Quanti milioni di anni occorre andare addietro perché le forme di vita precedenti alla nostra diventino sostanzialmente microscopiche, irriconoscibili, del tutto differenti dalle varie configurazioni che comunemente assumono le cellule secondo l’attuale cognizione della scienza? Un tempo variabile, attraverso un lungo processo necessariamente discontinuo, come sempre tendono a esserlo i rapporti tra le cause e gli effetti all’interno del vasto regno della Natura… Eppure con un punto di riferimento relativamente preciso: 485 milioni di anni fa, cui è convenzione riferirsi come inizio del periodo del Cambriano. L’era geologica durata 484 Ma nel corso della quale emerse, e riuscì a prendere forma, ogni declinazione immaginabile del concetto biologico di metazoa che risulti a noi noto. Termine riferito all’organismo multicellulare complesso, ovvero in altri termini, il tipico appartenente al regno degli animali. Vermi, molluschi, crostacei, qualche timido prototipo di artropode (sebbene non terrestre) mentre i rami del grande albero della vita continuavano a divergere, creando basi valide per nuovi approcci evolutivi ai fondamentali problemi dell’esistenza. Ma sarebbe certamente un significativo tentativo di semplificare, il pensiero che ogni aspetto di quell’epoca possa immediatamente essere condotto alle sue attuali conseguenze, tramite l’abbinamento tra l’aspetto fisico e il possibile funzionamento delle cose. Uno spunto d’analisi capace di condurre molto spesso a degli errori, sebbene largamente comprensibili considerata la mancanza di elementi validi ad approfondire le questioni di base.
Passi falsi come quello compiuto nel 1977 dal paleontologo britannico Simon Conway Morris, messo al cospetto di un improbabile ritrovamento lungo appena 5 cm all’interno di quella straordinaria capsula temporale che è lo strato di Burgess nella Columbia Inglese (Canada) importante residuo geografico di quello che costituiva all’epoca l’enorme supercontinente di Pannotia, attorno al quale e sopra cui sopravvivevano una straordinaria varietà di esseri, progressivamente morti, decomposti e qualche volta preservati negli strati sovrapposti simili a una scatola ricolma di segreti, dai molti ripiani pronti a svelare un’ampia serie di occulte e strabilianti verità. Vedi quelle contenute nell’effettiva pregressa esistenza di un fossile come questo, prontamente definito con il termine assai pregno di Hallucigenia o “allucinazione vivente”, poiché non sarebbe stato certamente fuori luogo in un dipinto surrealista o le mostruose rappresentazioni degli inferni di Hieronymus Bosch. Tanto difficile da interpretare, nell’aspetto presentato dalle pietre in cui era stata immortalata la sua forma oblunga, che ogni conclusione da principio fu tratta in base a semplici illazioni: le rigide protrusioni furono considerate delle zampe. Le propaggini dorsali, dei peduncoli o misteriosi ornamenti. Mentre l’estremità rigonfia e sferoidale, in virtù di logica, fu chiaramente fatta corrispondere alla testa dell’animale. Tutto molto plausibile, senz’altro. E purtroppo, come avremmo scoperto assai dopo, completamente sbagliato…
Curioso d’altra parte come, nonostante le notevoli problematiche relative a comprendere che cosa esattamente fosse ed il modo in cui riuscisse a muoversi sopra quegli archi acuminati, la questione tassonomica dello Hallucigenia non sia mai stata messa essenzialmente in dubbio da chicchessia. Questo perché la sostanziale rarità degli artropodi in epoca cambriana consentì già a partire dal 1991 d’inserirlo per esclusione nel phylum oggi estinto dei Lobopodia, un gruppo di animali cognate di creature assai diverse, tra cui onicofori (millepiedi), tardigradi (i microbi noti come orsetti d’acqua) ed euartropodi (gli antenati degli odierni aracnidi ed insetti). Potendo quindi risultare, grazie all’analisi delle sue caratteristiche principali, come l’originale forma di quella categoria ad oggi rappresentata dall’onicoforo, più comunemente detto il verme di velluto. Il miriapode predatore dalla caratteristica cuticola non chitinosa ed il letale approccio alla cattura di prede, consistente nella proiezione di una secrezione appiccicosa dalla bocca, all’indirizzo della sfortunata vittima di turno. E fu coerentemente a tale realizzazione, grazie ad un ritrovamento del 1989 in Cina, che l’originale confusione in merito all’aspetto venne diradata come nebbia in una mattina d’inizio autunno. Quando Chen, Hou. e Lu scavando in un altro sostrato risalente al Cambriano, lo scisto di Chengjiang, giunsero al cospetto di un alto essere di quell’epoca distante, al tempo stesso simile ma fondamentalmente ben diverso dal suo distante cugino canadese. Questo perché il Microdictyon sinicum, come sarebbe stato chiamato, era del tutto privo delle preminenze acuminate definite come delle “zampe” da Conway Morris, presentando piuttosto delle placche dermiche protettive, mentre rimanevano i tentacoli situati dalla parte opposta. Il che avrebbe permesso, finalmente, di capire come i presunti arti deambulatori fino a quel momento fossero in realtà sempre stati dei meri aculei protettivi, di una creatura considerata al contrario rispetto al verso che effettivamente aveva. Il che potrebbe anche sembrarvi il termine ultimo della faccenda, se non fosse per un altro insolito e strabiliante fraintendimento, di un tipo che assai raramente ha avuto modo di verificarsi nella storia della paleontologia. Caso vuole infatti che ogni singolo fossile ritrovato di questa astrusa e lungamente estinta genìa, presentasse come dicevamo all’estremità una macchia a forma “palloncino” che ogni singolo studioso si affrettò a definire come l’ovvia testa dell’animale. Ciò almeno finché il progressivo miglioramento dei microscopi elettronici, e la conseguente rinnovata analisi dei campioni, non avrebbe portato a scoprire qualcosa di completamente inaspettato dalla parte diametralmente opposta della creatura: un paio d’occhi rudimentali, minuscoli ma che sarebbero probabilmente stati in grado di distinguere la luce dall’ombra. Ne parla estensivamente il professore di palobiologia di Durham Martin R. Smith nel 2015, all’interno di uno studio in cui ipotizza la probabile (prosaica) origine della macchia ingannatrice: nient’altro che i fluidi corporei del verme, espulsi al momento della morte e come parte del processo di decomposizione dal suo ano.
Ribaltato e girato su se stesso, oltre 38 anni dopo la sua scoperta, finalmente lo Hallucigenia sembrò avere un senso. Quello di probabile spazzino dei fondali, con una piccola bocca tonda e circondata da denti, verso cui spingeva laboriosamente ogni minuscola fonte di cibo attraverso l’impiego dei suoi multipli tentacoli impiegati anche per la deambulazione. Difficile d’altra parte immaginare per lui lo status di predatore, data l’inutilità di un sistema di muco appiccicoso come quello del suo discendente miriapode di cui sopra, mentre gli aculei dorsali avrebbero posseduto l’ovvia funzione di dissuadere eventuali predatori acquatici più grandi. Un approccio certamente necessario, nell’ecosistema straordinariamente diversificato ed aggressivo del periodo Cambriano.
Allucinazione o mostro dalle piccole dimensioni, come una sorta di Pokémon venuto dall’inferno della conoscenza, il nostro amico Hallucigenia costituisce più che altro una sinuosa ed apprezzabile derivazione di ciò che talvolta tende a fare l’universo: sperimentare ogni percorso possibile, scegliendo qualche volta soluzioni adatte unicamente a periodi assai specifici e condizioni ecologiche non ripetibili nei secoli a venire.
Il che ne fa un soggetto molto valido per significative elaborazioni speculative o inclusione all’interno di opere d’intrattenimento. Vedi la comparsa reiterata, e sempre immediatamente riconoscibile, in diversi manga e relativi cartoni animati provenienti dal Giappone, l’ultimo dei quali il popolarissimo Attack on Titan (進撃の巨人 Shingeki no kyojin) scritto originariamente da Hajime Isayama nel 2009, in cui una di queste creature compare a sorpresa dopo una serie di straordinari e sconvolgenti colpi di scena, costituendo con tipico piglio post-modern uno dei motori principali dell’intera vicenda. E che dire della sua inclusione in Heaven’s Design Team (天地創造デザイン部 – Tenchi Sōzō Dezain-bu) di Hebi-Zou e Tsuta Suzuki, come una delle più bizzarre e incomprensibili opere creazioniste sancite da un Dio distante, grazie all’opera del gruppo eterogeneo dei suoi dipendenti/addetti al marketing di fronte alle necessità di questo mondo ancora agli albori!
Prodotti di una fantasia che fatica, qualche volta, a superare le più assurde conseguenze della semplice realtà animale… Poiché non tutto giunge a vivere per una ragione chiara, tra la polvere di stelle e la fusione imponderabile dei buchi neri. Sebbene debba sempre rivelarsi ragionevole alla fine, mediante l’importante mediazione del senno di poi.