Bambino col bastone degli Shaolin Vs. Jackie Chan

Jackie Shaolin

È la finzione scenica o il momento di un gioco scherzoso, la lezione inscenata da un alunno già famoso che probabilmente, nonostante le apparenze, conosceva bene i movimenti necessari. Oppure un attimo d’introspezione e vero studio, proveniente dall’incontro di un giovane praticante della stessa antica arte, che quell’uomo ha usato con profitto nell’intero corso della sua vicenda professionale? C’è un detto in Cina, che recita: “Tutte le arti marziali vengono dal monastero di Shaolin”. Dal quale fatto si può dedurre che: “Tutti i guerrieri, prima o poi, ritornano a queste radici.” Alla base dei due grandi alberi nel cortile del tempio, secondo una leggenda già alti all’epoca dell’imperatore Tai Zong (regno: 626 – 649) che furono fatti frondosi generali dei Tang, assieme a tutti i monaci presenti, a seguito dei grandi servigi offerti alla nascente dinastia. Ed è giusto che alla fine, così sia: perché la semplice meditazione, in quanto tale, genera una base valida all’accrescimento spirituale. Ma se nessuno superasse quel portale, assieme al suo bagaglio di nozioni che proviene da un’intera vita d’esperienze, le gesta dei monaci resterebbero per sempre prive di evidenza, ovvero relegate al mondo della semplice teoria. Per chi ha voglia di percorrerla, l’intera vicenda di un simile luogo può essere riassunta attraverso i nomi di coloro che lo visitarono, attraverso i lunghi secoli trascorsi dalla fondazione.
Fine quinto secolo: il monaco Bai Tuo, di ritorno dall’India, si reca in visita all’imperatore degli Wei, Xiao Wen (regno: 471-499) che era un devoto buddhista. E al termine dell’incontro, si dice che quest’ultimo fu talmente colpito dalla saggezza di un simile sant’uomo, che spontaneamente decise di concedergli un terreno ai piedi del monte Shaoshi, una delle cime più alte dell’odierna regione di Dengfeng, sul quale egli potesse costruire una base operativa, da cui trasmettere al popolo la sua filosofia.  Quello fu soltanto l’inizio. Perché in quell’epoca viveva in India un principe, che aveva nome Bodhidarma. Costui era saggio e benevolo, ma viveva in un costante stato di ansia: questo perché il re suo padre, a discapito degli altri fratelli, lo aveva nominato erede, esponendolo a continui tentativi di assassinio. Ma il giovane aveva accumulato, nel corso della vita presente e anche quelle passate, un karma talmente positivo che nessun complotto mai giungeva a compimento. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, egli decise a un certo punto che si era stancato di una tale vita, e si sarebbe fatto monaco viaggiante, per trovare il suo futuro altrove. Su quello che successe dopo, esistono diverse leggende: alcuni dicono che lo studioso delle scienze dello spirito si fosse trasformato in eremita, trascorrendo il resto della propria vita in una remota caverna, pregando e meditando fino a perdere l’abilità di muovere le braccia e le gambe (già pronto a reincarnarsi come santo Bodhisattva). Altri gli riservano una vita materiale più feconda, ritrovandolo a partire dal 527 d.C. proprio in mezzo a queste mura, giunto tra i monaci del suo compatriota di un paio di generazioni precedenti. Pare infatti, stando a questa versione dell’intera vicenda, che il destino di atrofìa così chiaramente esemplificato da quelle famose bamboline rosse giapponesi prive di arti dedicate a Bodhidarma, fosse invece toccato in sorte ai discepoli di Bai Tuo, diventati uomini completamente scollegati dai bisogni del mondo materiale. Così il principe in esilio, che tra le altre cose era anche un abile guerriero, decise di insegnare loro quelle tecniche di combattimento individuale che aveva appreso dai suoi maestri indiani, nel corso dell’intera vita precedente. Con alcune significative distinzioni: poiché i monaci buddhisti non potevano uccidere, lui tralasciò la spada e la lancia, rendendoli versati nell’impiego di tecniche che potessero disabilitare l’avversario, portandolo a comprendere la grandezza della via di Buddha, in attesa di una conversione. Oppure spingerlo forzosamente a terra al fine di meditare, pentendosi delle trascorse malefatte.

Ora, non ci è del tutto nota l’esatta forma esteriore dell’originale kung-fu di Shaolin, praticato all’epoca della vicenda bellica brevemente citata in apertura (la ribellione di Tai Zong) e di cui parleremo più avanti, ma sappiamo con ragionevole precisione il momento in cui nacque la specifica tecnica di combattimento con il bastone, così graziosamente ed eloquentemente trasmessa dal giovane discepolo al famoso attore in visita, nel corso delle riprese per il film del 2011 Shaolin (The New Shaolin Temple – Benny Chan). Il suo nome è Yin Shou Gun e nacque nel corso della dinastia Ming, quando il generale Yu Dayou (1503-1580) in visita presso questi affidabili alleati del potere centrale, decise di confrontare le loro antiche tecniche con le proprie, generando un repertorio di movimenti e approcci d’offesa quale il mondo non aveva conosciuto in precedenza. Il bastone di Shaolin, il cui nome significa semplicemente “[tenuto] con entrambi i palmi verso terra” se si scegli di apprezzarlo come attrezzo bellico e soltanto in quanto tale, costituisce un’arma feroce ed implacabile, che non conosce limiti d’impiego. Laddove la spada va impiegata per colpire di taglio, mentre la lancia deve necessariamente raggiungere il nemico con la punta, un semplice pezzo di legno è in grado di fungere sia da spada che da lancia, raggiungendo qualsivoglia punto delle 8 fondamentali direzioni. Come ampiamente esemplificato dagli esercizi dimostrativi tradizionali, praticati da tempo immemore sul selciato di quel luogo di sapienza:

Yin Shou Gun 2
Un’arma flessibile, come il fiume. Ma solida ed inamovibile quanto lo stesso picco di Shaoshi.

Fra tutte le tecniche di combattimento armato iscritte nella tradizione del tempio, il bastone è la prima, e spesso l’unica, trasmessa ai discepoli che vengono accolti nell’antica istituzione, spesso orfani o provenienti da famiglie disagiate, che non potevano permettersi di allevarli e/o mandarli a scuola. Una casistica toccata nel film con Jackie del 2011, in cui per l’appunto questo stesso bambino compariva in una scena saliente, mentre si addestrava silenziosamente del buio della notte: “Perché non aspetti che sorga il sole, invece di fare pratica al freddo e al gelo?” Gli chiedeva affabile l’attore Andy Lau, il visitatore e protagonista del film: “Così sarebbe troppo facile, signore.” rispondeva il giovane, con spirito d’abnegazione. Perché questo c’è questo fondamento di qualsiasi filosofia mirata all’accrescimento individuale, secondo cui la privazione possa condurre all’acquisizione di tecniche ulteriori, ovvero strumenti di autodifesa che possano sfiorare l’attendibile sconfinando addirittura nel pieno sovrannaturale. Proprio in conseguenza del loro regime di addestramento duro e talvolta segreto, i monaci di Shaolin divennero parte inscindibile di innumerevoli e fantasiose leggende. Come quella secondo cui un maestro della tecnica dello Yin Shou Gun potesse far roteare il suo bastone così velocemente da trasformarlo in uno scudo, riuscendo a deflettere dardi, frecce o sassi scagliati dal nemico. Un mito che forse nasce dal tipo di difesa, pressoché impenetrabile, su cui poteva contare un abile manovratore di questo strumento. Utile durante i viaggi dei pellegrini, per varcare un fiume o scalare una montagna, come sui campi di battaglia, fin da quando l’abate di Shaolin decise, dopo tutto, che era tempo di discendere dalle pendici, per sfruttare la sapienza impartita da Bodhidarma a vantaggio del bene dell’intera Cina…

Yin Shou Gun
Colpi e parate non sono più concetti separati, ma un’unico fluire indistinguibile, che rispecchia il rapporto tra l’uomo e la natura.

La storia è rilevante anche perché fu fatta oggetto, nel 1982, di quello che rimane forse oggi il singolo film più famoso girato in questi luoghi, Shàolínsì (Il tempio di Shaolin – Chang Hsin Yen). L’attore protagonista, in questo caso, era stato un altro grande nome del genere, il campione del wushu, produttore, guerriero e canante Jet Li. Ed ebbe un effetto significativo e duraturo sul paese, visto come fu ciò che rese possibile, nei fatti, la creazione della stessa dinastia Tang (618-907 d.C.) una delle più durature ed illuminate nella storia della Cina. Tutto ebbe inizio quando Li Yuan, ufficiale della breve ed ormai decaduta sovranità dei Sui, decise, spronato dal suo secondo figlio Lǐ Shìmín, che era giunto il momento di proclamare un cambio al vertice del potere, dichiarandosi nuovo dominatore dell’Impero dalla sua capitale di Chang’an. Una condizione ritenuta desiderabile, a quei tempi, da almeno un altro fiero condottiero di nome Wang Shichong, un generale di stanza presso la città di Luoyoang, che dal canto suo voleva fondare la dinastia degli Zheng. Così, ancora una volta suddivisa tra due capitali, la Cina sprofondò in una grave guerra civile, che pareva destinata a durare molto a lungo. Se non che Lǐ Shìmín era un tattico abile e temuto, specialmente da quando aveva eliminato il rivale primogenito in un colpo di mano, ponendosi prepotentemente in condizioni di ereditare il trono. Che differenza, con lo spirito di abnegazione del benevolo Bodhidarma!
Eppure, i due avrebbero avuto almeno un luogo in comune: l’alto tempio degli Shaolin, ormai diventati abili combattenti. Perché il secondo, sorprendendo tutti ed il suo stesso padre, ebbe l’iniziativa di recarsi a Shaoshi dai monaci guerrieri dove, in qualche modo misterioso, riuscì a reclutarli alla sua causa. Seguì una sanguinosa battaglia, combattuta presso il passo strategico della porta di Hulao (un luogo che forse alcuni ricorderanno da un’altro celebre conflitto, quello dell’epoca dei Tre Regni prima degli Han, nel 190 d.C.) Quanto viene dopo è soggetto a varie interpretazioni. Il fatto storico, iscritto in una celebre stele ancora custodita dal tempio, è che i monaci sconfissero Wang Shichong, arrivando a prendere prigioniero il suo stesso figlio e scacciandolo in esilio. Mentre il film con Jet Li, basato su effettive leggende folkloristiche locali, parla di una vicenda ancora più drammatica, in cui fu lo stesso Lǐ Shìmín ad essere rapito dal nemico, venendo poi salvato dalle gesta eroiche di 13 monaci, rigorosamente armati del solo bastone. Il fatto certo, ad ogni modo, è che il giovane un tempo noto come “Principe di Qin”, come probabile analogia con il sommo fondatore della prima dinastia imperiale, sarebbe cresciuto egemone diventando, con il nome di Tai Zong, uno dei più grandi e celebrati sovrani nell’intera storia della Cina. Nonché un devoto seguace della religione…Taoista. Si, proprio così: se mai l’idea originale del tempio di Bai Tuo era davvero stata quella di usare le arti marziali per acquisire dei nuovi proseliti, certamente in quel caso, la missione fallì. Tai Zong fu sempre ostile al clero buddhista, che considerava una forza di decentramento popolare, dotata di eccessivi poteri temporali e ricchezze mondane. Ma nonostante questo, non giunse mai a togliere il titolo onorifico di generale a quei due alti alberi, che ancora oggi svettano orgogliosi in mezzo ai tetti di Shaolin.

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