Inaugurato il primo casinò con una ruota panoramica a forma di 8

Studio City

Amate gli Egizi? Siete coperti. Preferite i Romani? Già giungono lievi ruggiti, portati dal vento, a partire dalla vicina Spring Mountain Road. Ce l’isola del tesoro. Anche una mini-Parigi. E quel ramo del lago di Como, esemplificato in qualche maniera, forse non proprio intuitiva, dalle fontane e la facciata neoclassica del Bellagio. Ma nel mondo dei casinò a tema, ed è forse questo un dato largamente ancora poco noto in Occidente, Las Vegas è ormai stata superata da tempo, ad opera del principale centro asiatico per il gioco d’azzardo: la rutilante, sfavillante, effervescente città di Macao. È stato stimato che nel corso degli anni successivi al 2005, questo paradiso fiscale del sud della Cina abbia sviluppato un volume d’affari cinque volte superiore alla gemma tintinnante del Nevada, riuscendo ad attirare l’attenzione di numerosi consorzi internazionali, che da allora stanno acquistando terreni lungo il grande avenue della Cotai Strip. Il primo è stato proprio quello della Las Vegas Sands, già proprietaria del Venetian statunitense, un casinò subito replicato in Estremo Oriente, con tanto di Ponte di Rialto e campanile di San Marco anti-sismico, perché non si sa mai. A questo hanno fatto seguito diversi altri giganti del gioco d’azzardo, con proprietà sfavillanti come il Galaxy, moderno resort con piscina ondosa e una grande fontana a forma di roulette, da cui sorge un diamante allo scoccare dell’ora. O il Four Seasons, in cui un locale “Palazzo della Gherardesca” accoglie gli ospiti, con una vasta selezione di statue e bassorilievi marmorei ampiamente degni di un film spada & sandali degli anni ’50. Perché ogni luogo dedicato al gioco d’azzardo, fondi permettendo, deve per forza avere un tema? E perché, soprattutto, quel tema deve essere per un buon 50% delle volte, italiano? Probabilmente la ragione va ricercata nell’immagine di finezza estrema ed eleganza quasi impossibile, che viene associata all’estero, a torto o a ragione, a determinati ambienti del nostro paese. Valori che naturalmente, in tali luoghi trovano un metodo espressivo decisamente meno sincero. Pupazzi giganti! Schermi e proiezioni! Figuranti in costume! Poi ci sono…Le eccezioni. La manifestazione architettonica di quel desiderio di emergere, da parte dei facoltosi investitori di luoghi come le due città citate, costruendo un qualcosa che debba, più che altro, stupire l’occhio degli spettatori.
Ed è a quest’ultima categoria che appartiene, senza ombra di dubbio, l’ultimo folle capolavoro della Strip, il complesso in gestione comunitaria delle statunitensi Silver Point Capital LP ed Oaktree Capital Management LLC, con un corposo investimento da parte della compagnia di Hong Kong, eSun Holdings Ltd. Il cui edificio principale è stato chiamato Studio City Macao, in onore del famoso quartiere della città di Los Angeles da cui operava il grande produttore cinematografico degli anni ’30, Mack Sennett e che oggi ospita gli studi della CBS. Qui riproposto in versione Art Deco, nella ricerca estetica di quello che è stato ufficialmente definito: “Un palazzo di Gotham City colpito da due meteoriti sovrapposti.” Basterà osservarlo brevemente per capire il perché, mentre il vento del Mar della Cina soffia indisturbato da parte a parte, tra le alte mura di questo ennesimo baluardo del divertimento.  Non per niente, alla sua costruzione hanno partecipato anche gli studi cinematografici della Warner Bros, che vi hanno collocato alcune significative attrazioni ispirate alla loro singola proprietà intellettuale più popolare del momento, i film di Batman. L’edificio, costruito per rispondere ad esigenze multiple, ospita un casinò da 400 tavoli, un hotel da 1600 stanze e 27.000 metri quadri di negozi, prevalentemente operativi nel settore del lusso, tra i quali figurano, inutile dirlo, molti grandi marchi italiani. Ma al di là di quello che c’è dentro, ciò che colpisce da subito è questa sorta di emblema dorato, che parte dal 23° piano e raggiunge un’altezza di 130 metri e sopra il quale campeggia, come una dichiarazione d’intenti, il nome luminescente del casinò. Una strana struttura, questa, tutt’altro che puramente decorativa. Basta infatti procurarsi un biglietto dal prezzo assolutamente ragionevole, per poterci fare un giro. È in poche parole, una delle ruote panoramiche più insolite del mondo.

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Bambino col bastone degli Shaolin Vs. Jackie Chan

Jackie Shaolin

È la finzione scenica o il momento di un gioco scherzoso, la lezione inscenata da un alunno già famoso che probabilmente, nonostante le apparenze, conosceva bene i movimenti necessari. Oppure un attimo d’introspezione e vero studio, proveniente dall’incontro di un giovane praticante della stessa antica arte, che quell’uomo ha usato con profitto nell’intero corso della sua vicenda professionale? C’è un detto in Cina, che recita: “Tutte le arti marziali vengono dal monastero di Shaolin”. Dal quale fatto si può dedurre che: “Tutti i guerrieri, prima o poi, ritornano a queste radici.” Alla base dei due grandi alberi nel cortile del tempio, secondo una leggenda già alti all’epoca dell’imperatore Tai Zong (regno: 626 – 649) che furono fatti frondosi generali dei Tang, assieme a tutti i monaci presenti, a seguito dei grandi servigi offerti alla nascente dinastia. Ed è giusto che alla fine, così sia: perché la semplice meditazione, in quanto tale, genera una base valida all’accrescimento spirituale. Ma se nessuno superasse quel portale, assieme al suo bagaglio di nozioni che proviene da un’intera vita d’esperienze, le gesta dei monaci resterebbero per sempre prive di evidenza, ovvero relegate al mondo della semplice teoria. Per chi ha voglia di percorrerla, l’intera vicenda di un simile luogo può essere riassunta attraverso i nomi di coloro che lo visitarono, attraverso i lunghi secoli trascorsi dalla fondazione.
Fine quinto secolo: il monaco Bai Tuo, di ritorno dall’India, si reca in visita all’imperatore degli Wei, Xiao Wen (regno: 471-499) che era un devoto buddhista. E al termine dell’incontro, si dice che quest’ultimo fu talmente colpito dalla saggezza di un simile sant’uomo, che spontaneamente decise di concedergli un terreno ai piedi del monte Shaoshi, una delle cime più alte dell’odierna regione di Dengfeng, sul quale egli potesse costruire una base operativa, da cui trasmettere al popolo la sua filosofia.  Quello fu soltanto l’inizio. Perché in quell’epoca viveva in India un principe, che aveva nome Bodhidarma. Costui era saggio e benevolo, ma viveva in un costante stato di ansia: questo perché il re suo padre, a discapito degli altri fratelli, lo aveva nominato erede, esponendolo a continui tentativi di assassinio. Ma il giovane aveva accumulato, nel corso della vita presente e anche quelle passate, un karma talmente positivo che nessun complotto mai giungeva a compimento. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, egli decise a un certo punto che si era stancato di una tale vita, e si sarebbe fatto monaco viaggiante, per trovare il suo futuro altrove. Su quello che successe dopo, esistono diverse leggende: alcuni dicono che lo studioso delle scienze dello spirito si fosse trasformato in eremita, trascorrendo il resto della propria vita in una remota caverna, pregando e meditando fino a perdere l’abilità di muovere le braccia e le gambe (già pronto a reincarnarsi come santo Bodhisattva). Altri gli riservano una vita materiale più feconda, ritrovandolo a partire dal 527 d.C. proprio in mezzo a queste mura, giunto tra i monaci del suo compatriota di un paio di generazioni precedenti. Pare infatti, stando a questa versione dell’intera vicenda, che il destino di atrofìa così chiaramente esemplificato da quelle famose bamboline rosse giapponesi prive di arti dedicate a Bodhidarma, fosse invece toccato in sorte ai discepoli di Bai Tuo, diventati uomini completamente scollegati dai bisogni del mondo materiale. Così il principe in esilio, che tra le altre cose era anche un abile guerriero, decise di insegnare loro quelle tecniche di combattimento individuale che aveva appreso dai suoi maestri indiani, nel corso dell’intera vita precedente. Con alcune significative distinzioni: poiché i monaci buddhisti non potevano uccidere, lui tralasciò la spada e la lancia, rendendoli versati nell’impiego di tecniche che potessero disabilitare l’avversario, portandolo a comprendere la grandezza della via di Buddha, in attesa di una conversione. Oppure spingerlo forzosamente a terra al fine di meditare, pentendosi delle trascorse malefatte.

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Trent’anni di eroi del cinema per un confronto alla Carlito’s Way

Hell's Club

Grazie all’opera di un abile regista e montatore parigino, Antonio Maria da Silva della AMDS Films, già famoso per aver fatto scontrare virtualmente tra di loro alcuni pesi massimi degli anni ’90, come Terminator e Robocop, Schwarzenegger e Stallone. Ma mai niente che abbia raggiunto proporzioni simili, attraverso la creazione di dieci dei minuti maggiormente memorabili che siano mai stati prodotti senza un budget superiore, con un trionfale susseguirsi di personaggi e star famose, chiamate dapprima semplicemente a coesistere, poi a decidere chi debba prevalere fino alla generazione successiva. Nell’unico modo che conoscono molti di loro, almeno stando agli schermi cinematografici: attraverso l’impiego di una pioggia di pallottole fumanti. Si dice che l’effetto speciale migliore sia quello che non noti, e dopo tutto, questo si rivela vero anche nel settore del montaggio, che viene citato dai cinefili inesperti unicamente se è troppo lento, o inutilmente confuso. Ma che diventa fondamentale in ogni singolo momento quando si sta creando l’amalgama di tanti elementi drammatici diversi tra di loro, eppure accomunati da un singolo filo conduttore: il buio ed il rumore del night club. Un luogo topico, ma anche caotico per definizione, dove spariscono i freni inibitori e le persone tendono a trovare modi nuovi d’esistenza. Diventando i guerrieri accidentali di quello che l’autore ha scelto di chiamare suggestivamente Hell’s Bar. Il Bar dell’Inferno ha una serie di regole non scritte, la cui conoscenza è fondamentale per godersi una serata in mezzo ai propri simili venuti dal mondo del cinema d’autore. Punto primo, attraversata quella porta, si deve comprendere di aver lasciato il proprio mondo. È come una soglia interdimensionale, l’equivalente grossomodo quadratico di un buco nero, che accoglie chiunque ma lascia passare indietro solamente particelle disgregate, miseri residui sopra l’orizzonte degli eventi. Nessuno può sussistere in un tale luogo, senza dimostrare delle doti di auto-affermazione totalmente fuori dal comune. Punto secondo, i conti si pagano sempre subito, e in contanti. Ce lo spiega indirettamente il padrone ed amministratore del club, niente meno che Al Pacino all’epoca del 1993, reso traslucido e immanente grazie alle capacità distorcenti di un simile hub dimensionale. Ma non prima che tra i molti avventori della serata inizino a palesarsi i primi avventori problematici, ovvero l’Obi Wan dell’Episodio 1, Ewan McGregor, assieme a Liam Neeson, nel ruolo del suo maestro sfortunato Qui-Gon Jinn. I due giungono per la cattura di un pericoloso criminale, che pare potrebbe essere una donna. E poco importa se al piano di sopra, prima di trovare un dividersi a cercarla, scorgano l’immagine dell’Io futuro del primo dei due, il cupissimo Darth Vader, impegnato ad incrociar la spada laser con un figlio ancora neanche concepito, tanto meno reso nemico dalle due strade divergenti della Forza. Neanche il misticismo Jedi può penetrare il campo distorcente di questa location fuori dal tempo e dai mondi dell’universo quantico e deterministico. Dove Tom Cruise, acconciato come lo era in Cocktail del 1988, fa naturalmente il barista, ma Tom Cruise con la fondina pronta all’uso, nel frattempo, è anche il capo della sicurezza estratto da Collateral (2004) impegnato a sorvegliare con un ciglio attento gli avventori, assieme alla sua spalla Blade (Wesley Snipes) il mezzo vampiro più temuto dell’East Side. Il che ci porta alla terza regola dell’Hell Bar: qui, la logica non è di casa. Anche perché tra gli ospiti di questa sera, guarda caso, è presente anche quel Tony Montana di Scarface, che oltre ad essere lo spietato gangster cubano che noi tutti ricordiamo, ha la non indifferente problematica di poter assomigliare in modo impressionante al padrone del locale, se soltanto quest’ultimo avesse avuto esattamente 10 (ah!) anni di meno. E non manca in effetti un duro confronto di sguardi magnetici tra le due parti, creato grazie all’uso di uno dei pochi effetti digitali dell’intera sequenza.
Perché nel cortometraggio di Antonio Maria da Silva, questa è forse la cosa più incredibile, non c’è tutta l’avanzatissima tecnologia che potrebbe sembrare. Il creatore del video ha più che altro sfruttato, grazie a un colpo di genio niente affatto indifferente, le diverse scene rilevanti estratte dai film di ciascun personaggio, selezionate in base non soltanto a un filo conduttore di causa ed effetto, ma in funzione del fondale, che potesse in qualche maniera essere rimaneggiato e riproposto come quello di un night club. L’alterazione più efficiente in questo, che si estende dal primo all’ultimo minuto della memorabile sequenza, è l’aggiunta di un vistoso filtro tendente al rosso, che pur essendo uno dei tratti dominanti, non diventa mai eccessivamente ingombrante, ne distrae dall’evolversi della serata, destinata letteralmente a far scintille, benché fortunatamente, soltanto nella finzione scenica della violenza immaginaria.

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Finalmente un nuovo modo di far muovere i pupazzi digitali

Ikrig recap

Le dita danzano sui tasti WASD, mentre l’altra mano, precisa ed implacabile, identifica i bersagli sullo schermo. Kanas’dul, assassino di Babilonia, scivola agilmente tra le ombre, senza produrre il minimo rumore. Il suo cappuccio bianco si agita nel vento, mentre lo stemma con la testa del serpente, chiaramente esposto sul mantello, lo identifica beffardamente agli occhi del nemico. Ma nessuno, questa notte, può vederlo. Perché gli stessi palazzi di KA.DINGIR.RA, più vasta, verticale e potente città del mondo, sono gli i suoi alleati contro le macchinazioni dei cavalieri di Ishtar, l’antica società segreta che ha tramato per la fine degli insegnamenti di Hammurabi, perseguitando brutalmente i popoli di Assur, Eshnunna, Mari, Aleppo, Alalakh e Qatna. Vendetta, morte e distruzione! Le lame dei giusti assaggino quel sangue maledetto! Un rapido sguardo all’orologio digitale sulla scrivania: le 14:40. Ancora una ventina di minuti, prima che sia tempo di mettersi a studiare per gli esami. Ma prima di allora, un altro sorso di caffè…Gli occhi ritornano alla mini-mappa tonda in basso a destra. Il Tempio è sempre più vicino. Ora, questa particolare Babilonia virtuale è una città che osserva un piano regolatore attentamente definito: ciascun palazzo è di quattro, sei o dodici piani. Le strade misurano tre, cinque o nove metri. Ciò è un grande vantaggio per Kanas’dul, che si è addestrato a lungo, secondo i precetti della sua compagine segreta, a muoversi agilmente da un confine all’altro dell’enorme centro abitato. Nel suo repertorio degli spostamenti, c’è una doppia rotolata che consente di spostarsi esattamente da una parete all’altra di qualsiasi viale “medio” mentre culmina in una mezza corsa per ciò che rimane a separarlo dalla fine di una strada “grande”. Ogni qual volta che la sua missione lo porta a salire sopra i tetti, poi, può contare su dei balzi calibrati in base alla distanza tra due tipiche finestre babilonesi (2,30 m) mentre sa per certo che alla destra di ciascuna, un po’ più in alto, c’è sempre un piolo a cui aggrapparsi con la mano. Mentre un pratico cornicione profondo esattamente 40 cm, che collega un’apertura all’altra, gli permette all’occorrenza di strisiciare fin sui vertici degli edifici, scavalcando infine facilmente il vuoto che separa gli isolati, purché abbia la misura di una strada “stretta”. Dopo 6 minuti passati a concatenare simili manovre, già la fortezza dei templari svetta sopra la sua figura, le mura sormontate da sculture vagamente demoniache. Le torce ai lati del portone si agitano nel vento, mentre l’anti-eroe nota alcuni mattoni sporgenti sui bastioni, posti alla distanza di 4,60 metri dal suolo. Interessante, si ritrova a pensare, già estraendo la sua lama rotativa ben nascosta nella manica a sbuffo…
Tutto è misurato, ripetuto, prevedibile. Per chi ha studiato attentamente le arti di assassinio applicate all’attraversamento cittadino, come il videgiocatore di questa generazione computerizzata, le sorprese si nascondono nei colpi di scena della storia, nelle sempre più incredibili fazioni coinvolte, le armi fantasiose, le gesta dei cattivi. Raramente, nel susseguirsi stilistico dei movimenti, l’arte antica dell’animazione. Fatte le dovute proporzioni, il vecchio Super Mario si svolgeva in un ambiente coerente e totalmente a disposizione del giocatore: perché potevi saltare, in quel mondo bidimensionale, di uno spazio a tua scelta tra 10,11,12,13…24 pixel, o addirittura decidere, a mezz’aria, che era il caso di tornare indietro (inerzia permettendo). Poi giunse il rotoscoping, e con esso il motion capture assieme ad un diverso modo di pensare il videogioco. Benché ci fossero dei precedenti di successo (Prince of Persia – 1989) il primo autore a dimostrare veramente l’utilità narrativa di queste tecniche fu il francese Éric Chahi della Delphine Software, che ai tempi dell’Amiga di Commodore produsse i suoi due capolavori Another World (1991) e Flashback (1992) rimasti negli annali di quell’epoca indimenticata. Per la prima volta, il giocatore veniva messo a contatto con un mondo in cui i personaggi si muovevano in maniera realistica, semplicemente perché un vero attore, nei primitivi teatri di posa di allora, era stato ripreso e digitalizzato, quindi trasformato in un alto numero di frame d’animazione. Un salto, perfetto. Una corsa, perfetta. Un accovacciamento per schivare i pericoli, simile a quello che potremmo usare noi. Con la conseguenza che per ciascun singolo gesto comandato al personaggio, si assistesse sempre alla stessa sequenza, impeccabile quanto, purtroppo, sempre uguale a se stessa. Naturalmente, perché ciò potesse funzionare, i livelli dovevano venire standardizzati. All’epoca, nessuno ci fece caso.

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