Per tornare salvi dal subcontinente, non avvicinarti all’orso labiato indiano

Nulla riesce a esprimere il concetto della calma prima della tempesta, che una scena di siffatto tenore: il gran felino giallo a strisce nere, accovacciato in mezzo all’erba, che sorveglia di soppiatto una creatura scura, dalla corta coda che sia agita mentre appare intenta a emettere un particolare tipo di rumore. Non così diverso da un aspirapolvere industriale, motivato da un bisogno ragionevolmente allineato con tale strumento dell’ambiente umano. Fatta eccezione per un PICCOLO dettaglio: l’aspirazione elettiva di formiche, piuttosto che soltanto polvere del cosmo trasandato e dismesso. Un mezzo passo alla volta, dunque, l’imponente tigre si avvicina all’orso nero con la testa a terra, confidando in una valida riuscita dell’agguato tante volte messo in pratica nel corso della sua lunga esistenza predatoria. Se nonché qualcosa, come un vago presentimento, porta la presunta preda a sollevarsi. Voltandosi di scatto per mostrare, agli occhi dell’aspirante Shere Khan, la forma chiara di una V sul petto, segno iconico e fin troppo ben riconoscibile tra chiunque abbia tentato di disturbarlo. Quel mirmecofago rabbioso, in un simile momento fatale, si solleva allora sulle zampe posteriori. Lasciando all’attaccante il compito di un chiaro calcolo dei rischi e delle ricompense. Il quale con un ringhio soffuso, decide di voltarsi e ritornare dìndi si era palesata prima del configurarsi di tale incontro. Strano. Imprevedibile. Sorprendente. Che cosa può riuscire a spaventare il felino più grande, aggressivo e pericoloso al mondo? Ancora una volta, è la letteratura a venirci in aiuto. Con la descrizione effettuata da Rudyard Kipling del suo amato personaggio, l’allegro danzatore Baloo. Un orso si, ma non del tipo che il film disneyano avrebbe potuto indurvi a pensare.
Poiché togli il Libro della Giungla da quel vago tipo di ambientazione “selvatica” cui viene tipicamente associato, o il setting fantasy-africano dell’ultima incarnazione cinematografica in live-action, e tutto quello che resta nella concezione originaria dell’autore si colloca perfettamente in una particolare regione dell’India orientale. Dove i plantigradi di certo esistono, ma sensibilmente più piccoli del tipico orso bruno europeo o nordamericano, riuscendo a raggiungere in media gli 80-150 kg di peso. Creature il cui nome scientifico Melursus ursinus vuole costituire un diretto riferimento alla loro ben nota passione per il miele d’api, benché la dieta tenda ad includere anche grandi quantità viventi di un diverso tipo d’imenottero, famoso per lo scavo d’intricate gallerie sotterranee al fine di ospitare le proprie comunità prive di ali. Formiche risucchiate grazie all’uso del suo labbro superiore grande e muscoloso, privo d’incisivi sottostanti al fine di formare un miglior tipo d’imbuto, mentre giunge a risucchiare anche parecchie migliaia d’insetti nel corso di una singola nottata di lavoro, prima di tornare sulla cima del suo albero a dormire. Ma poiché la legge di quel bioma, la fitta giungla asiatica, costituisce un luogo inospitale e spietato, può pur sempre capitargli di trovarsi allo scoperto mentre sopraggiunge l’ora del pasto per un grande felino del doppio del suo peso, ragione valida al fine di sfoderare il paio di canini acuminati di cui l’evoluzione ha mantenuto la presenza. Assieme alla particolare caratteristica fisica, da cui deriva l’altro nome assegnatogli dalla cultura generalista: sloth bear, l’orso bradipo dalle zampe sovradimensionate, ciascuna dotata di cinque artigli acuminati e ricurvi che non sfigurerebbero in un film dell’orrore. Tali da suscitare un certo tipo di esitazone, anche nell’aggressore più sfegatato…

Tre quintali di tigre contro poco più di uno, che ti aspetteresti di riuscire a scacciare dal sentiero agitando le braccia mentre lanci riecheggianti grida d’avvertimento. Eppure è la prima, che scappa dal secondo. Cosa ci dice tutto questo sul tema spesso controintuitivo delle apparenze?

Il che, unitamente all’inclinazione notoriamente non-violenta della popolazione indiana appartenente agli ambienti rurali, ulteriormente favorita dai precetti delle religioni Indù e Buddhista, ha portato negli ultimi anni ad un rapporto di riverente tolleranza, nei confronti di tali rappresentanti relativamente comuni della famiglia ursina. Se non che i fatti, largamente dimostrati dalle circostanze, hanno ripetutamente dimostrato una natura tutt’altro che pacifica di questi animali. La cui particolare reazione, nel momento in cui dovessero sentirsi minacciati, non è mai quella di ritirarsi o ricercare un presupposto di salvezza, bensì l’inclinazione a proteggere il territorio ed aggredire preventivamente, con una ferocia in grado di sorprendere visceralmente chi non fosse stato preparato all’evento. Ed è una visione spaventosa, quella dell’onnivoro dal muso bianco e l’espressione bonaria, le orecchie pelose da peluche che si trasforma in un latrante mastino infernale, capace di spostarsi al galoppo molto più rapidamente di un qualsiasi disturbatore umano. Eventualità tutt’altro che rara, vista la presenza piuttosto frequente soprattutto in Gujarat, Madya-Pradesh, Karnataka e l’isola dello Sri Lanka, luoghi nei quali si verifica il maggior numero di attacchi. Le cui vittime accidentali, quando riescono a sopravvivere, riportano generalmente gravi lesioni agli arti ed al volto, che l’orso è incline a prendere di mira con estrema priorità e mancanza di esitazione. Una storia assai famosa atta ad esemplificare questa pericolosità può esser dunque rintracciata nel celebre resoconto autobiografico del cacciatore inglese Kenneth Anderson, chiamato più volte nel 1957 al fine di eliminare un singolo esemplare noto come l’orso di Mysore, che nel corso dei mesi rilevanti avrebbe ucciso un gran totale di 12 persone. Secondo una credenza locale come vendetta per i suoi cuccioli che gli erano stati sottratti, ma nell’opinione dell’autore più probabilmente a causa di una ferita arrecatogli durante gli anni trascorsi. Sufficiente, ad ogni modo, a trasformarlo in una belva feroce almeno finché, giunto al terzo tentativo, l’europeo non sarebbe riuscito a eliminarlo con un colpo del suo .405 Winchester. Operazione tutt’altro che semplice, vista la facilità con cui simili animali possono sopravvivere a una pallottola piazzata in modo inesatto, caricando e massacrando colui o colei che pretendeva di mandarli al Creatore.
Essere perfettamente adattato al proprio ambiente di appartenenza tropicale, sotto ogni punto di vista tranne il folto e caloroso manto che comunque non parrebbe arrecargli alcun disturbo significativo, l’orso bradipo è anche un esempio di devozione genitoriale nei confronti dei suoi cuccioli, generalmente in quantità di due, che protegge fino al raggiungimento dell’indipendenza entro due-tre anni di vita. Precedentemente ai quali, per lo più inermi, vengono tenuti ben vicino dalla madre che risulta solita trasportarli sulla propria schiena, in un’approccio totalmente privo di paragoni nel resto del mondo ursino. I maschi nel frattempo, per lo più solitari, appaiono insolitamente permissivi nei confronti dei nuovi nati, che hanno l’istinto di preservare. Come potrete immaginare, in tale condizioni gli esemplari adulti diventano ancor più inclini all’aggressione senza essere stati provocati, diventando delle letterali trappole viventi pronte a scattare all’indirizzo di un visitatore o turista ragionevolmente impreparato. Il che, attraverso gli anni, non sembrerebbe aver aiutato in alcun modo la causa dell’animale.

Simpatici clown giocherelloni, simili ai panda negli zoo cinesi nella maniera in cui si muovono, inciampano e rotolano pigramente a terra. Ma basta introdurre l’elemento disturbante di un’anguria in tale scenario, per tirare fuori l’aggressività ed avidità di simili creature. Tale da non farli sfigurare mentre si combattono, persino innanzi alle più demoniache presenze dei bestiari medievali.

Identificato come vulnerabile dall’indice internazionale dello IUCN, nonostante il numero complessivo di esemplari stimato attorno un minimo di 10.000, l’orso labiato risente dunque in modo significativo della riduzione progressiva del suo habitat, problema esacerbato dalla difficoltà di convivere a stretto contatto con gli esseri umani. Tanto che è stato dimostrato numericamente come proprio tale sovrapposizione del territorio ne abbia fatto statisticamente il singolo orso più pericoloso al mondo, capace da solo di superare abbondantemente il numero d’incidenti causati dai suoi parenti in giro per il mondo, incluso il temutissimo orso polare. Ulteriore problema, in passato, la spietata caccia messa in atto dalle autorità coloniali inglesi, per non parlare dell’abitudine tradizionale ad educare i piccoli, togliendoli dal proprio ambiente, per mettere in atto piccoli spettacoli acrobatici o di giocoleria nei gremiti contesti urbani.
Tutte attività oggi lungamente proibite, ma che lasciano ben immaginare l’origine dell’atteggiamento gioviale e festoso descritto nel romanzo di Kipling, che scriveva al termine del XIX secolo. Quando il conflitto tra uomo e natura veniva ancora dato per scontato, non lasciando un più efficiente approccio alla sovversione di tale stereotipo, che raccontare l’amicizia tra un bambino ed alcune delle più temibili creature di tutta l’India. Una pantera e l’orso mangiatore di formiche. Entrambi neri come la notte stessa; perfette rappresentazioni del pericolo che precorre l’annientamento. A meno di riuscire a suscitare in loro un qualche tipo d’imprevista empatia latente. Dopo tutto, nelle fiabe tende ad esserci un barlume di speranza. Lasciando come unica sorpresa possibile, l’inimmaginabile mancanza di un lieto fine.

Lascia un commento