L’uomo con la sfera d’acciaio proiettata nelle oscure profondità del mare

“…Percepisci, essere della superficie, la nostra sconosciuta irrealtà.” Forme danzanti ai margini del campo visivo, spettri luminescenti nelle tenebre senza fine, ormai prive di colore ed alcun punto di riferimento alla profondità di oltre 400 metri, tranne la potente lampada, proiettata attraverso lo spesso vetro in quarzo della terza finestra, al di fuori della curvatura del veicolo corazzato. Spinosi, bulbosi, zannuti esseri predatori. “Otis, li hai sentiti anche tu?” Aggrappato al corrimano interno, per non risentire dei colpi inferti dalle imprevedibili correnti sottomarine del mare delle Bermuda, il famoso naturalista ed esploratore William Beebe alzò momentaneamente la penna dal taccuino, per guardare in volto l’amico e collega, inventore materiale dell’ingegneristica contingenza che i due si trovavano a vivere, in quel drammatico momento. Intento a calibrare la valvola della bombola d’ossigeno per prolungare il tempo di funzionamento dell’impianto rebreather, l’interlocutore sollevò il volto comprensibilmente teso, mentre con la mano sinistra continuava ad agitare lentamente il ventaglio in foglie di palma, usato per garantire un’idonea circolazione dell’aria. “Sentito cosa?” Rispose dopo qualche attimo di esitazione, sospettando il peggio. Ma la voce di Otis Barton, inventore destinato a diventare un attore di Hollywood, sembrò impattare un’impenetrabile muro di gomma, tanto cadde nel vuoto riecheggiante dell’angusta camera d’immersione. “Si, si, continuate a parlare!” Esclamò invece l’esimio professore dalle mille pubblicazioni, che lui aveva convinto a seguirlo fin laggiù: “Tutti potranno conoscere, ciascuno dovrà sapere. Quanto indegni, ed inconsapevoli, siamo al cospetto dell’universo.” Sospettando una lieve ebbrezza per mancanza di ossigenazione, l’unico orecchio umano presente aprì del tutto la valvola. Giusto mentre un volto mostruoso, che neanche la sua stessa madre avrebbe potuto amare, appariva per fargli una smorfia infastidita all’altezza del suo sguardo, momentaneamente incapace di guardare altrove…
Anni ’30 o per meglio dire, estate del 1929: l’attimo sul percorso della storia in cui Barton, avendo letto sui giornali dell’apertura di un nuovo centro di ricerca oceanografico statunitense presso l’isola di Nonsuch nelle Bermuda, pensò di scrivere al suo direttore, rendendolo pienamente partecipe del suo principale progetto ed aspirazione. Effettive immersioni in profondità, in effetti, a quei tempi risultavano del tutto impossibili, con un massimo raggiunto di 160 metri grazie all’impiego della tuta da palombaro, mentre secondo la sua opinione sarebbe stato possibile ottenere fino cinque volte tanto, mediante l’impiego di uno specifico veicolo di sua esclusiva concezione. E di sicuro, il mondo non aveva mai visto niente di simile alla batisfera: 2,25 tonnellate (nella versione definitiva) per 1,45 metri di diametro, con uno spessore di 25 mm, attaccata ad un lunghissimo cavo d’acciaio e dotata di una serie di aperture che potevano essere chiuse mediante dei tappi semi-permanenti a seconda dei bisogni, affinché risultassero attentamente protette dall’immane pressione del mondo oceanico sommerso. Dopo un fortuito incontro organizzato da un amico comune, dunque, Beebe e Barton raggiunsero un accordo e la divisione delle spese, portando all’effettiva realizzazione dello strano veicolo entro l’inizio dell’anno successivo, dopo il la fusione e seconda colata dell’acciaio per un errore trascurabile nel calcolo del peso che l’aveva portato, sfortunatamente, ad essere semplicemente troppo ponderoso per qualsiasi argano navale. Entro maggio dell’anno successivo, quindi, il dispositivo poteva dirsi pronto ed a seguito di alcune prove tecniche, i due scelsero di fare una prima seria immersione alla profondità di 245 metri…

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Valutando il volo di una grande V nei cieli prossimi venturi

Tra tutte le consonanti e conseguenti lettere dell’alfabeto, oserei dire, non ne esiste una che sia maggiormente operativa, rapida e feroce della consonante labiodentale sonora [V] la cui pronuncia tende a comportare l’emissione d’aria ultra-veloce attentamente veicolata e fatta transitare tra la duplice membrana e quella solida barriera che protegge l’apertura della nostra bocca, composta da 32 candidi soldati sempre sull’attenti innanzi all’organo che li comanda, lingua umida che si contorce di continuo per parlare.
Ed è più di ogni altro questo, il metodo espressivo preferito dagli umani, che comporta la creazione di una serie di concetti tecnologici capaci di risolvere problemi, modificare i presupposti e i preconcetti di un particolare campo d’interessi. Vedi cosa, quindi esprimi: un Airbus A350-900, secondo i dati ufficiali, brucia tra i 5.000 e i 5850 Kg di carburante l’ora, qualificando in questo modo la maggior spesa di una compagnia aeronautica come la franco-olandese KLM. Postuliamo, a questo punto, che sia in qualche modo possibile ridurli del 20% o più, offrendo nel contempo un’esperienza di viaggio maggiormente confortevole ai passeggeri. Questa l’ipotesi quasi fantascientifica descritta, innanzi al gruppo d’insegnanti e i suoi colleghi, durante la discussione della tesi di laurea dal berlinese Justus Benad presso il politecnico di Delft, in Olanda, discussa nella sessione invernale del 2019 e intitolata “Analisi delle caratteristiche di volo di un’ala volante altamente piegata attraverso un test sperimentale”. Lunga espressione usata per riferirsi ad una serie di prove, effettuate nei dintorni di Amburgo, del suo modellino in scala raffigurante quanto, ben presto, avrebbe iniziato a comparire nei rendering promozionali della compagnia presso cui aveva effettuato il suo tirocinio. Capita talvolta, in effetti, che la prima occasione lavorativa offerta ad una persona carpisca il proverbiale fulmine in bottiglia, offrendo ad egli stesso e il mondo intero l’occasione di veder costruito qualcosa d’innegabilmente, eccezionalmente nuovo, archetipo rappresentato in pieno da quella che, per ora, tutti chiamano la (grande) [V] volante. Un aereo largo 65 metri e non un gioco di parole, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare dal modo in cui l’accostamento suona in lingua italiana, fondato effettivamente su una serie di scoperte aerodinamiche di notevole interesse. Prima tra tutte, quella che un aeromobile di tale inusitata forma possa risultare inerentemente migliore, nel far ciò che maggiormente riesce a definirne logica & funzione: attraversare i cieli della Terra, consumando la minore quantità possibile di risorse… Il che tende a sottintendere, per inciso, non soltanto il più costoso fluido necessario a farlo sollevar dal suolo, ma anche l’irrimpiazzabile ozono che protegge gli abitanti del pianeta dalla parte più pericolosa delle radiazioni solari. Il tutto a patto di abbandonare un certo numero di preconcetti, tra cui quello secondo cui un mezzo volante pensato per l’aviazione civile debba corrispondere, come i prodotti dell’evoluzione biologica, a un progetto sostanziale ed immutabile, composto da prua, coda, carlinga e un paio d’ali. Limite non tanto rigido e legnoso, quanto si potrebbe tendere a pensare…

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Specchi acustici e tromboni: la strana epoca del rilevamento aeronautico sonoro

Guardando con occhio critico ai conflitti bellici del secolo passato, apparirebbe assai difficile negare che sia stato un singolo fattore tecnologico, più di ogni altro, a cambiare le regole dei giochi: l’invenzione posta in essere, aprendo la grande porta del cambiamento, dai fratelli Wright a Kitty Hawk nel 1903, con la dimostrazione pratica che il volo a motore non era soltanto possibile, bensì un passaggio imminente ed obbligato dell’evoluzione ingegneristica umana. Per la prima volta, quindi, ogni distanza appariva teoricamente accorciata e questo fu ben presto vero in tempo di pace, così come al termine di una così auspicabile evenienza. Entro una decade ed un anno, quindi, con lo scoppio della Grande Guerra, per la prima volta apparve necessario fare i propri calcoli non solo sulla scala verticale, bensì mantenendo bene impresso nella propria mente come ogni bersaglio fosse raggiungibile, vulnerabile, pronto per conoscere la fiamma tempestosa di un bombardamento nemico. Bersagli come industrie o stabilimenti tanto sfortunati da trovarsi, geograficamente, nella parte meridionale della Gran Bretagna, e per ciò importanti nel massimizzar la già notevole potenza bellica ed operativa di una delle massime potenze europee. Non è dunque affatto un caso se, spostandoci in avanti di tre decadi, sarebbe stato proprio quel paese a dare forma funzionale al concetto di un rilevatore di sagome volanti, cariche di armi esplosive, grazie a un’idea dell’ingegnere e remoto discendente del creatore della macchina a vapore Robert Watson-Watt. Ciò che in meno scelgono di ricordare, o addirittura sanno, è che d’altra parte la necessità di operare su questa linea si era già concretizzata allora da parecchi anni, andando incontro a un tipo di soluzione al tempo stesso maggiormente ingenua, eppure per certi punti di vista, assai più affascinante: l’ascolto.
La nostra vicenda inizia nel 1915, con diversi insediamenti attorno alle foci del Tamigi e dell’Humber sottoposti a reiterati bombardamenti da quelli che nei fatti non erano ancora dei velivoli in senso moderno, bensì ponderosi dirigibili tedeschi della Zeppelin e Shutte-Lanz. Al che il comandante riservista Alfred Rawlinson, incaricato di difendere l’artiglieria antiaerea nella regione, venne in mente di costruire un apparato con due grandi corni di grammofono girevoli montanti su di un palo, idealmente capaci d’individuare il suono di un motore attraverso la nebbia e la foschia della brughiera, soprattutto di notte. Eventualità nei fatti mai davvero dimostrata, benché lui giurasse di aver costretto grazie ad esso almeno un aeromobile a sganciare il carico e ritirarsi. In epoca contemporanea, d’altra parte, la necessità immediata di opporre mezzi di rilevamento agli assalti volanti fu percepita ai massimi vertici dell’organizzazione militare britannica, portando al mandato conferito a un certo Prof. F. Mather del City and Guilds of London Institute di costruire uno “specchio” sulla facciata di una scogliera di gesso a Binbury Manor, tra Sittingbourne e Maidstone. Tale elemento architettonico, dal diametro di cinque metri, aveva la forma concava di una semi-sfera all’interno della quale si trovava un corno d’ascolto semovente, che l’operatore poteva far spostare mediante un sistema meccanico per percepire, auspicabilmente, l’arrivo di un velivolo nemico a distanze molto significative. Nonostante gli ottimi risultati in fase sperimentale, durante cui sarebbe stato possibile rilevare uno Zeppelin alla distanza di 20 miglia, l’esercito restò insoddisfatto delle prestazioni dell’apparecchio, a causa di quella che Mather avrebbe definito con stizza una “cronica incompetenza”. Ma il fulmine era fuoriuscito, a quel punto, dalla metaforica bottiglia e tutti avrebbero voluto, in qualche modo, rintracciarlo grazie all’uso del più adattabile tra i nostri strumenti di percezione sensoriale…

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Il nuovo sistema austriaco per costruire ponti “ad ombrello”

Nella maggior parte delle casistiche in cui un’impresa ingegneristica appare finalizzata all’immagazzinamento d’energia potenziale, l’obiettivo finale consiste normalmente nel re-impiego futuro di tali risorse, al fine di risolvere, concludere o restituire al mondo una situazione di quiete esistenziale. Unica eccezione a tale assioma, d’altra parte, risulta essere la costruzione di un ponte: criticità continuativa, precaria per definizione, mirata ad installare una struttura costruita dagli umani in quel particolare stato in essere, dell’aria priva di un appoggio, in cui normalmente non potremmo certamente camminare; figuriamoci, del resto, far passare le automobili del nostro spostamento quotidiano. Luoghi non dissimili, nei loro presupposti, dal particolare transito asfaltato della superstrada Fürstenfelder S7, recentemente (2018) costruita tra Graz e Budapest ma fino all’altro giorno priva, per grande sfortuna di ogni suo utilizzatore, di un punto di passaggio in asse sopra il fiume dell’omonima riserva naturale Lafniz, costringendo a fastidiose lungaggini e deviazioni. Almeno fino al coinvolgimento nel progetto del Prof. Dr.‐Ing. Johann Kollegger dell’Institut für Tragkonstruktionen (Istituto Strutture di Supporto) dell’Università tecnica di Vienna, a fronte dell’idea lungamente proposta e dimostrata dal suo dipartimento: la messa in opera, sostanzialmente verticale, di un ponte. Risposta ad un problema certamente noto agli ingegneri dei nostri tempi: come porre in essere qualsivoglia struttura di una certa ambizione quando mancano i presupposti, o come in questo caso i permessi ambientali, di disporre l’ingombrante supporto provvisorio della centina? Ovvero quel supporto o impalcatura, in uso almeno fin dal tempo dei Romani, usato per mantenere in stato di essere una trave a mensola prima che il pilone successivo possa dirsi, a tutti gli effetti, completato. Una domanda la cui risposta sembrerebbe scaturire dal mondo di uno degli oggetti di uso comune tra i più utili, da noi usato per deflettere le precipitazioni provenienti dagli strati superiori dell’atmosfera: ombrello che protegge, ombrello che sovrasta e ombrello, soprattutto, in grado di richiudersi ed aprirsi nuovamente in caso di necessità. Un movimento frutto di un principio meccanico, quest’ultimo, inerentemente capace di essere applicato su una scala superiore, fino a quella qui impiegata di 72 metri per 54 tonnellate, sostanzialmente il peso unitario delle due metà di una delle travi di sostegno per la costruzione dell’utile viadotto fluviale. Unite tra di loro nella sommità, ai fini architettonici preposti, da una giunzione flessibile al vertice di quella che potremmo associare, idealmente, alla perfetta rampa di lancio di un missile puntato verso il cosmo siderale. Almeno fino a che, un poco alla volta, gli elementi idraulici di sollevamento non vengono inclinati verso l’esterno, portando all’apertura, perfettamente metaforica, di quanto avrà il compito di sostenere, tanto a lungo, la viabilità locale. Und es ist einfach herzustellen: ponte pronto in poche ore. Sulle note stranamente adatte della celebre canzone Singing in the Rain

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