La più rischiosa forma di aeromodellismo al mondo

Non c’è niente di più tranquillo, giusto? Nulla di maggiormente rilassante, alcuna cosa ancor meno imprevedibile o adrenalinica, che costruire un piccolo aeroplano in legno di balsa, plastica o polistirolo, e farlo decollare sulle proprie forze grazie all’energia di quel motore, con pratico telecomando alla mano. Quando le profonde delusioni di una settimana di lavoro, lo stress o l’ansia per le scadenze di svariata natura, sembrano svanire al suono ritmico del nostro piccolo amico che taglia il cielo, mentre noi, doppia levetta sotto i pollici, ci immaginiamo a bordo per sperimentare un tale senso di leggiadria. È indubbio tuttavia che un po’ alla volta, col sovrapporsi delle singole esperienze, ogni senso di svago finisca per sbiadire all’orizzonte, mentre l’episodio preferito si ripete ancora e ancora, lasciando sopraggiungere la noia nel cuore degli appassionati. Ed è allora che l’utente, come sua prerogativa, inizia subito a cercare “di più”; aeroplani sovradimensionati, motori più potenti, traiettorie più vertiginose. Fino all’estremo di un modellino che non deve più rappresentare nulla, se non il supporto per un pulsoreattore dimensionato, concettualmente non dissimile da quello un tempo montato sulle bombe a razzo tedesche V-2. Già, ma come sarebbe mai possibile controllare una cosa simile, ai ritmi rallentati di quello che comunque resta un segnale radio propagato attraverso l’aere, mentre il piccolo bolide ti gira attorno alla velocità di circa 320 Km/h? La risposta è che c’è modo. E modo. Nell’epoca dell’IA galoppante, droni fluttuanti ed automobili automatiche, sarebbe sempre possibile dotare l’aeroplanino di un suo cervello autonomo, capace di limitare gli input e prevenire qualsivoglia manovra inappropriata. Ma dove sarebbe allora, il divertimento? Quale fine faremmo fare al bisogno umano di sentirsi coinvolti, percepire i movimenti dalle vibrazioni del nostro sedile virtuale? Ecco perché, sopratutto in determinati contesti operativi, gli aspiranti piloti preferiscono talvolta guardare indietro, ed in particolare verso quella che potrebbe rappresentare, nei fatti, la forma più antica di aeromodellismo radiocomandato. Ma forse sarebbe più giusto dire “filocomandato”. Consistente, in parole povere, nell’assicurare al suddetto proiettile alato una certa quantità di cavi da tenere saldamente in mano, usati al tempo stesso per limitarne i movimenti allo spazio di una semisfera, e intervenire in maniera straordinariamente diretta sulle sue diverse superfici di controllo. Si, avete capito bene: stiamo parlando di una sorta di aquilone. Uno che raggiunge tuttavia, esattamente un quarto della velocità del suono.
In questa ripresa dei campionati nazionali della BFMA (British Model Flying Association) è possibile osservare il funzionamento del cosiddetto Dreadnaught, modellino creato da un partecipante rimasto purtroppo senza nome (a meno, per quanto ci è dato di comprendere sul web) e digitalizzato su memory card, non senza un certo grado di coraggio, da parte di Dominic Mitchell del canale YouTube Essential RC. E sia chiaro che non sto per nulla esagerando, quando alludo allo sprezzo del pericolo di questo appassionato cameraman, che si è posto a pochi metri distanza dalla portata massima del folle aeroplanino, il cui suono roboante va di pari passo con lo spostamento di molto superiore a quanto possa trovare corrispondenza nel mondo animale terrestre. Il tutto mentre il costruttore-pilota, posizionato al centro dell’arena, ruota in modo cadenzato attorno al paletto verticale, al quale per precauzione è stato assicurato il bolide, previo eventuale perdita della presa sui cavi, con conseguente partenza dello stesso a mo’ di proiettile mostruosamente distruttivo. Eppure, le misure di sicurezza non possono che apparire, dal nostro punto di vista, drammaticamente insufficienti. Il teatro operativo, in realtà un grande spiazzo asfaltato che potrebbe anche appartenere a un aeroporto privato, presenta l’unica protezione di una recinzione reticolare piuttosto bassa, sopra quale l’aeroplano può librarsi con estrema facilità. E sarebbero fin troppo facili da immaginare, le conseguenze nefaste di un eventuale perdita di controllo o rottura dei sistemi rilevanti, sopratutto se un malcapitato dovesse trovarsi, con la il suo teschio, sul sentiero accidentalmente scelto dall’apparecchio per entrare a pieno titolo nel Valhalla degli aeroplanini disintegrati….

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Quasi pronto l’hotel di lusso scavato nel fosso di una miniera

Nella concezione della cosmogonia dantesca di Paradiso, Purgatorio ed Inferno ciascuno dei tre recessi dell’aldilà cristiano presenta una forma fisica che allude alla sua funzione. Così che i cieli dell’Empireo, che circondano la Terra alla distanza dei diversi pianeti, sono degli sferoidi concentrici sovrapposti, ciascuno adibito ad ospitare le anime dei probi e dei santi, mentre la grande montagna nell’emisfero meridionale, luogo d’espiazione semi-permanente del tempo, si protende verso l’origine di Tutto, ovvero il giardino sopraelevato dell’Eden con il suo albero di mele. Ma da che esiste la critica letteraria, è il profondo cono a gradoni scavato da Satana in persona, punto culmine di ogni tortura immaginabile, ad affascinare maggiormente gli studenti di scuola, con il suo vivido senso di crudele surrealismo, filosoficamente ricco d’implicazioni. Poiché stiamo parlando, concettualmente, della stessa identica cosa: una progressione verticale protesa verso l’estremo, ovvero in questo caso l’incandescente nucleo terrestre già immaginato dal grande poeta, dove i più grandi traditori della storia soffrono, masticati dall’anti-Dio in persona. Scendere o salire attraverso una pluralità di strati sovrapposti: che cosa cambia, fondamentalmente? Entrambi i gesti possono costituire la parte iniziale di un viaggio, a cui fa seguito il soggiorno in un luogo precedentemente inesplorato. Ed a ben pensarci non c’è una vera ragione, per cui la salvezza debba trovarsi in alto, e la sofferenza nelle bibliche viscere della Terra. Già: preconcetti acquisiti, di una linea di ragionamento per lo più occidentale. Mentre proviamo, di contro, a spingerci ancora una volta in Oriente, o per essere più specifici presso la cittadina di Songjiang, 50 Km a nord dal centro della grande città di Shangai. Dove procedendo lungo la lunga strada di Chen Hua, sarà possibile scorgere le svettanti forme di quegli apparati gialli che caratterizzano e distinguono ormai da generazioni il terzo paese più vasto del mondo: la gru edilizia, simbolo di un’espansione continua delle infrastrutture e le costruzioni architettonica. I più attenti alla questione allora noteranno, non senza una certa perplessità, l’apparente assenza del quibus, ovvero lo scheletro del relativo palazzo in costruzione. E sia chiaro che questo stato sussiste, ormai, da un periodo di circa 4 anni. Che cosa stiamo vedendo, dunque? Un vecchio deposito per cantieri dismessi? Dove l’attrezzatura, piuttosto che giacere a terra, è stata montata e poi lasciata lì per capriccio, ad allietare con la sua presenza i 24 milioni di abitanti della sola ed unica Parigi d’Oriente? Non proprio… Basta in effetti parcheggiare la macchina ed avvicinarsi, per iniziare a scorgere qualcosa d’inaspettato. La maniera in cui, all’ombra dei macchinari di sollevamento, inizia l’apertura di un baratro vasto e profondo, all’interno del quale, con somma sorpresa di tutti, si trova un’avveniristica struttura. Abbarbicata con la sua insolita forma ad S lungo quelle che dovrebbero essere pareti scabre e scoscese, con una facciata per metà convessa come una ruota di camion e l’altra geometricamente concava in modo da ricordare un anfiteatro, lo Shimao Wonderland Intercontinental si “erge” per tutti e 100 i metri di profondità dentro il buco, ed ulteriori due piani sommersi all’interno della pozza d’acqua che si trova sul fondo. Sembra proprio di trovarci dinnanzi a una base segreta costruita sulla Luna o su Marte dalla Federazione, poco prima della ribellione contro l’egemonia del tirannico Impero Terrestre.
Ora, chi fosse giunto in questo luogo prima dell’anno 2000, si sarebbe trovato dinnanzi a una scena notevolmente diversa. Poiché il fosso in questione non era affatto un prodotto spontaneo della natura, bensì l’inevitabile risultanza di una fiorente industria dell’estrazione mineraria, particolarmente proficua in questi luoghi per i ricchi giacimenti di carbone, ferro e metalli preziosi. A così poca distanza dal tentacolare dalla capitale economica e commerciale della regione, avremmo dunque fatto la nostra conoscenza con ruspe, camion ed altro equipaggiamento similare, intento ad entrare in intimità con le propaggini superiori dei succitati, diabolici recessi. Ricchezza, profitto, successo aziendale. Fino all’inevitabile esaurirsi del giacimento, e poi… Nient’altro che il buco. Qualcosa in grado di compromettere in maniera sensibile, con la sua antiestetica presenza, il valore immobiliare di un vicinato. Ciò almeno che a qualcuno, d’improvviso, non venga l’idea di trasformare il difetto in un punto di forza. Attraverso  l’applicazione di quella corrente tecnologica del rinnovamento, la possente architettura d’avanguardia…

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Breve lezione dal campione del mondo di aerei di carta

Una caratteristica estremamente rilevante nel mondo degli aerei di carta competitivi, probabilmente inaspettata da parte di molti, è la propensione dei record mondiali a durare anni, ed anni, ed anni. Piuttosto che trattarsi di un campo in cui l’ultimo arrivato, con un colpo di fortuna fulmineo, può riuscire a superare la concorrenza, qui contano principalmente l’attenzione ai dettagli, l’esperienza e la precisione acquisita attraverso un lungo percorso individuale. E in effetti quando nel 2012 l’aeroplano “Suzanne” di John Collins, attuale detentore del record assoluto di distanza, percorse i 69 metri che l’avrebbero fatto atterrare dritto nella storia di un simile… Sport? Ciò avvenne spodestando Stephen Kreiger, che deteneva il primato a partire dal 2003. Stiamo parlando di una media di 8-9 anni, praticamente un’eternità per quello che dovrebbe essere, nell’ideale comune, un semplice passatempo per bambini. Ma la pura vittoria dei numeri non fu l’unico spunto d’innovazione che venne espresso quel giorno. L’aeroplano costruito dall’allora cinquantunenne di Sausalito, in California, fu il primo vincitore di un record mondiale a non essere più concepito come una sorta di freccetta lanciata con forza alla stregua di una pallina aerodinamica, al fine di penetrare l’aria e giungere, auspicabilmente, là dove nessuno era arrivato prima. Trattandosi questa volta di un aliante dalle ampie ali, in grado di sfruttare il mutamento progressivo della velocità di volo per incrementare il tempo di sospensione in aria. Inoltre, questione destinata a far discutere molto negli anni a venire, Collins decise di non lanciare personalmente il velivolo, affidandosi piuttosto alle doti di un quaterback del football universitario, Joe Ayoob, noto per i suoi passaggi estremamente svelti ed efficaci. Una scelta che venne ufficialmente criticata dal suo rivale, ingegnere di 23 anni, il quale si era allenato per un intera estate incrementando la massa muscolare del braccio destro, con grande fatica e sacrifici continuativi nel tempo. Eppure, il comitato decise di dare ragione a sistema dello sfidante: la ragione va ricercata nel significato stesso che si dovrebbe attribuire agli aerei di carta. Non è forse vero che essi costituiscono, o dovrebbero principalmente costituire, una prova delle capacità di progettazione? Laddove l’esecuzione, per così dire, della teoria empirica, sarà necessariamente la piegatura del foglio di carta stesso. Mentre il lancio introduce in se stesso un’ulteriore barriera, quella delle prestazioni fisiche, che non ha effettive corrispondenze nel mondo reale del volo.
Ad aver aiutato nell’attribuzione del premio deve aver senz’altro contribuito il carisma innato di Collins, noto per aver lavorato, parecchi anni fa, come presentatore televisivo e per le molte conferenze e lezioni tenute nei contesti più diversi, dalle scuole elementari ad alcune delle più grandi e prestigiose università statunitense. Con uno stile pacatamente entusiastico che riemerge ancora una volta, in tutto il suo fascino, nell’intervista rilasciata verso la fine del mese scorso alla rivista Wired, nella quale ci espone, in maniera semplice e chiara, la metodologia per ricreare tre dei suoi progetti più famosi: il Boomerang, un aereo capace di ritornare da colui che l’ha lanciato, il Bat Plane, che batte le sue ali durante il volo come un pipistrello e ovviamente il Suzanne, dal come di sua moglie, l’aereo capace di raggiungere il bersaglio in fondo al corridoio di qualsiasi scuola, non importa il numero degli studenti. E c’è qualcosa di profondamente spontaneo, nel modo in cui l’autore da ad intendere attraverso il suo sito ufficiale di appartenere alla nuova cultura dei makers, “costruttori di cose”, senza per questo mettersi su un piedistallo al di sopra di passatempi moderni fin troppo spesso criticati, vedi i videogiochi, Internet e gli smartphone. Affermando piuttosto come l’attività da lui praticata e promossa da così lungo tempo dovrebbe affiancare le altre, come via d’accesso privilegiata al metodo scientifico, e tutto ciò che questo comporta nel modo di affrontare le piccole sfide quotidiane della vita. Aeroplani che richiedono dedizione, dunque, ma anche creatività e fantasia. Lui stesso afferma come i suoi allievi a distanza non dovrebbero copiare pedissequamente i contenuti dei video o degli svariati libri precedentemente pubblicati, quanto modificarne le proposte al fine di costruire un qualcosa di ancora migliore. Nella speranza programmatica, per lui fondamentale, di vedere il celebre record prima o poi superato. Poiché questo non sarebbe altro che l’apice, di una lunga e riuscita carriera in un campo tra i più eclettici e al tempo stesso, divertenti…

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Lo scomparto segreto del tavolo automatico da Mahjong

Non tutti i giochi nascono uguali: ve ne sono di placidi ed eleganti, fatti di movenze cadenzate accompagnate da ritmi lenti. Mentre altri sono frenetici, dominati dalla cacofonia dei suoni e il vocìo dei loro partecipanti. E ci sarebbe molto da dire, sul caratteristico stile dei giocatori di Mahjong o Mah Jong (麻将) il gioco che ha avuto origine durante la Cina della dinastia Qing (1644-1912) per poi espandersi e conquistare tutta l’Asia Orientale, seguìta dagli Stati Uniti e in tempi più recenti, persino determinate regioni d’Europa. La maniera in cui le tessere in legno, metallo o resina (un tempo si usava l’avorio) facenti funzione delle carte da gioco nostrane, sbattono sonoramente tra di loro, mentre i giocatori chiamano in a gran voce i loro tris, kang e le combinazioni supreme, chiamate onori. Qualcuno potrebbe persino affermare che la caratteristica modalità d’interazione che fa parte della cultura di quel paese, in qualche modo, abbia colorato e modificato il senso di questo gioco, rendendolo un portale di accesso per un modo di essere che fondamentalmente, non ci appartiene. O in qualche maniera non riconosciamo. Così che risulta essere piuttosto raro, nonostante la sua popolarità, trovare questo gioco all’interno di un Casinò dell’Asia. Almeno, per ora: poiché come in qualsiasi altro campo, potrebbe venirci in aiuto la tecnologia. Che semplifica ed elimina, talvolta, i problemi, come quello altamente caratterizzante di una partita con i 144 parallelepipedi, nel corso della quale al termine di ogni mano, occorre ripristinare il muro. Che non è tanto una divisione difensiva tra i popoli come quella costruita, a suo tempo, dai fedeli sottoposti del primo imperatore, bensì un doppio quadrato sovrapposto, costituito da un segmento per ciascun lato corrispondente a un diverso giocatore, da cui quest’ultimo dovrà pescare ad ogni turno. Per la cui costituzione i molti volti che si renderà necessario, il dispendio di minuti risulta essere tutt’altro che indifferente. Soprattutto quando si considerano i possibili incidenti, come tessere cadute a terra, persone che ne prendono troppe o troppo poche dal mucchio centrale, possibili accuse verso qualcuno che potrebbe aver sbirciato il seme o il numero di un determinato pezzo di gioco. Con conseguente aumento esponenziale del senso di chaos ed incontrollabile sequenza degli eventi, per non parlare del rumore prodotto dai giocatori. Ma i problemi non sono soltanto questi: mescolare a tal modo le tessere, semplicemente, non è in alcun modo professionale. Tanto che agli albori dell’epoca moderna, non era semplicemente pensabile la figura di un aristocratico che giocava a Mahjong.
Quale sarebbe dunque, la succitata bacchetta magica (o ventaglio piumato dello stratega) che potrebbe aspirare a risolvere tutto questo? Nell’opinione di una vasta gamma di aziende produttrici, tutte orientate sulla stessa linea con la tipica costanza dell’industria cinese, si potrebbe riuscire a trovarla in uno dei grandi misteri della fisica, ovverosia il magnetismo. Tramite l’approccio dimostrato da quella che potremmo descrivere, con un certo grado di associazione, come una vera e propria lavatrice orizzontale. Il tavolo automatico da Mahjong, una realtà oggi diffusissima, benché letteralmente sconosciuta prima degli anni 2000, è un sistema elettrico ed elettronico che attraverso una variegata selezione di artifici, permette di superare la ponderosa necessità sopra descritta. Al che i quattro “punti cardinali” umani della partita, al termine di ogni mano, non dovranno far altro che premere l’apposito pulsante al centro del piano, vendendo sollevarsi una sezione paragonabile al prototipico tappo della vasca da bagno. Per poi procedere (auspicabilmente con pacatezza) a spingere giù le tessere nel buco risultante, come nel processo di un vulcano geologico all’incontrario. Al che, premendo il secondo dei pulsanti presenti sulla piccola plancia, degli sportelli nascosti in corrispondenza di ciascun lato si apriranno rapidamente. Lasciando emergere, come per magia, la sfavillante presenza di un muro già pronto alla prosecuzione della partita. E pensate che nei modelli più avanzati, è persino presente uno scomparto trasparente per il lancio dei dadi, metodologia ufficiale per determinare chi avrà l’onore della prima giocata! Eliminando in questo modo, un’ulteriore fonte di discussioni o disordini a danno della quiete generale.
Resta perciò indubbio che il tavolo automatico da Mahjong sia un valido ausilio all’implementazione di uno stile di gioco maggiormente spedito e pratico nelle procedure. Nonché la valida presenza di un “arbitro imparziale” (addirittura, robotico) che s’incarica di eliminare potenziali “errori” più o meno voluti che possano compromettere il risultato della partita. Ma non viene anche a voi la curiosità di scoprire quale sia, esattamente, il suo funzionamento?

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