Nella storia dell’aviazione esiste un modo di dire: “Se è brutto, è inglese. Se è strano, è francese. Se è brutto e strano, è russo”. Ma poiché come la maggior parte degli aggettivi, simili giudizi non possono che apparire fondamentalmente soggettivi, forse la connotazione migliore che si può trovare a tali e tanti pregiudizi è quella d’elencare una possibile serie d’eccezioni. Casi eclatanti e tanto memorabili, splendenti Soli di un possibile avvenire; scene da possibili reami alternativi dell’esistenza. Ove ogni soluzione pratica è la diretta ed innegabile risultanza di un bisogno: far volare la cosa. Qualsiasi… Cosa, in effetti.
Era una limpida giornata autunnale in quel 26 ottobre del 1907, quando i tre fratelli Farman si riunirono sopra un colle ad Issy-les-Moulineaux, località non troppo distante da Parigi, per imitare quanto i due Wright erano riusciti a fare a Kitty Hawk: far sollevare da terra un velivolo più pesante dell’aria, spinto innanzi dall’uso di un motore. A volare sarebbe stato il più esperto di loro e pluripremiato ciclista Henri, figlio di mezzo e già utilizzatore di una serie di alianti costruiti in casa, mentre il più giovane Maurice, esperto autista in diverse competizioni a livello europeo, avrebbe fornito il supporto morale e fatto il tifo per l’ottima riuscita dell’impresa. Richard il maggiore, d’altra parte, nonostante la preparazione ingegneristica, aveva un ruolo non poi così diverso; questo perché il biplano in questione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era stato acquistato e successivamente migliorato a partire da un modello già completo di Gabriel Voisin, costruttore che non aveva avuto l’intenzione di mettersi a rischio in prima persona. Il suo cliente riuscì a compiere quindi tre voli, di 363, 403 e 771 metri, per poi compiere un circuito completo di 1.030 metri il 10 Novembre successivo. La strada era stata finalmente aperta e anche nel Vecchio Continente, mentre la stampa e cinegiornali cominciarono a narrare direttamente le straordinarie meraviglie di questo nuovo mezzo di trasporto: l’aeroplano. Nel corso dei mesi successivi, lavorando questa volta in famiglia, i fratelli apportarono alcuni significativi miglioramenti al progetto di Voisin, aggiungendo tra le altre cose una coppia di “tende” verticali alle estremità dell’ala superiore ed inferiore, capaci d’incrementare la stabilità di quello che ora tutti chiamavano il Voisin-Farman I, riuscendo in questo modo a vincere la competizione del marzo successivo del Grand Prix d’Aviation organizzato dal petroliere Henri Deutsch de la Meurthe, riuscendo in questo modo a conseguire un premio di 50.000 franchi. Lo stesso aereo, incredibilmente considerato il suo aspetto alquanto rudimentale, riuscì quindi a compiere una trasvolata di 2.004 Km entro la fine dello stesso mese. Entro la fine del 1908, la scienza dei volatili di metallo era ormai una disciplina largamente nota ed accettata in Francia, al punto da permettere ad Henri di aprire una scuola per piloti a Châlons-sur-Marne, nella quale un altro celebre pioniere, George Bertram Cockburn, diventò il suo primo allievo. Da lì, il passo successivo non fu eccessivamente difficile, anche vista l’epoca dai molti investitori e validi processi finanziari, per creare quella che sarebbe diventata la prima e più importante casa di produzione aeronautica francese, capace di sfornare in rapida successione quattro diversi biplani produrre in serie: il Farman III, l’MF-7 “Longhorn”, l’MF-11 “Shorthorn”, l’idroplano HF.14 ed il ricognitore militare HF.20 nel 1913. Con lo scoppio della grande guerra l’anno successivo, l’attenzione dei tre fratelli ebbe quindi modo di spostarsi chiaramente in tale ambito, dedicandosi alla creazione di una serie di velivoli di supporto e nella fase successiva del conflitto, quando ormai il campo di battaglia si era esteso in modi precedentemente inimmaginabili, anche caccia intercettori e bombardieri. Fu in questa accezione e con tale modalità d’utilizzo dunque che ebbe modo di comparire il primo e più importante successo storico dell’azienda, l’enorme Farman F.60 Goliath da 26 metri di apertura alare, capace di trasportare un carico di due tonnellate e mezzo per una distanza di 900 Km. Con una filiera di produzione completata solamente nel 1919, quando era ormai troppo tardi per fare la differenza. Così che i Farman, meditando a lungo sulla questione, elaborarono il principio di un’idea piuttosto avveniristica per il tempo: e se un simile approccio al trasporto volante, con alcuni piccoli ma significativi cambiamenti, fosse stato modificato e ottimizzato al fine di trasportare le persone?
Il Goliath era un aereo veloce, era affidabile e senz’altro funzionale in ogni suo aspetto rilevante. Ma il Goliath aveva anche un aspetto ragionevolmente normale e per questo nel quadro della nostra retrospettiva, non può che occupare uno spazio di secondo piano. Rispetto a quanto avrebbe costituito, a partire dal febbraio del 1923, l’evoluzione ulteriore di una proposta tanto vincente nel panorama nascente del volo commerciale. Il suo nome, inizialmente, fu quello di F.120 e si trattava di un monoplano a singolo motore un Lorraine 12Da da 370 cavalli, concepito con funzionalità possibili di bombardiere e per questo dotato della stessa imponente fusoliera, con la caratteristica prua a forma di cuneo. Mentre risultava frequente, all’epoca, sperimentare con il piazzamento e il numero degli impianti così che una configurazione di quattro eliche spinte da potenti Salmson 9AZ da 300 cavalli, due spingenti e due in configurazione trainante, venne successivamente installata in corrispondenza dell’ala alta, a cui venne aggiunta una seconda superficie di volo molto più corta, così da creare un tipico esempio di quello che prende il nome di sesquiplano. Ciò incrementò moltissimo le prestazioni, permettendo di sfiorare la cifra magica dei 200 Km/h. Una serie di test effettuati nei mesi successivi, tuttavia, dimostrarono come il flusso d’aria generato dai motori anteriori tendesse a far salire eccessivamente la temperatura di quelli posteriori, al punto che neppure l’inclusione di specifici radiatori era riuscita a fare la differenza. Il che, dopo un consulto tra i fratelli e i loro addetti alla progettazione, portò alla creazione di un notevole approccio mediano: uno dei primi e più bizzarri trimotori della storia. Ora il Farman F.120 “Jabiru” (da J. mycteria, un tipo di cicogna dell’America Latina) creato a partire dal suo prototipo F.4X, vedeva due dei motori frontali piazzati ancora all’altezza della piccola ala inferiore, mentre un terzo era collocato al vertice della svettante fusoliera in una maniera che potremmo definire analoga all’occhio del ciclope Polifemo. L’effetto complessivo, osservandolo con gli occhi di oggi, è quello di velivolo fuoriuscito direttamente da un volume d’illustrazioni steampunk, incredibilmente diverso da tutto quello che era venuto prima ed in effetti, avrebbe avuto un seguito ed ispirazioni dirette nell’immediata posterità. Fornito di un carrello fisso ed il caratteristico ruotino posteriore di quegli anni, l’aereo vedeva inoltre i due piloti piazzati in alto sopra la fusoliera impedendogli sostanzialmente di vedere alcunché al di sotto causa la particolare configurazione del mezzo, il che dimostrava pienamente l’utilizzo esclusivamente civile per cui era stato concepito. I passeggeri all’interno, nel frattempo, seduti su comode (!) sedie di vimini, avrebbero potuto guardare solamente di lato e dietro, sparito il caratteristico finestrone frontale del precedente Goliath. A completare il quadro quasi surreale, un grande recipiente posizionato sotto il motore centrale, probabilmente una coppa dell’olio esposta all’aria, al fine di facilitarne il raffreddamento. Non è particolarmente chiaro quanti esemplari di questo improbabile modello furono prodotti dalla compagnia francese, benché diverse fonti online ne mostrino alcuni esempi con la livrea della compagnia di volo franco-rumena CIDNA, che ne fece un largo uso per le proprie tratte europee. Così come riuscì a fare la stessa Farman Airlines, venture collaterale dell’azienda destinata a rimanere operativa fino al 1933. Sappiamo inoltre di almeno quattro esemplari inviati in Danimarca dove furono utilizzati dalla compagnia di bandiera DDL a partire dal 1926, benché si trattasse assai probabilmente dell’iterazione successiva F.121 (ancora soprannominata Jabiru) che ritornava all’idea originaria dei quattro motori, potendo fare affidamento sulle superiori prestazioni termiche degli Hispano-Suiza 8Ac da 180 cavalli. Questo perché era opinione diffusa, alquanto giustificatamente, che un numero maggiore di eliche corrispondesse a una maggiore sicurezza di volo, così come dimostrato anche dai modelli di maggior successo del principale competitor della Farman in quegli anni, la tedesca Junkers, laddove la posizione concentrata nella parte centrale dei motori del Jabiru contribuiva ulteriormente alla facilità di un atterraggio d’emergenza in caso di guasto, e conseguente spinta diseguale da parte di quelli ancora in grado di svolgere la loro funzione operativa.
Il Jabiru, indipendentemente dalla configurazione dei motori, risultava quindi in grado di trasportare confortevolmente fino a 9 passeggeri, una mansione che svolse senza particolari casistiche o incidenti registrati fino alla metà degli anni Venti. Epoca nel corso della quale, come nel resto d’Europa, l’introduzione di nuove soluzioni tecnologiche e più alti standard di funzionamento lo avrebbero relegato a un ruolo sempre più marginale ed infine, fatto uscire di produzione. La stessa Farman continuò il suo studio nella creazione di aerei passeggeri di grandi dimensioni fino a quello che potremmo definire il culmine del suo percorso, il modello F.430 del 1934, con carrello retrattile, una cabina chiusa e due motori radiali della Renault da 180 cavalli ciascuno. Ancora vagamente riconoscibile la stessa forma oblunga ed imponente della fusoliera che aveva caratterizzato i modelli precedenti, benché il mondo fosse dell’aviazione fosse sostanzialmente cambiato nella sua più profonda essenza. Due anni dopo la sua entrata in produzione, la Farman sarebbe stata quindi nazionalizzata assieme alle altre maggiori compagnie aeronautiche francesi, entrando a far parte della Société Nationale de Constructions Aéronautiques du Centre (SNCAC).
Gli originali tre fondatori e fratelli, che nel frattempo avevano tentato con variabile successo di diversificare i propri interessi producendo alcune innovative imbarcazioni di tipo idroscivolante (il propulsore era fuori dall’acqua) dovettero rassegnarsi all’insuccesso dei propri investimenti ed entro il 1956, cessarono le proprie attività. Il loro contributo alla storia tecnologica dei trasporti umani, tuttavia, non dovrebbe mai essere dimenticato. Se non altro per aver stabilito un vero e proprio record in termini di stranezza, che pur non trovando alcun seguito attraverso la lunga e serpeggiante coda della Storia, è pur sempre un primato innegabilmente raro. Non per niente tre costituisce il numero perfetto, in ogni cosa. Inclusi i motori.