L’entusiasmo dei border collie al servizio del rimboschimento cileno

Tre caballeros che galoppano nella foresta, le orecchie ben dritte sulla testa, il naso come un navigatore satellitare, che li conduce dritti verso un obiettivo remoto: vagabondare, senza una meta. A cosa serve, dopo tutto, un’idea anticipata del proprio itinerario, quando tutto quello che si deve fare è percorrere circa 25 Km in un pomeriggio, confidando nel progressivo alleggerimento delle proprie bisacce! Borse assicurate sui fianchi, da un duo di padrone solenni e coscienziose, ricolme di semi di coihue (faggio), roble (quercia), l’albero deciduo dell’alto raulì… E molti altri. Praticamente l’intero contenuto di quel particolare bioma, che potremmo convenzionalmente definire come la tipica foresta della nazione più lunga e stretta del continente sudamericano. Quella striscia di terra dell’ampiezza latitudinale di appena 350 km, la quale si estende dall’area del Perù e della Bolivia fino alla Terra del Fuego argentina, per un’altezza complessiva di 4300. La cui zona centrale, particolarmente nella regione del Maule, è stata colpita nel trascorso 2017 dalla più lunga e devastante serie d’incendi a memoria d’uomo. Ora storicamente parlando, fatta eccezione per il pericolo che costituiscono per l’uomo e alcune specie di animali, il fuoco non arreca danni duraturi a questo tipo di ecosistema; si potrebbe persino affermare che nel propagarsi di un determinato tipo di vegetazione, l’occasionale incenerimento del substrato sia benefico sul lungo periodo, poiché stimola la crescita dei nuovi virgulti. Esiste tuttavia una corrente d’analisi, supportata da dati statistici chiari, secondo cui le attuali condizioni del mutamento climatico, la riduzione della aree totalmente incontaminate dalla mano dell’uomo e la progressiva sparizione di animali funzionali alla propagazione vegetale, ci abbiano portati a varcare una soglia, che si è subito chiusa, impedendoci di tornare indietro. Quella della non autosufficienza, e l’incapacità di rigenerarsi, da parte dei nostri stessi polmoni planetari. E qui non siamo in un paese industrializzato come alcuni degli Stati Uniti, dove la densità di popolazione superiore e la conseguente diffusione di una moderna cultura ambientalista, permette l’istituzione di giornate intere dedicate alla semina da parte di centinaia o addirittura migliaia di persone, intenzionate a trascorrere un pomeriggio diverso ma sopratutto, aiutare. Ecco dunque la base su cui le sorelle Francisca e Constanza Torres, con le loro tre cagnoline Das, Summer e Olivia, hanno deciso di mettere in campo lo strumento più potente a disposizione di chi abbia intenzione di cambiare le cose in meglio: la fucina cerebrale delle ottime idee.
Così le ritroviamo all’ombra dell’antica faggeta di Maulino, ricca di specie vegetali endemiche, il cui territorio è ancora oggi coperto da vaste cicatrici, macchie d’alberi parzialmente inceneriti e circondati da un letto di polvere scura e detriti. Mentre allacciano alle tre border collie di casa, madre e due figlie, delle speciali borse di loro concezione. All’interno delle quali svuotano, quindi, i sacchi di semi endemici acquistati a loro spese. Ciò che succede a questo punto, è rimarchevole nonché, da un certo punto di vista, del tutto inevitabile: chiunque abbia avuto modo di portare i propri cani in un luogo selvaggio, ben conosce l’entusiasmo trascinante dei nostri amici peludos quando si trovano a contatto con l’ancestrale richiamo dei loro lupeschi antenati. Specialmente qualora si parli, come in questo caso, di razze che non hanno dovuto sacrificare troppi vantaggi evolutivi per soddisfare i loro allevatori, potendo quindi fare affidamento su gambe forti, capacità respiratorie ideali e una rinomata intelligenza, sinonimo funzionale di curiosità e intraprendenza. Tolti i guinzagli quindi, e gridato il “Via!” Le operatrici ecologiche a macchie bianche e nere iniziano il loro percorso di guerra, correndo per ogni dove mentre il prezioso e rispettivo carico, un poco alla volta, viene rilasciato gradualmente, come fosse il contenuto di una grossa saliera.
L’operazione convenzionale del rimboschimento, secondo quanto descritto dalle linee guida internazionali, costituisce di norma un’attività estremamente metodica e logorante. Pattuglie di uomini e donne, facendo seguito a un preciso briefing operativo, ricevono una certa quantità di materiale, che devono quindi disporre a intervalli regolari lungo un itinerario attentamente determinato. Soltanto in questa maniera, le associazioni ambientaliste possono garantire una percentuale di semina riuscita che possa avvicinarsi per quanto possibile al 100%. Eppure, se è vero che questa attività dovrebbe sostituire quella naturali di uccelli, piccoli mammiferi e insetti, non è forse possibile ottenere dei risultati altrettanto validi sfruttando l’abbaiante teoria del Caos?

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La condanna nascosta nel seme dell’avocado

In principio era l’uovo. Il globo legnoso, sospeso dal ramo, ricoperto non una bensì DUE volte: dalla scorza verde, bitorzoluta, tipicamente associata al concetto di “pera alligatore”. E al di sotto di quella, una polpa dolciastra e relativamente insapore, ricca di grassi, proteine, potassio, folati e vitamine. Nella visione prototipica del Paradiso Terrestre, possono esserci molti tipi di frutti proibiti: il primo, è quello che dona la conoscenza. Mentre gli altri, donano la prosperità temporanea. Già, ma a che prezzo? Questo mi chiedo, mentre il rombo del motore alimentato con grasso animale mi spinge innanzi lungo il grande vuoto delle Terre Desolate, la balestra appoggiata sul cassone del pickup, con il mirino puntato verso il puntino nero al centro dell’orizzonte. “Corpo di mille balene delle sabbie, Lucy, è il cartello dei Caballeros! Ci hanno…Trovati.” La mia compagna di fuga preme a quel punto sull’acceleratore, mentre un grido disarticolato di rabbia emerge quasi spontaneamente dalla sua laringe, le mani saldamente posizionate sul volante in corna di cervo, un prezioso residuato del secondo Millennio. “Lo sapevo! Mira bene, stavolta!” Getto uno sguardo al sacco dei grossi semi geneticamente modificati per crescere sulla scorza acida delle Pianure Dimenticate, ultima speranza di un’intera comunità ribelle, mentre osservo i veicoli dei nostri inseguitori moltiplicarsi; allora incocco il terzultimo dei nostri dardi esplosivi. Ho appena il tempo di abbassare sugli occhi il visore termico, e…
Nelle visioni fantasmagoriche di un mondo oramai derelitto, dove ogni litro residuo d’acqua è prezioso e la biodiversità un lontano ricordo di epoche più popolate, è custodito l’orribile sospetto della società moderna. L’abbiamo vista oltre mille volte, al cinema, in televisione, nei romanzi e nei videogiochi: un mondo in cui la legge cessa di avere qualsiasi significato, essendo stata sovrascritta dalle mere esigenze quotidiane della difficile sopravvivenza. Nient’altro che dune a perdita d’occhio, e il sogno perduto di un tempo in cui l’abbondanza era la regola, piuttosto che l’eccezione. Il momento presente, guidato dal desiderio di una cosa, sopra qualsiasi altra: il profitto, anche nel campo largamente necessario dell’agricoltura. Forse proprio questo 2018 ormai prossimo alla conclusione, verrà iscritto negli annali del mondo come l’anno in cui l’opinione pubblica si è accorta del pericolo costituito da una risorsa alimentare non sostenibile, se diventata eccessivamente diffusa e popolare, grazie alla campagna globale contro la produzione dell’olio di palma. Eppure, nonostante la cognizione vagamente diffusa sui danni causati al clima dallo sfruttamento intensivo dei semi di tale pianta, è impossibile sfuggire al sospetto che l’unica ragione per cui è nata l’ostilità collettiva sia da ricercarsi dalla cognizione (non sempre corretta o informata) che tale sostanza costituisca un pericolo per la nostra salute. Mentre altri frutti della terra, più salutari, nascondono un pericolo se vogliamo persino più grande. Quello della soddisfazione completa dei singoli, a danno delle generazioni future. Persea americana è il frutto, originario della valle di Tehuacan in Messico, che popola infinite storie di Instagram, video di cucina su YouTube e altri indirizzi social del variegato popolo internettiano. Consigliato dai dietologi, nella giusta quantità, e particolarmente amato dalle neo-culture vegetariane, poiché contiene un apporto di nutrienti validi a sostituire la natura inerentemente crudele dell’esistenza umana. Fotografato un milione o più volte, come esempio commestibile di probità. Eppure in questo preciso momento, intere popolazioni soffrono per l’avocado, muoiono, vengono sfruttate. Territori un tempo fertili languono senza vita, fino all’ultima goccia sparita, col solo obiettivo di far crescere quello che in determinati ambienti viene considerato “oro verde”. Più prezioso, e redditizio, della marijuana. E mille volte più pericoloso, sul lungo termine, per il benessere della specie umana.
Il problema principale di questo frutto, definito originariamente dagli aztechi āhuacatl ovvero “il testicolo” (perché cresce a coppie ed ha una forma anatomicamente corretta) è la sua capacità di crescere pressoché ovunque. Purché sia presente un clima di tipo tropicale o Mediterraneo, e vengano fornite le cure adeguate da parte dei suoi coltivatori. Il che è potrebbe sembrare un controsenso, considerando che stiamo parlando di una pianta lasciata indietro dal corso dell’evoluzione, la cui stessa propagazione naturale è impossibile almeno a partire dalla fine del Pleistocene (11.700 anni fa) con l’estinzione della megafauna americana. Creature come i bradipi di terra, lunghi fino a 6 metri, tra le poche creature in grado di fagocitare serenamente in un sol boccone la pera cruciale, il cui nocciolo sovradimensionato aveva una massa comparabile a quella di mandarino. E pensate che allora, il rapporto tra materia commestibile e un tale “osso centrale”, per di più tossico nei confronti di molte specie animali moderne, era persino meno vantaggioso che adesso, in mancanza dei molti secoli di selezione operata dall’uomo. Gli storici dell’alimentazione ritengono dunque che successivamente a quel momento, il frutto abbia continuato a rinascere principalmente grazie alla nostra mano, fatta eccezione per l’intervento raro del giaguaro, unico animale abbastanza grosso nel suo areale da far passare un simile seme all’interno del proprio apparato digerente. Questo non è stato, per lunghi secoli, un significativo problema: l’America meridionale e centrale, dopo tutto, è uno dei luoghi più umidi del pianeta, le cui foreste pluviali sostengono e rinnovano le nostre risorse d’ossigeno planetarie. Ma con l’arrivo della globalizzazione, altre comunità si sono candidate per coltivare il desiderabile e prezioso frutto, impiegando una parte considerevole del proprio fluido più prezioso: l’acqua, sinonimo stesso della vita. Il che ci porta, per così dire, al nocciolo della questione…

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Agricoltore dimostra l’esistenza degli armadilli giganti

Sotto una cascata di fili d’erba e rami di giunchi tendenti al marrone, dentro un canale d’irrigazione all’interno di un buco sabbioso vestigia bitorzolute di antichi guerrieri: una corazza ovoidale, forata in un punto, composta da almeno un migliaio di scuti. Non c’è una testa, né resti dell’antica coda: la polvere corrosiva del tempo li ha dissolti in maniera completa. Eppur può sembrare, prestando attenzione, di udire ancora l’antico verso, come un muggito, il grido di sfida, l’urlo rivolto a creature carnivore per sempre ostili. Jose Antonio Nievas è l’individuo che durante una scampagnata estiva di Natale del 2017 (siamo nell’emisfero meridionale) si è trovato nei pressi di questo ruscello nei dintorni di Buenos Aires, soltanto per scorgere all’improvviso qualcosa di mai visto prima far capolino tra la terra smossa. Ciò che doveva essere, o poteva soltanto essere secondo lui, un “Uovo di dinosauro!” E uscì gridando, il suo enorme entusiasmo, così come sovradimensionato appariva l’oggetto, se davvero al suo interno ci fosse stato un tempo un embrione, sia pur di tirannosauro, brontosauro o altro-sauro dominatore dei diagrammi da sussidiario con l’immagine del minuscolo omino per fare scala. Il suo era un errore destinato a durare ben poco, tuttavia, nel mentre arrivarono sul posto biologi e paleontologi, per scavare, prendere le misure dell’insolito oggetto e attribuirgli una tipologia d’appartenenza. Non che ci fosse stato, effettivamente, alcun dubbio residuo nelle loro menti: Gliptodonte. La bestia pleistocenica appartenente al superordine degli Xenarthra, oggi costituito dallo strano assortimento di bradipi e piccoli mammiferi corazzati, più o meno abili nella mansione di chiudersi come una palla, a seconda della specie. Ma come avviene tutt’ora in determinati recessi per l’effetto del gigantismo insulare, o secondo il principio per cui anticamente “tutto il mondo era un’isola” il divoratore d’erba e piante dell’epoca era piuttosto diverso da quelli di adesso, soprattutto nel trascurabile dettaglio di essere lungo, e largo all’incirca quanto una Volkswagen Beetle. O una volta e mezzo la Mercedes Smart: fino a 3,3 metri, per 1,5 d’altezza e appena due tonnellate di peso. Una bestia sufficientemente coriacea/terribile, da scoraggiare persino la tigre dai denti a sciabola. A meno che questa non fosse abbastanza affamata, caso in cui tutto fa brodo. Specialmente ciò che viene fornito con pratica scodella incorporata, già pronta all’uso.
Il gliptosauro, del resto, già seppe lasciare perplessi già molti insigni scienziati all’epoca del suo primo tentativo di classificazione, compiuto da niente meno che Charles Darwin, il quale aveva ritrovato, durante i suoi viaggi sudamericani, i resti fossilizzati di un femore, e quella che poteva soltanto essere una coda. Nessuno sa, davvero, che idea il grande scienziato si fosse fatto della nuova creatura, mentre possiamo affermare per certo che il suo collega e contemporaneo dell’Uruguay, il prete e naturalista Dámaso Antonio Larrañaga, identificò in una lettera del 1823 ritrovamenti simili come appartenenti al Megatherium, l’ipertrofico bradipo che avrebbe costituito, nell’intera storia del pianeta azzurro, il secondo mammifero di terra più grande della storia. E di certo una simile creatura avrebbe convissuto con gli antenati dell’armadillo, pur non competendo mai per il cibo. Poiché tutte le specie di gliptodonti, di cui attualmente ne conosciamo sette, avevano la caratteristica di un collo particolarmente corto e poco flessibile, per sostenere il peso notevole della corazza, il che gli avrebbe completamente impedito di accedere alle fronde più alte di un mezzo metro circa. A meno di sottoscrivere la teoria, oggetto di uno studio del 2012 di Juan Carlos Fernicola et al, secondo cui i residui di fibra muscolare nei dintorni delle narici avrebbero indicato la presenza di una lunga proboscide. Caratteristica che, d’altronde, nessuno ha mai incluso nelle immagini artistiche dell’animale, ritenendo forse che ciò avrebbe compromesso l’aspetto ferocemente stabile di un tale macigno deambulante. Pezzi di ossa e del guscio avevano preso a comparire, ben prima di quella data, nelle analisi formali di varie figure scientifiche di spicco: il Dr. Lund, professore famoso per le sue memorie sulla fauna preistorica brasiliana, scrisse nel 1837 dell’hoploforo, un misterioso essere probabilmente corazzato. L’anno successivo, il professor Brohn ne incluse una sua versione nel testo da lui pubblicato Lethaea Geognostica, scegliendo di usare l’appellativo Chlamydotherium. Passò un altro anno, quindi, per un ulteriore nome: Pachypus, opera del Prof. D’Alton. E ogni volta che la bestia faceva la sua comparsa, c’era sempre qualcosa di diverso: a volte liscia, altra bitorzoluta, più o meno grande a seconda dei casi. Finché un uomo dalle profondità della scienza, emerse per dirimere l’arzigogolata questione…

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Colombia: strane apparizioni sotto la diga che sta per crollare

C’è una sottile linea tra realtà e immaginazione, che con l’aumentare delle ore di lavoro tende a diventare completamente invisibile, influenzando la capacità umana d’identificare i confini dei suoi incubi più remoti. Ed è allora, generalmente, che l’impossibile tende a realizzarsi, sotto gli occhi semichiusi di chi era lì, nonostante tutto, nella speranza di fare il suo dovere. Una situazione di crisi. L’ultimo sforzo, condotto con profonda dedizione, nella speranza di salvare le case di 9.000 persone, potenzialmente l’incolumità di molti e con assoluta certezza, l’economia già sofferente della propria nazione: sto parlando di una situazione corrente di cui, purtroppo, non ci hanno parlato i telegiornali. Certo, la crisi politica italiana è importante. I fatti di Windsor hanno stimolato la nostra fantasia. Le Hawaii bruciano per l’effetto del loro vulcano. Ma che dire del più grande fallimento a memoria d’uomo, di un progetto pubblico costato l’equivalente di 3,8 miliardi di dollari, in un paese che sta tentando di risalire la china dopo decenni di violenza, disordini civili e predominio assoluto dei trafficanti di droga? Sta succedendo… Esattamente adesso. Il 17 maggio, tra l’incredulità generale, il messaggio è comparso su Twitter, televisione, radio ed è stato fatto rimbalzare tra gli altoparlanti usati per comunicare fatti urgenti alla popolazione: “Si prega di evacuare immediatamente l’area corrispondente alle rive del fiume Cauca, al di sotto del villaggio di Ituango e la sua diga. Si verificheranno aumenti di flusso e potenziali indondazioni. Tutti gli abitanti devono recarsi ai centri di recupero e accoglienza allestiti nelle seguenti zone sicure…” Questo perché, a causa di un periodo di piogge particolarmente ingenti delle ultime settimane, due dei tre tunnel usati per deviare il corso del fiume durante la costruzione si sono intasati di detriti, causando un riempimento eccessivo del bacino idroelettrico prima che l’intera struttura potesse venire consolidata. Ma sono certo che il pensiero dei coraggiosi lavoranti, che proprio in queste ore stanno lavorando 24 su 24, giorno e notte nella speranza di completare in tempo la diga e rendere operativi i canali di scolo d’emergenza a cielo aperto prima della catastrofe, nei drammatici momenti rappresentati nel video non stavano pensando soltanto ai viventi. Bensì alle innumerevoli tombe dei desaparecidos, i cimiteri comuni allestiti lungo il corso del principale fiume colombiano, potenzialmente destinate ad essere ricoperte da un fiume di detriti, fango e zolle in viaggio con tutta la veemenza di una mandria di bufali inferociti. Del resto, non capita tanto spesso di vedere un fantasma.
La scena ripresa con il cellulare si svolge all’interno di uno dei tunnel di raccordo, costruiti al di sotto del terrapieno alto 225 metri che era stato destinato a produrre 2.456 megawatt di energia entro il novembre di quest’anno, rispondendo da solo al 17% dell’interno fabbisogno elettrico del paese. Dove gli addetti, spostandosi con senso d’urgenza per intervenire presso le zone d’intasamento, si ritrovano d’improvviso a dover frenare il proprio veicolo, mentre dinnanzi a loro si dipana l’evento più surreale immaginabile in quel contesto: una sorta di nube di vapore, che si forma velocissima a partire dalle pareti e il suolo del passaggio di transito, per poi sparire come se niente fosse. Salvo che, qualche decina di metri più avanti, il fenomeno si verifica nuovamente, come se l’entità misteriosa avesse impiegato la tecnica del teletrasporto. E lo facesse ancora e ancora a intervalli regolari, fin quasi a investire l’autoveicolo in sosta con il suo carico di passeggeri increduli e paralizzati dal terrore. Quindi, proprio mentre sembra che i testimoni stiano per essere investiti da questa manifestazione tangibile del mostro di fumo del telefilm Lost, le riprese si interrompono, lasciandoci soli con la domanda su cosa, esattamente, ci è capitato di vedere. Nella continuativa assenza di comunicazioni internazionali, o testimonianze dirette di chi questa drammatica situazione la sta vivendo sulla propria pelle, Internet come sempre si è lanciata nelle sue ipotesi contrastanti. Alcune compaiono nei commenti stessi al video, sia in lingua spagnola che inglese. Altre sui gruppi di discussione più disparati, da dove una sorta di consenso para-scientifico, un poco alla volta, sembra essere emerso dalle nebbie del complottismo generico e le battute su cinema e videogames…

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