Una volta eliminata dal concetto di conflitto tra le nazioni la necessità di mantenere una linea del fronte, fortificazioni e una filiera logistica capace di spostare le truppe di terra al confine senza preavviso nel momento del bisogno, semplicemente perché il tipo d’ingaggio immaginabile è soltanto la mutua distruzione immediata di ogni centro abitato al di sopra del migliaio di abitanti, tutto ciò che occorre garantire alla propria superpotenza è la supremazia operativa in quei 60, 120 secondi, cruciali al fine di determinare chi potrà “vincere” la più breve e sanguinosa guerra immaginabile dall’intento di annientamento umano. Il che, contrariamente all’immagine popolare dell’intera faccenda (nonché quella promossa da un certo tipo di mondo politico, non del tutto sorpassato) comporta ben più che la semplice pressione di un grande bottone rosso: ci sono infatti protocolli e procedure specifiche per ogni specifico vettore d’arma e soprattutto la remota, fondamentale speranza, di riuscire quanto meno a intercettare una parte dei bombardieri nemici. Ma a conti fatti, il problema è questo: nel caso in cui l’inverno nucleare trovi un’origine priva di alcun tipo di preavviso, cosa avrebbe potuto garantirti che i missili balistici spediti dall’Unione Sovietica non riuscissero a fare terra bruciata di ogni singolo campo di volo all’interno del territorio degli Stati Uniti, o viceversa, privando in questo modo il paese bersaglio di un qualsivoglia strumento di autodifesa? Un problema tanto più pressante quando si considera come il peso elevato, unito alla potenza relativamente contenuta dei primi aerei a reazione successivi al secondo conflitto mondiale li portasse a richiedere delle piste di decollo particolarmente lunghe, la cui posizione era ormai da tempo chiaramente identificata sulle vicendevoli mappe dei luoghi da colpire per primi.
Ecco la ragione per cui a partire dal 1953, negli Stati Uniti, chi di dovere iniziò porsi questa domanda potenzialmente rivoluzionaria: sarebbe stato possibile costruire un sistema capace di unire il meglio dei due mondi, trasformando gli intercettori in dei letterali missili balistici temporanei, scagliati verso il cielo da un apparato semovente paragonabile a quello delle originali V-1 tedesche e per inferenza, il ben più moderno MGM-1 Matador? Il che avrebbe comportato, almeno in un primo momento, il reimpiego diretto di molti dei componenti di quest’ultimo, incluso il sistema di accensione e la rampa di lancio, sostituendo tuttavia la testata con un sistema di aggancio alla parte inferiore della carlinga di un F-84 Thunderjet. Il rudimentale, nonché problematico cacciabombardiere dalle antiquate ali perpendicolari, che presentava tuttavia la lodevole caratteristica di poter consegnare a destinazione un ordigno nucleare di ragionevole potenza. Perché dopo tutto, nessuno avrebbe avuto ragione di disprezzare un simile approccio alla situazione di partenza… Il risultato, secondo quanto descritto e dimostrato in una serie di documenti de-secretati soltanto a distanza di diversi anni, sarebbe stato il sistema di Zero Length Launch / Mat Landing (ZELMAL) dove le ultime tre lettere dell’appellativo si riferiscono, in maniera piuttosto sorprendente, a niente meno che un materasso. Quello, progettato e costruito dalla Goodyear, dove l’aereo avrebbe dovuto atterrare al termine della sua missione, per partire di nuovo all’indirizzo dei suoi bersagli dopo il rifornimento e la dotazione di un ulteriore razzo di partenza. Questo particolare passaggio non sarebbe tuttavia stato messo alla prova fino all’anno successivo e questo fu indubbiamente un significativo vantaggio per i piloti di test impiegati presso l’Edwards Air Force Base della California, che a dicembre di quell’anno poterono sperimentare tutta l’ebbrezza di questo stile di decollo tornando però a terra mediante l’impiego di metodi del tutto convenzionali. Non altrettanto bene sarebbe andata, invece, ai primi incaricati di dimostrare la fattibilità del piano di recupero immaginato dagli ingegneri…
La creatura invisibile mimetizzata sui rami dell’Amazzonia
Tentai d’ignorare il ronzio di una zanzara grossa (all’apparenza) come un passero, mentre il battito di una falena minacciava di offuscare il mio equilibrio, facendomi cadere dall’altezza di circa 15 metri. Nel gettare momentaneamente uno sguardo di sfuggita all’orologio sotto il pallido lucore della luna, scorsi un paio di lancette che indicavano all’incirca le 3 di notte. “Come, come ho fatto a ritrovarmi in questa situazione?” Mi chiesi allora, il braccio destro saldamente avvolto attorno al ramo biforcuto dell’albero di Paraiba, l’altro a stringere la telecamera con luce incorporata, impugnata per il bene della scienza e la maggiore gloria del mio cognome, tra tutti gli altri pubblicisti dei diari scientifici attinenti all’ambito degli animali sudamericani. Fu esattamente quello il momento in cui sentii di nuovo il suo richiamo: BO-OU, BO-ou, bo-ou, bo-ou in dissolvenza, come il lamento di un Saci Pererê, la creatura mitologica brasiliana con l’aspetto di un elfo saltellante su una gamba sola, l’eterna pipa in bocca e l’indole notoriamente dispettosa… Eppure non c’era assolutamente niente dinnanzi al mio sguardo attentamente triangolato sulla fonte di quel suono misterioso: “Perfetto, proprio quello che volevo. Ciò conferma al massimo le aspettative di partenza. Click!” Spinsi allora il piccolo pulsante in cima all’apparato di ripresa, confidando nell’effetto riflettente di quegli occhi QUASI totalmente chiusi. Ed infatti, con mio senso estremo di soddisfazione lui/lei era lì. Perfettamente immobile, come una lucertola a mezzogiorno, in posizione ragionevolmente verticale in cima alla diramazione verticale di un ramo spezzato, probabilmente per l’effetto di un fulmine, dell’albero di fico antistante al mio. Molto più in basso di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, forse perché prossimo a lanciarsi a caccia d’insetti, sua forma di sostentamento principale. Le due fessure larghe circa un paio di centimetri ciascuna, come da copione, riflettevano perfettamente quel bagliore artificiale, mentre abbandonata per un attimo la recita, sapendo anche fin troppo bene di essere stato scovato, l’uccello aprì ancora il largo becco, formando il triangolo rosato di un arcano simbolo contro il fondale della notte. Fu allora il suo richiamo, all’apparenza disperato, aumentò all’improvviso di tono ed intensità, mentre l’uccello si apprestava a decollare e diversi tra i suoi simili rispondevano tutto attorno, nell’inizio dell’unico sistema di autodifesa che potessero annoverare nel loro repertorio aviario: l’attacco in massa. “What in tarnation!?” Sussurrai allora, in perfetto accento cockney del proletariato londinese…
La questione principale relativa ad un qualsiasi tipo di trattazione del nittibio, comunemente detto in lingua inglese potoo (contrazione di poor-me-ones, povero me) è che il suo intero genere dei caprimulgiformi presenta ancora numerosi aspetti non chiari, come del resto spesso capita per le creature che abitano principalmente la sommità degli alberi di uno dei luoghi più incontaminati ed inaccessibili del pianeta: le grandi foreste pluviali di Brasile, Colombia, Venezuela e dintorni, con piccole popolazioni distaccate nel Centro America e la parte meridionale del Messico. Il che, unito all’assoluta assenza di tratti distintivi tra i due sessi, rende ancora totalmente ignota quale sia il rappresentante della coppia che riceve l’incarico di custodire lo strano “nido”. Se così possiamo definire un semplice incavo scovato nella parte superiore di un arbusto, dove trova collocazione il singolo uovo deposto verso l’inizio della stagione piovosa nel tentativo e la speranza che possa passare inosservato. Perché tutto, nell’uccello che i locali chiamano urutao, è concepito per renderlo effettivamente trasparente allo sguardo di ogni potenziale predatore…
L’archetipo dell’uomo in scatola contro la fame dell’orsa polare
Recentemente ricomparso sul canale ufficiale della BBC Earth, per la prima volta in forma ragionevolmente autoconclusiva, questo spezzone in HD proveniente dal documentario del 2013 “The Polar Bear Family & Me” rappresenta il singolo momento, nella vita di Gordon Buchanan, in cui un naturalista tanto esperto ha avuto l’occasione di trovarsi DAVVERO vicino ad una di loro. Abbastanza da poter contare i peli fuori posto attorno al muso dell’animale. Abbastanza da sentire il suono di un respiro preso dall’affanno, per lo sforzo di trovare il modo di arrivare al nocciolo della questione. L’interno, il nucleo, ovvero a voler essere più schietti, la persona. Che per una qualche ragione (o pluralità di esse) totalmente incomprensibile da parte di un tanto temuto super-predatore, ha scelto di sottoporsi alla portata momentanea dei suoi artigli e denti, resi ancor più acuminati dal bisogno. Continuando a emettere quel suono stridulo e continuo che è rappresentato dalla voce umana… Cos’hai da parlare, snack dentro il cestino? Cosa vai argomentando, Simmenthal di chi non ha, purtroppo, un’apriscatole a portata di zampa? (Zampa stessa, esclusa.)
Il che d’altra parte non può certo definirsi una trovata totalmente originale. Dopo tutto, in diverse regioni del turismo acquatico nel mondo, è reiterato spesso quel concetto della gabbia semi-galleggiante, sommersa in mezzo ai flutti popolati dagli squali, che portati ad avvicinarsi tramite l’impiego di qualche esca sanguinosa, finiscono per sorvegliare attentamente le strane foche dietro una barriera sempre invalicabile, di sbarre fastidiosamente ravvicinate tra loro. È il dominio, tutto questo, nonché l’assoluta riconferma della supremazia dell’uomo nei confronti della natura. Ovvero la dimostrazione che tra le doti concesse dall’evoluzione, una domina sulle creature dell’intera Terra: la costruzione d’involucri capaci di restare chiusi, quando necessario.
Occorre tuttavia tenere ben presente come, in simili contesti, l’esempio dato dai predecessori sia nient’altro che fondamentale: non è detto che quanto puoi fare con i pesci… Fu dunque una notizia spesso ripetuta al tempo, nonché ancora reperibile, il problematico seguito di quanto qui mostrato, con la minaccia di serie sanzioni e riqualifica come “persona non benvenuta” sulla terra gelida delle isole norvegesi di Svalbard, da parte dell’allora governatore regionale nei confronti di Jason Roberts, consulente tecnico e geniere, in senso quasi militare, dello show. Colui che, lavorando alacremente presso un qualche luogo adatto, aveva costruito la struttura stessa del contenitore “Ice Cube” in acciaio e perspex, con la ragionevole certezza di riuscire a proteggere dall’insistenza orsina colui che, per sua spontanea iniziativa, si era dimostrato pronto a mettersi a repentaglio. Non che tale iniziativa, d’altra parte, possa definirsi tanto più pericolosa di qualsiasi altro tipo d’interazione con l’Ursus maritimus, tutt’altro che benevola mascotte dell’iper-celebre bevanda analcolica in lattina…
Riemerge un materiale capace di resistere a qualsiasi temperatura
Luce incandescente al calor rosso che si abbatte sulla mano senza guanti, sopra quella che potrebbe a pieno titolo sembrare una frittella bruciacchiata. Sulla quale, per qualche istante ancora, trova posto un piccolo tesoro di monete. Che si squagliano e appiattiscono, l’una di seguito all’altra, come fossero di cioccolata. In una scena da annoverare a pieno titolo nell’albo d’oro del “Non Provateci Assolutamente a Casa” (e mi sento di reiterare: quasi NIENTE di quanto che fa quest’uomo è sicuro da riprodurre senza un adeguato background chimico o esperienza reale in laboratorio) il famoso YouTuber a tema scientifico NightHawkInLight prende ispirazione stavolta da un celebre segmento della Tv britannica, durante il quale andò in onda la dimostrazione pratica di un invenzione che avrebbe dovuto cambiare il mondo e che invece, per ragioni certamente difficili da determinare, sarebbe stata completamente dimenticata al trascorrere di quel fatidico 1990. Benché intendiamoci, sia difficile immaginare uno scenario in cui manca di fare colpo la scena in cui il presentatore dell’eterno Tomorrow’s World, programma andato in onda per un periodo di oltre 38 anni, punta una torcia ossidrica accesa per svariati minuti all’indirizzo di un’uovo, per poi aprirlo di fronte alle telecamere mostrandone l’interno ancora del tutto crudo. E in effetti l’inventore dietro allo straordinario materiale di cui era stato ricoperto, il parrucchiere per professione Maurice Ward di Hartlepool, contea di Durham, sarebbe riuscito così a catturare l’attenzione di enti di portata internazionale quali la National Aeronautics and Space Administration (NASA), l’Atomic Weapons Establishment (AWE) e le Imperial Chemical Industries (ICE). Senza tuttavia ottenere il lucrativo contratto di fornitura del suo brevetto a cui riteneva di avere un assoluto e imprescindibile diritto. Finché nel 2011, all’età di 78 anni, improvvisamente morì. Forse portandosi, per quanto ci è stato fatto capire da sua moglie e le quattro figlie, la misteriosa ricetta al di là del mondo tangibile dei viventi.
Starlite, era (e resta) il suo nome a scopo commerciale attribuitogli dalla nipote dell’inventore, che poi significa “Luce Stellare” e a dire il vero sono stati in molti a provare a riprodurlo e infine ritenere, in qualche modo, di aver catturato il suo segreto. Il fatto stesso che Ward si fosse dimostrato molto spesso ben disposto a dare in prova dei campioni ai suoi possibili clienti, senza però mai permettergli di analizzarli in modo approfondito, costituisce infatti la prova che dovesse trattarsi di una miscela sorprendentemente semplice, forse persino realizzabile all’interno di una comune cucina. Inoltre materiali simili, benché non esattamente uguali, sono stati nel frattempo perseguiti ed alla fine brevettati in vari campi, dandoci almeno una vaga idea di quello che potesse essere scaturito dalla mente di quel geniale autodidatta all’inizio dell’ultimo decennio del 1900. Così ancora una volta il nostro autore di brevi esperimenti divulgativi, inventa, sperimenta e mette alla prova. Ponendoci di fronte al fatto compiuto di un qualcosa che “potrebbe” forse essere Starlite. Ma la di la di questo, rientra certamente nella stessa categoria di super-materiali termici, capaci di proteggere a partire da un sottilissimo strato persino la delicata pelle umana, dinnanzi a temperature capaci di annientare completamente il metallo. Giunti a questo punto, vediamo di analizzare la scena in cui NightHawkInLight introduceva, col suo solito stile pacato e tranquillo, l’imprevedibile argomento…