La condanna nascosta nel seme dell’avocado

In principio era l’uovo. Il globo legnoso, sospeso dal ramo, ricoperto non una bensì DUE volte: dalla scorza verde, bitorzoluta, tipicamente associata al concetto di “pera alligatore”. E al di sotto di quella, una polpa dolciastra e relativamente insapore, ricca di grassi, proteine, potassio, folati e vitamine. Nella visione prototipica del Paradiso Terrestre, possono esserci molti tipi di frutti proibiti: il primo, è quello che dona la conoscenza. Mentre gli altri, donano la prosperità temporanea. Già, ma a che prezzo? Questo mi chiedo, mentre il rombo del motore alimentato con grasso animale mi spinge innanzi lungo il grande vuoto delle Terre Desolate, la balestra appoggiata sul cassone del pickup, con il mirino puntato verso il puntino nero al centro dell’orizzonte. “Corpo di mille balene delle sabbie, Lucy, è il cartello dei Caballeros! Ci hanno…Trovati.” La mia compagna di fuga preme a quel punto sull’acceleratore, mentre un grido disarticolato di rabbia emerge quasi spontaneamente dalla sua laringe, le mani saldamente posizionate sul volante in corna di cervo, un prezioso residuato del secondo Millennio. “Lo sapevo! Mira bene, stavolta!” Getto uno sguardo al sacco dei grossi semi geneticamente modificati per crescere sulla scorza acida delle Pianure Dimenticate, ultima speranza di un’intera comunità ribelle, mentre osservo i veicoli dei nostri inseguitori moltiplicarsi; allora incocco il terzultimo dei nostri dardi esplosivi. Ho appena il tempo di abbassare sugli occhi il visore termico, e…
Nelle visioni fantasmagoriche di un mondo oramai derelitto, dove ogni litro residuo d’acqua è prezioso e la biodiversità un lontano ricordo di epoche più popolate, è custodito l’orribile sospetto della società moderna. L’abbiamo vista oltre mille volte, al cinema, in televisione, nei romanzi e nei videogiochi: un mondo in cui la legge cessa di avere qualsiasi significato, essendo stata sovrascritta dalle mere esigenze quotidiane della difficile sopravvivenza. Nient’altro che dune a perdita d’occhio, e il sogno perduto di un tempo in cui l’abbondanza era la regola, piuttosto che l’eccezione. Il momento presente, guidato dal desiderio di una cosa, sopra qualsiasi altra: il profitto, anche nel campo largamente necessario dell’agricoltura. Forse proprio questo 2018 ormai prossimo alla conclusione, verrà iscritto negli annali del mondo come l’anno in cui l’opinione pubblica si è accorta del pericolo costituito da una risorsa alimentare non sostenibile, se diventata eccessivamente diffusa e popolare, grazie alla campagna globale contro la produzione dell’olio di palma. Eppure, nonostante la cognizione vagamente diffusa sui danni causati al clima dallo sfruttamento intensivo dei semi di tale pianta, è impossibile sfuggire al sospetto che l’unica ragione per cui è nata l’ostilità collettiva sia da ricercarsi dalla cognizione (non sempre corretta o informata) che tale sostanza costituisca un pericolo per la nostra salute. Mentre altri frutti della terra, più salutari, nascondono un pericolo se vogliamo persino più grande. Quello della soddisfazione completa dei singoli, a danno delle generazioni future. Persea americana è il frutto, originario della valle di Tehuacan in Messico, che popola infinite storie di Instagram, video di cucina su YouTube e altri indirizzi social del variegato popolo internettiano. Consigliato dai dietologi, nella giusta quantità, e particolarmente amato dalle neo-culture vegetariane, poiché contiene un apporto di nutrienti validi a sostituire la natura inerentemente crudele dell’esistenza umana. Fotografato un milione o più volte, come esempio commestibile di probità. Eppure in questo preciso momento, intere popolazioni soffrono per l’avocado, muoiono, vengono sfruttate. Territori un tempo fertili languono senza vita, fino all’ultima goccia sparita, col solo obiettivo di far crescere quello che in determinati ambienti viene considerato “oro verde”. Più prezioso, e redditizio, della marijuana. E mille volte più pericoloso, sul lungo termine, per il benessere della specie umana.
Il problema principale di questo frutto, definito originariamente dagli aztechi āhuacatl ovvero “il testicolo” (perché cresce a coppie ed ha una forma anatomicamente corretta) è la sua capacità di crescere pressoché ovunque. Purché sia presente un clima di tipo tropicale o Mediterraneo, e vengano fornite le cure adeguate da parte dei suoi coltivatori. Il che è potrebbe sembrare un controsenso, considerando che stiamo parlando di una pianta lasciata indietro dal corso dell’evoluzione, la cui stessa propagazione naturale è impossibile almeno a partire dalla fine del Pleistocene (11.700 anni fa) con l’estinzione della megafauna americana. Creature come i bradipi di terra, lunghi fino a 6 metri, tra le poche creature in grado di fagocitare serenamente in un sol boccone la pera cruciale, il cui nocciolo sovradimensionato aveva una massa comparabile a quella di mandarino. E pensate che allora, il rapporto tra materia commestibile e un tale “osso centrale”, per di più tossico nei confronti di molte specie animali moderne, era persino meno vantaggioso che adesso, in mancanza dei molti secoli di selezione operata dall’uomo. Gli storici dell’alimentazione ritengono dunque che successivamente a quel momento, il frutto abbia continuato a rinascere principalmente grazie alla nostra mano, fatta eccezione per l’intervento raro del giaguaro, unico animale abbastanza grosso nel suo areale da far passare un simile seme all’interno del proprio apparato digerente. Questo non è stato, per lunghi secoli, un significativo problema: l’America meridionale e centrale, dopo tutto, è uno dei luoghi più umidi del pianeta, le cui foreste pluviali sostengono e rinnovano le nostre risorse d’ossigeno planetarie. Ma con l’arrivo della globalizzazione, altre comunità si sono candidate per coltivare il desiderabile e prezioso frutto, impiegando una parte considerevole del proprio fluido più prezioso: l’acqua, sinonimo stesso della vita. Il che ci porta, per così dire, al nocciolo della questione…

Lo youtuber Lazaro Noguera ci mostra il metodo per far attecchire l’avocado in casa: sospendere il suo seme in un bicchiere, tramite l’impiego di tre stuzzicadenti. Ogni millimetro delle nascenti radici dovrà restare completamente sommerso per mesi.

Sapete quanta acqua serve per portare sulle nostre tavole soltanto un chilo di avocado? Circa 2.000 litri. Quattro volte quella necessaria per una quantità equivalente di arance. Dieci volte quella dei pomodori. E venti volte di più rispetto al cavolo comune. Ora, questo potrebbe non sembrarvi così terribile in teoria (quanta acqua viene utilizzata, dopo tutto, nella produzione industriale metallurgica e nel campo dell’energia idroelettrica) ma provate ora ad immaginare un simile dispendio, in regioni dal clima arido come l’entroterra del Messico, il Sudafrica o il Cile. Lavorare coi margini di guadagno tipici dell’agricoltura significa, in genere, investire una somma considerevole nel momento in cui si converte la propria produzione con un particolare obiettivo definito. Che può anche essere, per chi osserva le oscillazioni del pendolo alla base del mondo Occidentale, l’ultimo trend o moda dei nutrizionisti. Ma state pur certi di una cosa: praticamente nessuno, nei suoi principali paesi d’esportazione, considera l’avocado come un tipo di coltivazione che possa estendersi a tempo indeterminato. Troppe volte hanno visto i loro preziosi territori ridotti a distese sabbiose crepate dal sole, ormai prive di sostanze nutritive valide a sostenere la prossima generazione di alberi da frutto. Particolarmente emblematico, a tal fine, è il caso della provincia cilena di Petorca, considerata verso l’inizio degli anni 2000 come un polo estremamente redditizio della produzione mondiale di avocado, che si è vista progressivamente ridurre l’apporto idrico fino al letterale ridursi di ogni altro tipo possibile di coltivazione. Ma come affermato da Veronica Vilches, un’attivista intervistata dal Guardian, “Non sono mai le piantagioni a restare senz’acqua, bensì le persone”.
Una terribile verità, questa, che viene tranquillamente spinta ai margini della coscienza, senza influenzare le azioni di nessuno. Occorre considerare, in merito a questo, come l’industria degli avocado sia quasi interamente in mano a potenti conglomerati e società multinazionali, per la tendenza di tali frutti a richiedere uno impiego considerevole di uomini e risorse, pena il fallimento di un’intero ciclo di raccolto. Dal momento della semina, tanto per cominciare, gli alberi impiegano fino a 15 anni per raggiungere i 20 metri della loro età adulta e iniziare a dare un profitto, il che sottintende una base economica più che mai solida ed altri campi di guadagno su cui fare affidamento. Queste piante, inoltre, presentano un sistema di radici particolarmente esteso ed a poca profondità, il che le rende particolarmente vulnerabili al diffondersi di morbi, malattie e parassiti. La stessa raccolta dei frutti risulta infine troppo complessa e delicata perché possa occuparsene una macchina, rendendo preferibile l’impiego di ampie fasce della popolazione, prevedibilmente sottopagate al limite dello sfruttamento nella maggior parte dei luoghi geografici e circostanze.
C’è un altro problema, generalmente ignoto ed imprevisto da parte di molti, che dovrebbe condizionare il nostro consumo di avocado: la provenienza di molti frutti da zone sottoposte al tacco spietato della macro-criminalità. In modo particolare in Messico, dove molti ex-cartelli della droga hanno iniziato a riconvertire le loro piantagioni al seducente “oro verde” scoprendo non soltanto profitti comparabili o persino superiori, ma la serenità che deriva dall’esportare verso il resto del mondo un prodotto perfettamente legale. Ciò detto, senza aver abbandonato naturalmente i vecchi metodi, il che porta continuamente a conflitti per il territorio risolti con scontri a fuoco, estorsioni e una generale mancanza di riguardo verso le più basilari norme del vivere civile. Mentre l’acqua complessiva che ci resta, continuamente sottratta dal suo ciclo naturale, tende imperterrita a scivolare verso il totale esaurimento.

Nel contesto operativo dei cartelli agricoli messicani, significativa è stata l’esperienza della città di Tancítaro, fiera di auto-definirsi “capitale mondiale degli avocado”. Grazie alla costituzione di una milizia armata e numerosi posti di guardia, oggi essa opera come un’antica città-stato, difendendo con le armi il proprio diritto all’indipendenza nei commerci internazionali.

Rimuovendo dalla balestra l’ultimo dei miei dardi esplosivi, grido a Lucy di non entrare nel canyon. Troppo evidente sarebbe, in tal modo, il rischio di eventuali imboscate. “Ricevuto capo, sterzo a destra.” Mentre il fuoristrada si piega sulle sospensioni, mi aggrappo al cassone e getto un ultimo sguardo disperato verso le due colonne di fumo che emergono all’orizzonte: per fortuna, questa volta gli sgherri all’inseguimento non avevano armi automatiche o granate.
Un’altra giornata è trascorsa, un’altra missione portata a termine, nonostante il caro prezzo in termini di vite umane. Salvo ulteriori imprevisti, medito, dovremmo avere carburante sufficiente a ritornare alla base. Ed il popolo delle Pianure Dimenticate, almeno per quest’autunno, potrà mangiare? Allora chiudo per un attimo gli occhi, mentre penso per l’ennesima volta, sbuffando: “Interceptor! Aveva proprio ragione mia nonna. Avrei dovuto fare l’avvocato…”

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