverenza. Ma soprattutto il richiamo irrinunciabile, a mettere i piedi uno di fronte all’altro, fino sulla cima del sentiero spiraleggiante che circonda il suo corpo simile a una torta spropositata…
Tra i diversi punti di contrasto tra il Creatore e i molti popoli della Terra, che caratterizzano i capitoli mediani del Vecchio Testamento, uno dei momenti più significativi è quello relativo alla costruzione di un’alta struttura da parte della gente di Babilonia. Una pietra dopo l’altra, tenute assieme grazie all’uso delle antiche tecniche architettoniche, mirate a raggiungere un’elevazione precedentemente mai sperimentata nel mondo. E in ultima analisi, nel momento in cui fosse stata ultimata, guardare Dio negli occhi da pari a pari. Arroganza, intraprendenza oltre il ragionevole, noncuranza nei confronti delle antiche tradizioni. Tutte doti particolarmente invise a Colui che ancora distribuiva le ricompense e le punizioni, prima di rivolgere nei secoli a venire la parte operativa della sua onniscienza verso un qualche luogo alternativo dell’Universo. Ma costruire una torre come quella? Difficile da perdonare. E l’unica possibile reazione utile a dirimere il conflitto, a conti fatti, si sarebbe dimostrata quella narrata nella Genesi e maggiormente approfondita nel testo apocrifo dei Giubilei (o Piccola Genesi). Allungare la Sua mano sopra i popoli di tutto il mondo, e diversificare i propri idiomi. Poi disperderli attraverso i luoghi più distanti dei diversi continenti. Ora il Corano, d’altra parte, non descrive un simile episodio fatta eccezione per la breve menzione di un’alta pietra fatta erigere dal faraone ai tempi di Mosè, senza che alcun intervento divino comprometta il suo completamento. Mentre la “dispersione” dei popoli per via dei venti suscitati dall’Altissimo è nuovamente collocata nella città di Babil dagli scritti dello storico Yaqut, che manca tuttavia di descrivere alcun tipo di elevato edificio. Un concetto che non sembra accompagnato, nella tradizione islamica, da alcun tipo di connotazione negativa, come reso particolarmente chiaro, d’altra parte, dall’opera tutt’ora svettante del califfo abbaside Al-Mutawakkil, situato verso la metà del IX secolo nel punto in assoluto di maggior potere dell’intero Mondo Arabo e i seguaci del suo Profeta.
Era l’847 dunque, secondo le cronache di cui possiamo disporre, quando il sovrano Al-Mutawakkil accedette al trono successivamente alla morte prematura del fratello, al posto di suo nipote ancora troppo giovane, diventando fin da subito un ben noto mecenate delle arti e della cultura. Al punto che entro un solo anno, chiamati al suo cospetto i più importanti costruttori e creativi del suo vasto impero, proclamò che il centro urbano del suo potere diventasse la città più magnifica che il mondo aveva conosciuto fino a quel momento. Con palazzi, strade, canali d’irrigazione e soprattutto una gigantesca moschea dotata di un minareto di 67 metri, abbastanza perché il richiamo alla preghiera (adhān) fosse udibile e visibile per l’intera collettività dei suoi devoti, inclusi quelli che erano soliti riunirsi in pellegrinaggio a poca distanza dal mausoleo dove erano custodite le spoglie mortali dei principali imam successivi a Maometto, considerati dalla tradizione Sciita i soli legittimi eredi del suo ruolo d’intermediario col divino. Per tale piano di rifacimento e tolleranza nei confronti della setta minoritaria, il sovrano investì quindi una quantità stimata tra i 258 e 294 milioni di dirham, una parte considerevole di questi dedicati al più importante edificio di culto che avesse mai potuto prender forma nell’intera penisola arabica fino a quel fatidico momento. La cui parte più elevata, diversamente dallo spazio sottostante, resiste ancora alle intemperie, sia di tipo naturale che causate dall’uomo stesso…

Salire in cima al minareto della Malwiyyah appare come un’impresa poco adatta a chi soffre di vertigini, particolarmente quando s’incontra qualcuno intenzionato a muoversi nel senso opposto. Eppure vige la tradizione da queste parti, a quanto dicono, per le coppie nuziali di raggiungere la cima, al fine di lanciare via nel vento il velo della sposa, all’indirizzo dell’Infinito.

Il problema di disperdere i popoli umani e confondere i propri linguaggi, in effetti, è la creazione di una serie di possibili attriti, tali da sfociare molto spesso in quel tipo di conflitto che tende a incoraggiare l’uso delle armi. Così Al-Mutawakkil, raggiunto l’apice del suo regno e nel mezzo di alcune delle riforme più importanti implementate nei secoli recenti, venne assassinato dalle sue guardie del corpo turche nell’861, dando inizio ad una serie di regnanti per periodi molto brevi nota come l’anarchia di Samarra, che portò anche a una sanguinosa guerra civile destinata a durare per più di un anno. Così molti dei magnifici edifici che aveva fatto costruire finirono per andare parzialmente in rovina, ormai rimasti privi delle strutture sociali capaci di sostenere e implementare la loro complessa manutenzione col trascorrere dei lunghi anni. Ma il vero punto di rottura, per la Grande Moschea del Venerdì, sarebbe giunto nel 1257, quando l’invasione degli eserciti del condottiero mongolo Hulagu Khan avrebbe portato alla sistematica distruzione delle strutture simbolo di un potere ormai distrutto, ivi incluso il più straordinario di tutti gli edifici religiosi. Eppure nonostante ciò, persino una simile forza d’invasione non poté o non volle demolire la gigantesca torre chiamata Malwiyyah (“spirale” o “conchiglia”) che tutt’ora svetta sulle rovine dell’antico edificio, a solenne memoria di quanto un cantiere realmente determinato, oltre un millennio a questa parte, potesse effettivamente realizzare a partire da una solida serie di fondamenta. Costruita principalmente in arenaria, la struttura della torre trova quindi il suo elemento maggiormente distintivo nella scalinata che la circonda, rigorosamente e vertiginosamente priva di balaustra, fino alla piattaforma superiore da cui era possibile scrutare fino ai confini dell’intera città di Samarra. Un’attività che si narra appassionare in modo particolare il califfo Al-Mutawakkil, il quale era solito compiere l’itinerario in sella al suo fedele mulo di colore bianco. Ma lo scopo principale della struttura verticale in questione, come avviene in qualsiasi altro complesso dedicato al culto islamico, era quello di offrire un punto di vantaggio da cui chiamare alla preghiera i fedeli, al sopraggiungere di ciascuno dei momenti in cui era necessario prostrarsi e recitare le preghiere all’indirizzo della qibla situata nella città della Mecca, la cui direzione sarebbe stata resa palese grazie all’uso della miḥrāb, nicchia finemente ornata come del resto risultava esserlo, a quanto ne sappiamo, l’intera struttura della moschea. Con grandi quantità di stucchi, mosaici e finestre in vetri blu, bianchi ed oro, i cui resti sono stati ritrovati dagli archeologi durante gli scavi effettuati in questo importante sito, nominato a partire dal 2007 come patrimonio mondiale da parte dell’UNESCO, assieme a buona parte del centro storico dell’intera Samarra.
Un grande onore dei tempi moderni, cui avrebbe fatto senz’altro seguito un significativo aumento delle visite turistiche presso le mura residue e l’alta torre della moschea, se non fosse stato per la problematica condizione politica e gli attriti sociali di cui ben sappiamo. Al punto che l’antico viale per raggiungere la moschea è stato soprannominato, successivamente all’epoca della guerra del Golfo, “strada della morte” per la ben nota ed elevata quantità di esplosivi artigianali qui utilizzati ai danni delle truppe statunitensi. Lasciando anche troppo facilmente intendere il tipo di attriti che avrebbero portato, soltanto due anni prima della nomina da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, al bombardamento della sommità della Malwiyyah da parte di un gruppo d’insorgenti, causa l’utilizzo di quest’ultima come punto di avvistamento e comunicazione da parte delle truppe d’occupazione occidentali. Circostanza in grado di danneggiare l’antica struttura ma per fortuna non in modo troppo significativo, benché le cronache ufficiali non parlino degli effetti avuti in termini di sicurezza ed eventuale (probabile?) perdita di vite umane.

Non molto resta dell’antico luogo di culto al livello del terreno, salvo il necessario al fine di comprendere le sue notevoli proporzioni. Anche se, importante notarlo, una parte significativa al centro del complesso sarebbe stata priva di tetto ed aperta agli elementi, come avviene per la Sacra Moschea della Mecca.

Potenzialmente ispirato alle ziggurat dell’antica Mesopotamia, o in maniera più specifica alla torre del Minar di Firuzabad, in Iran, fatta costruire dal primo sovrano Ardashir dell’impero Sasanide nel III secolo, la torre della moschea voluta da Al-Mutawakkil avrebbe quindi costituito a sua volta un importante modello architettonico per l’intera collettività islamica, giungendo a fornire lo schema di partenza per strutture come la moschea di Ibn Tulun, presso la città egizia del Cairo (879 d.C.) Ma nessuno dei minareti costruiti in epoca coéva o quelle immediatamente successive sarebbe stata in grado di raggiungere l’imponenza, o l’insolita armonia delle proporzioni vagamente simile a una torta nuziale, della più ragionevole approssimazione tangibile dell’orgoglio babilonese. Un qualcosa che aveva accresciuto la sventura dell’uomo, aumentando nel contempo i suoi presupposti di modificare ed accrescere le condizioni di natura. Anche se la vera torre di Babele, di contro, viene descritta come in grado di raggiungere i 5.433 cubiti, grosso modo pari a tre volte l’altezza del più alto grattacielo del mondo, il Burj Khalifa di Dubai. Un qualcosa di ragionevolmente improbabile, considerata la competenza tecnica delle moltitudini anteriori all’invenzione del cemento armato e l’utilizzo architettonico dell’acciaio. Ma qualcuno, o qualcosa, potrebbe anche averle aiutate! E visto come Dio in persona, di lì a poco, si sarebbe dimostrato NOTEVOLMENTE contrario all’idea, ciò lascia solamente un’entità possibile al fine di coprire quel ruolo. Qualcuno che non consegna mai le pentole in ritardo. E per i coperchi… Si vedrà.

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