L’inviolabile anello che seppe tenere i tatari fuori dalla Moldavia

Un buon castello dovrebbe costituire un richiamo irresistibile per il nemico, al punto che marciare oltre senza tentare di conquistarlo sarebbe del tutto inconcepibile, nel proseguimento della propria campagna militare. Perciò è importante la collocazione, ma anche il significato concettuale, spesso esemplificato dall’importante componente dell’aspetto esteriore. Impressionante, poderoso, in qualche modo memorabile e proprio per questo impossibile da tralasciare, assieme al territorio che è stato posto a proteggere con la sua architettonica presenza. E sebbene sia difficile capire fino a che punto tali considerazioni possano aver influenzato, a suo tempo, l’iniziativa di fortificazione in legno gestita a suo tempo dal sovrano moldavo Ștefan III cel Mare “Il Grande” verso la fine del XV secolo, quando stazionò una guarnigione permanente presso l’antico porto fluviale genovese di Olchionia, non ci sono dubbi che suo figlio Petru IV, salito al trono nel 1527, avesse deciso di rendere la fortezza di Soroca un importante punto di riferimento nazionale. Affinché qualsiasi barbaro invasore proveniente dai vicini territori dell’odierna Ucraina dovesse necessariamente scontrarsi con la necessità, pratica e ideologica, di scardinare le alte mura che aveva ricostruito con la dura pietra di marna, poste strategicamente in corrispondenza di un importante guado del fiume Nistra. Ignoto resta, d’altra parte, l’origine di questo nome che avrebbe anche potuto provenire dall’espressione Sărac (povero) oppure Soroc, che significa “40” in Russo. O ancora essere l’evoluzione linguistica della parola usata per riferirsi a un gruppo di boiardi o feudatari con il compito di rifornire di cibarie o vettovaglie un singolo signore. La cui effettiva identità non ci è stata trasmessa, visto come i primi conflitti collegati all’uso militare di questo complesso vadano a scomparire nella leggenda. Vedi il racconto sui soldati del voivoda che, ritiratosi tra queste mura mentre fuggivano dai tatari della Crimea, erano rimasti sotto assedio per un periodo sufficientemente lungo da giungere a patire la fame. Finché all’improvviso e miracolosamente, una cicogna bianca posò le sue zampe nel cortile interno, trasformandosi per magia in una bambina vestita dello stesso colore, che iniziò a distribuire grappoli d’uva ai difensori rimasti ormai del tutto privi di speranza. Il che avrebbe permesso, per fortuna, di sollevare il morale e recuperare le forze abbastanza da resistere a un ultimo assalto del nemico, salvando il paese dai saccheggiatori. La prima storia connessa ad un personaggio storico successivamente a tali eventi vede quindi il famoso erede del trono nazionale e feroce guerriero Ioan Potcoava Pidkova, detto “il ferro di cavallo” (perché pare che potesse piegarne uno a mani nude) passare più volte per queste terre durante le sue campagne militari in Polonia, al culmine delle quali sarebbe stato catturato e decapitato a tradimento dagli alleati politici di suo fratello e successore, Pietro VI Chiopul (“lo zoppo”). Il conflitto tra i due grandi paesi dell’Est Europa avrebbe quindi avuto seguito per molte generazioni, fino all’alleanza militare della Moldavia con l’Impero Ottomano all’inizio della guerra del 1683, culminante con l’assalto del 1692 degli eserciti della Santa Lega costituita sotto l’autorità del Commonwealth Polacco-Lutuano, proprio nei confronti del castello di Soroca, dove l’abile comandante militare Ksistof Rape seppe respingere le forze congiunte di alcune delle principali potenze della sua Era. Mentre sarebbe stato proprio il re e famoso guerriero di Polonia John III Sobieski, poco meno di 10 anni dopo, a difendere lo stesso castello contro le truppe del sultano turco, in una battaglia destinata a cementare il suo ruolo di possente difensore della cristianità. Potendo anch’egli fare affidamento su alcuni caratteri strutturali e particolari accorgimenti, tali da rendere la fortezza di Soroca una delle più possenti ed inviolabili in quest’epoca di cambiamenti militari significativi, e nonostante l’introduzione della polvere da sparo…

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La città che regola l’orologio in base alla direzione in cui scorre il fiume

La piccola comunità urbana di St. John, nella regione del Nuovo Brunswick, presso la punta occidentale del Canada e a ridosso dell’isola di Nuova Scozia, è tagliata letteralmente in due da una profonda gola. Scavata nel suolo roccioso dalle acque del fiume omonimo, che sorge in Maine per poi estendersi verso settentrione e poi puntare nuovamente verso meridione, passando per questo tratto vorticoso particolarmente celebre per la sua capacità di attirare le foche. Che nei periodi di alta marea si spingono nell’entroterra, risalendo energicamente il canale naturale, per poi attendere qualche ora mentre si rilassano e catturano i pesci che transitano da quelle parti. Finché verso la metà del pomeriggio, gradualmente, il flusso del fiume inizia a rallentare e poi si arresta del tutto. E dopo il passaggio di qualche minuto di pregna aspettativa, inizia a scorrere nel senso diametralmente opposto. Vortici si formano tra le diverse insenature, gorghi e rapide insensate. Mentre i pinnipedi, venendo trascinati in una sorta di appassionante Luna Park, compaiono e scompaiono, s’inabissano per poi tornare a galla più entusiaste di prima. A dire il vero, potrebbero pensare eventuali osservatori dal ponte sospeso posto a 41 metri d’altezza, sembra proprio che si stiano divertendo. D’altra parte, chi potrebbe mai riuscire a dargli torto? Di luoghi come questo, ce ne sono pochissimi al mondo. Senza neppure avventurarsi ed entrare nel merito di come, nel complesso, nessuno possa evidenziare la portata del fenomeno nella stessa misura delle appropriatamente denominate Reversing Falls. L’idraulica effettiva conseguenza di una quantità d’acqua stimata attorno ai 100 miliardi di litri, che ogni giorno abbandonano temporaneamente l’Oceano Atlantico per fare il loro ingresso in questo golfo totalmente al di fuori dell’influsso delle grandi correnti. Poi tornando, senza falla, di la da dove erano venute. Il che tende a fare un certo effetto sulle naturale aspettative della fisica, inclusa quella largamente nota secondo cui le cose fluide dovrebbero tendere a scorrere in direzione del mare, almeno per la maggior parte del tempo. Mentre vige qui la regola per cui ciò avvenga, in modo sostanziale, esattamente il 50% delle volte, mentre per il rimanente segmento dell’arco quotidiano tende a verificarsi l’opposto; un fenomeno già noto agli abitanti ancestrali di questi luoghi, le tribù indigene dei Mi’kmaq, molto prima della venuta dei coloni europei. Che qui collocavano una delle avventure più memorabili del loro Dio e Creatore Glooscap, il quale si trovò a combattere in mezzo ai flutti il castoro gigante che aveva bloccato il fiume. Riuscendo infine a scacciarlo, per poi colpire con una grande mazza la diga che aveva orgogliosamente costruito e lanciarla a molti chilometri di distanza fino alla baia antistante, dove si sarebbe trasformata nell’isola di Partridge. Dando inizio alla vendetta di questa versione nordamericana del mostro di Scilla, antico divoratore delle navi. Ma sarebbe stato l’esploratore francese Samuel de Champlain, all’inizio del XVII secolo, a dare per primo una spiegazione ragionevolmente scientifica del flusso diseguale delle rapide, coniando per riferirsi ad esse il toponimo francese di Chutes réversibles. Ora esiste una teoria effettiva secondo cui un tempo, quando il ghiaccio resisteva in quantità maggiore sulla cima delle montagne a causa di temperature in media più fredde, questo segmento del fiume ospitasse effettivamente una cascata. Grazie al complicato sistema di mensole e declivi che si trova nascosto sotto le acque spumeggianti, tale da incrementare ulteriormente il comportamento erratico della corrente. Persino quando, nei mesi primaverili ed a causa del grande afflusso del freshet (ghiaccio liquefatto) la corrente smette d’invertirsi due volte al giorno. Costringendo gli abitanti di St. John, finalmente, a studiare più frequentemente le lancette dell’orologio…

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Il surreale tempio della pesca al pesce persico nella seconda più imponente piramide americana

La testa tonda dell’uccello rosso disegnò un arco elegante verso l’acqua del suo sacro abbeveratoio, inducendo il parziale capovolgimento del suo corpo sottile. “Glub!” Si udì il potente suono del bicchiere, nel silenzio delle vaste sale della Storia. Poi di nuovo, “Glub…Glub!” Come il passo di un metronomo, sincronizzato col rintocco della progressione logica degli eventi, sotto gli occhi attenti dell’umanità in attesa. Al completare della prima oscillazione, Cheope con la sua regina, laboriosamente sottoposti al trattamento che gli avrebbe dato l’immortalità. Mummie, per i posteri allibiti. Ed al compiersi di quattromila rotazioni ed oltre, nuovamente, l’alta punta trova una collocazione verso il Sole che da la vita. Siamo a Memphis, Tennessee, a novembre del 1991. Per una versione geometrica che fosse alta 98 metri e con 180 di lato, come dai disegni architettonici prodotti dallo studio Rosser Fabrap International. Mentre il volatile in questione, per comprendere il contesto, è il giocattolo ricreato ed adattato ai tempi moderni da John Tigrett, uno degli imprenditori più importanti collegati alla storia di questa città. La cui creazione potreste anche ricordare come addetta brevemente, suo malgrado, della sicurezza nucleare della centrale di Springfield senza il suo caratteristico bicchiere, in una memorabile quanto apocalittica puntata dei Simpson. E così l’uccello con il contrappeso liquido in metilene nella sua parte posteriore, portato a riscaldamento e conseguente ebollizione dalla semplice temperatura ambiente, avrebbe accelerato il proprio movimento nel prosieguo degli anni a venire: la prima volta per i molti tornei di basket della prima mezza decade sotto l’egida della piramide in questione, sebbene la squadra locale dei Grizzlies avrebbe ben presto chiesto e trovato la costruzione di uno stadio molto più convenzionale nel FedEx Forum. Glub! E poi nel 1995 e 1997, per i concerti dei Grateful Dead e di Mary J. Blige. Ma tutti convennero che l’acustica non era perfetta: di sicuro, le antiche tombe egizie non furono pensate come arene musicali. Glub! Il che non avrebbe impedito ai Rolling Stones, nel 1999, di suonare al suo interno. Esattamente tre anni prima di quando Lennox Lewis e Mike Tyson, nel 2002, giunsero tra queste mura oblique per combattere il più grande match nella storia della pay-per-view (fino a quel momento). Ed i giganti combatterono sotto gli spalti gremiti. Mentre la città tentava, disperatamente, di trasformare il sito eclettico in un luogo in cui condurre straordinari eventi. Eppure nonostante un simile successo, la gestione dell’edificio aveva ormai per la città un passivo di 200.000 dollari l’anno. Qualcosa andava fatto, e il prima possibile. Le grandi porte di quel mausoleo vennero chiuse. Per quanto fu possibile determinare nell’immediato, avrebbero anche potuto non riaprire mai più.
Il fatto è che la seconda città più popolosa dello stato del Tennesse con i suoi oltre 600.000 abitanti, tra cui figurò anche la monumentale figura di Elvis Presley, risulta essere nonostante le significative disuguaglianze sociali anche uno dei principali centri industriali del sud degli Stati Uniti, situata presso un vero crocevia di poli di smistamento logistici ed organizzativi. Ed in quanto tale assai potenzialmente meritoria, per qualsivoglia venture commerciale o infrastrutturale su vasta scala. Così come aveva fatto ben comprendere in origine l’artista locale Mark C. Hartz, quando nel 1954 portò di fronte al concilio cittadino il progetto per tre piramidi affiancate al corso del fiume Mississippi, che potessero costituire uno dei principali punti di capaci di evidenziare sulla mappa questo piccolo ritaglio d’Egitto all’altro lato dell’oceano stesso. Idea giudicata poco pratica, almeno finché tre decadi dopo, suo figlio Jon Brent non seppe realizzare un rendering particolarmente affascinante, in cui l’edificio era diventato soltanto uno, splendido e lucente nel suo rivestimento esterno in vetro dorato. Tutto quello che serviva, a questo punto, era un finanziatore ed a tal punto questa idea aveva colpito i cuori del pubblico, che fu possibile individuarne ben due: il primo era il già citato John Tigrett, padre tra l’altro di Isaac, fondatore della celebre catena di ristoranti Hard Rock Cafe. Ed il secondo Sidney Shlenker, proprietario della squadra di basket dei Denver Nuggets e diverse compagnie mediatiche d’intrattenimento. Che voleva includere all’interno dell’edificio anche un museo della musica (naturalmente dedicato ad Elvis) ed un parco divertimenti, se non che il prematuro esaurimento dei suoi fondi, oltre ai disaccordi con il partner d’affari, avrebbe visto prevalere la visione prevalentemente sportiva di Tigrett. Ciononostante, le originali promesse non si sarebbero mai potute realizzare. Portando, piuttosto, ad un qualcosa di radicalmente differente per portata e funzionalità evidenti…

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Quando le mucche voleranno: non è un’iperbole, ma la fedele descrizione dello Hoatzin

Ogni essere dotato di quattro arti, una testa ed una coda, può essere oggettivamente inserito nell’insieme dei terapodi ed a seguito di questo, manifestare un potenziale persistente. Quello di tornare, per le vie traverse dell’evoluzione, allo stato primigenio di un quadrupede, inteso come la creatura che deambula mediane l’uso di ciascuno dei suoi arti, usati di concerto come ruote della stessa locomotiva. Tutto quello che gli serve, per riuscirci, è avere il giusto tipo di pressione evolutiva, per un tempo sufficientemente lungo tra le strade serpeggianti della Storia. Così siamo soliti affermare che gli uccelli “discendono” dai dinosauri, poiché mantengono talune caratteristiche che corrispondono all’antica stirpe dei giganti ormai scomparsi. Il che si applica nel 99% dei casi, ovvero 9.999.999 su un milione, escluso quello di un particolare uccello sudamericano. Che potremmo definire, per l’unione di questi due princìpi, figlio dell’archaeopteryx e di Lola, il candido bovino che faceva la pubblicità in Tv. Opisthocomus hoazin il suo nome ufficiale, e non chiamatelo un “fossile vivente” (a quanto pare, lo fanno tutti) vista la sua confermata appartenenza al clade dei Neoaves, uccelli che si sono sviluppati in epoca relativamente recente. Sebbene sia ragionevole affermare (di nuovo, è piuttosto comune) che la sua divergenza dal tronco principale di una simile categoria sia avvenuta in epoca remota, vista l’univoca corrispondenza di questa singola specie, genere e famiglia, senza dirette corrispondenza a genìe più prossime, avendo lasciato gli scienziati a discuterne per generazioni. Fin all’epoca della sua prima scoperta e descrizione ad opera del tedesco Statius Müller nel 1776, che fu il primo ad annotare lo strano aspetto, comportamento, dieta e abitudini riproduttive di questo volatile venuta da una potenziale dimensione parallela. Letterale punk dell’Orinoco e delle Amazzoni, il cui nome latino significa per l’appunto “cresta eretta all’indietro” mentre la rimanente parte è assai probabilmente la trascrizione spagnola dell’onomatopea in lingua dei Nahuatl “uatzin“, idealmente corrispondente al suono del suo riconoscibile verso. Un’attribuzione tra le più superficiali nei confronti di una creatura che, per caso o l’effettiva legge di natura, esiste in questo mondo senza un’evidente soluzione di continuità. Vedi la sua notevole prerogativa più effettivamente e propriamente bovina, di poter mettere in atto il piano nutrizionale tipico dei ruminanti.
Già, è piuttosto facile individuarlo, in particolare aree del Brasile, Perù e Guyana, dove lo hoatzin risulta essere abbastanza comune da comparire in folte schiere volatili, con un comportamento gregario che ricorda vagamente quello del nostro comunissimo piccione. Pur essendo sensibilmente più grande, di color marrone fatta eccezione per la testa glabra e blu, dotata di occhi rossi e tondi. E con una lunghezza di 65 cm che lo pone a metà tra un pollo ed un fagiano, nonché una morfologia vagamente corrispondente al secondo, soprattutto in funzione della grande coda apribile a ventaglio. Mentre mastica con enfasi e concentrazione, grandi quantità di foglie e teneri virgulti, per un periodo che potremmo individuare come un buon 90% della sua intera giornata. Di nuovo alla maniera del più grande e familiare degli animali della fattoria, e mediante l’impiego di un artificio biologico che ad esso corrisponde: il possesso, nel proprio organismo, di una formidabile famiglia di batteri, capaci di distruggere la parete cellulare delle piante. Incrementando nettamente la quantità di calorie e l’apporto energetico guadagnabile dalla suddetta materia, se non la gradevolezza del suo particolare e ben riconoscibile odore…

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