Durante l’intera epoca a cavallo del nostro anno mille identificata con il nome della capitale, Heian (l’odierna Tokyo) il Giappone andò incontro a un periodo di fiorenti commerci ed interscambi culturali con il continente, in modo particolare attraverso il viaggio dei suoi monaci, che si recavano in pellegrinaggio presso i maggiori templi buddhisti della Cina. Un processo che avrebbe incontrato l’inizio, piuttosto che la presupposta repressione, durante il regno dell’imperatore Kanmu nell’antecedente 782 d.C, il quale stanco delle manipolazioni politiche operate dal clero spostò la sua corte temporaneamente presso la città di Nara, mentre le istituzioni religiose continuavano ad ampliare ed istituzionalizzare il proprio predominio sugli ambienti urbani al centro dell’unico paese dalle migliaia di Dei. Fu dunque nel ventennio successivo, noto come periodo Enriaku (782-806) che la classe dirigente della religione provenuta da Occidente inviarono figure di letterati, poeti e studiosi al fine di riportare in patria dei particolari elementi o tratti distintivi, in grado di rappresentare un cardine del proprio predominio sui colleghi del tempo. Fu proprio ciò l’origine di tante arti oggi considerate prettamente “giapponesi” a causa delle forti rimodulazioni e modifiche apportate attraverso i lunghi secoli a partire da un tal momento: pittura, scultura, calligrafia, allestimento dei giardini, disposizione dei fiori… Persino la famosa cerimonia del té, benché in una forma embrionale ancora ben lontana dall’incredibile raffinatezza dell’epoca pre-moderna. Detto ciò, una delle eredità più eclettiche ed inaspettate, tra tutto il vasto comparto rispondente a tali presupposti, fu senz’altro quella del To-ji, tempio di Kyoto appartenente alla setta del buddhismo Shingon, che nel giro di pochi mesi ed anni vide il proprio spiazzo riempirsi di pensiline per gli ex-voto, sotto ciascuna delle quali, invece della tradizionale tavoletta di legno, trovavano posto pesci, rane, cavalli, conigli ed altre bestioline di buon augurio, realizzate con un qualche tipo di splendete e traslucido materiale.
Il quale risultava essere, in maniera certamente sorprendente, niente affatto del “semplice” vetro (ammesso che all’epoca esistessero dei mezzi tecnologici per lavorarlo) bensì uno speciale amalgama di zucchero, malto e riso glutinoso chiamato mizuame (水飴), caratterizzato dal comportamento tipico dei fluidi non newtoniani. In grado di offrirgli, in altri termini, la capacità di cambiare dallo stato solido a quello semi-denso quando avvicinato ad una fonte di calore, permettendo a un abile artigiano di plasmarlo nella forma momentaneamente desiderata. Un passatempo popolare, questo, certamente già noto in Cina e praticato ancora oggi con il nome di Táng rén (糖人 – persone di zucchero) benché configurato unicamente sull’introduzione di una certa quantità d’aria mediante l’impiego di cannuccia per poi aggiungere, con le pinzette, zampe o gambe alla piccola figura (teoricamente) commestibile infissa su di un bastoncino. Mentre come spesso capitava già in quell’era remota, la reinterpretazione giapponese assunse ben presto i contorni definiti di una vera e raffinata forma d’arte, con tanto di maestri identificati con il termine di ame shokunin (餹職人 – coloro che sanno far bene lo zucchero) capaci di dare vita, letteralmente, ad un simile materiale. Al punto che guardando la naturalistica e guizzante figurina conseguente dalla loro opera, ci si aspettava di vederla nuotar via o spiccare il volo verso le nubi distanti…
Uno dei principali praticanti di quest’arte ancora operativi, della quale si dice che rimangano a dir tanto due dozzine di “reali” eredi, è Shinri Tezuka, trentenne titolare della bottega di Tokyo ad Hanakawado, Taito-ku che porta il suo nome, dove egli pratica i metodi tradizionali dell’amezaiku secondo quanto tramandato a partire dal periodo Edo (1603-1868) quando la duratura pace nazionale e l’istituzione del severo sistema burocratico dell’ultimo e più duraturo shogunato garantirono un incremento dei viaggi ed interscambi anche ai livelli del popolo comune, portando a una più vasta diffusione della particolare prassi messa in atto dal tempio del To-ji. Fu giusto allora che, anche vista la maggiore disponibilità dell’ingrediente principale, l’arte di plasmare lo zucchero si ritornò ad essere da offerta votiva un gioco o passatempo privo di particolari implicazioni meditative, comunemente offerta nelle fiere o feste di paese o messa in vendita per i bambini (e non solo). La tipica opera gastronomica di tale categoria, ad ogni modo, presentava alcuni tratti essenzialmente ben diversi dalle originarie “persone di zucchero” cinesi: in primo luogo il fatto che fosse sovente realizzata per la maggior parte direttamente a mano, senza nessun tipo di strumenti e neanche i guanti, il che data la temperatura di circa 90 gradi necessaria affinché il mizuame perdesse la propria solidità, causava spesso ustioni anche gravi nei principianti. La soffiatura dell’aria passò invece gradualmente in secondo piano, probabilmente anche per considerazioni di natura igienica niente meno fondamentali per l’etica di derivazione shintoista, sostituita dall’impiego attento delle tradizionali forbici giapponesi a forma di “U” in una versione costruita appositamente per lo scopo, con molla molto forte per resistere alla natura appiccicosa della materia prima impiegata dal creatore. Un altro punto forte dell’amezaiku, nel frattempo, era la sua propensione ad essere dipinto mediante l’uso di coloranti commestibili, diversamente dall’originale prassi cinese che vede simili creazioni rimanere unicamente del color marrone chiaro assunto naturalmente dallo zucchero al momento della solidificazione. Il che da luogo, nel caso da noi preso in considerazione, alla straordinaria varietà cromatica dei soggetti che riempiono le mensole e il profilo Instagram di Tezuka che includono soggetti tradizionali ma anche qualche concessione alla cultura Pop moderna, come l’irresistibile Pikachu di Nintendo dal riconoscibile color giallo paglierino. L’offerta commerciale di questo rigoroso praticante di una così arte, del resto, appare estremamente diversificata ed eclettica stando al suo sito ufficiale, con tanto di raffinato secondo negozio all’interno del grattacielo Tokyo Sky Tree e svariati programmi divulgativi, condotti grazie alla sua dozzina d’apprendisti, inclusivi di dimostrazioni per feste, eventi aziendali o veri e propri seminari per chiunque voglia conoscere la difficoltà e raffinatezza della sua arte.
La sublime e inaspettata arte dell’amezaiku risulta essere, dunque, intrisa di una serie di caratteristiche particolarmente apprezzate dalla cultura giapponese: in primo luogo la sua natura effimera e relativa impermanenza, benché un animaletto di zucchero mantenuto adeguatamente all’asciutto possa mantenersi nei fatti integro per settimane e mesi, a meno che qualcuno non finisca per cedere alla tentazione di mangiarlo in un sol boccone. Per proseguire, quindi, con il modo in cui essa tenda a risentire di fattori ambientali esterni, come la temperatura ambiente o l’umidità dell’aria che devono essere tenuti attentamente in considerazione dall’artista, ponendo le basi per un rapporto armonioso con la sempre imprescindibile volontà della natura.
L’intero concetto di catturare l’immagine di un qualcosa di splendido e renderla collezionabile, per non dire assolutamente deliziosa, rientra infine nella fanciullesca predisposizione di ciascuno di noi verso il divertimento, al di fuori di qualsiasi confine nazionale o preconcetto ereditario acquisito. Ecco perché proprio nella precisa plasmazione dello zucchero, tra le tante alternative, possiamo individuare un ulteriore via d’accesso verso il nucleo stesso di quel corpus altamente distintivo che si è soliti identificare in patria come “carattere”, soltanto ed esclusivamente giapponese. Benché esso stesso sia riuscito a trasformarsi, all’insaputa di molti e nel corso delle ultime generazioni, in un fondamentale ingranaggio del nostro stesso sistema culturale globalizzato.