Il lentissimo disastro naturale di una pozza di fango vivente

Sappi dunque che persistono più cose, sopra e sotto terra, di quante possa comprenderne la vostra geologia. Ed ingegneria. Ed architettura. E fisica delle cause e degli effetti. Cose che ribollono possenti, emergono, propagano se stesse. Distruggendo ogni possibile ostacolo sul loro cammino: c’è infatti un solo geyser, nell’arida pianura energicamente rilevante di Niland, non troppo lontano dal “mare” di Salton, il bacino idrico creatosi accidentalmente all’inizio del XX secolo per uno straripamento del fiume Colorado. Ma per danni e costi incorsi al fine di gestirlo, potrebbero anche essere due dozzine. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare tuttavia, questo punto di collegamento con le inaccessibili profondità non ribolle per l’immenso calore, né getta vistosi pennacchi d’acqua verso i recessi luminosi del cielo. Bensì lascia lentamente sgorgare, un poco alla volta, copiose quantità di fango. Eppure nonostante la sua natura apparentemente letargica, non può essere in alcun modo cancellato o bloccato da mano umana, mentre continua a ritmo sostenuto a spostarsi verso un’area molto rilevante dal punto di vista delle infrastrutture esistenti. Avendo già costretto a effettuare la deviazione di un tratto ferroviario, di una strada provinciale ed il sollevamento a mezzo tralicci di una costosa linea di fibre ottiche, utilizzate per collegare i vicini comuni di Estelle e Calipatria.
La prima nota in merito al geyser di Niland compare verso la metà degli anni ’50, quando viene immediatamente classificato come uno dei numerosi vulcanelli di fango che si affollano nella regione, prodotto collaterale di quella stessa faglia di Sant’Andrea che, attraversando questa specifica regione sotterranea, costituisce la minaccia incombente dell’intera area più popolosa della costa Ovest degli Stati Uniti. Ma all’epoca si tratta di poco più che una nota a margine, per la voragine del tutto statica nell’assoluto mezzo del nulla, giudicata del tutto incapace di arrecare alcun tipo di problema nei confronti degli abitanti locali. Almeno finché nel 2007, per ragioni ancora in parte misteriose, essa inizia gradualmente a spostarsi in direzione Sud/Sud-ovest, a una velocità di pochi centimetri la settimana. Ma il suo progresso è inesorabile e soprattutto, sembra lievemente accelerare, finché entro il 2018, alla stima apprezzabile coi nostri stessi occhi, si sarà spostata di un totale di circa 85 metri. Verso uno scenario ormai radicalmente differente, in cui lo strano fenomeno è già costato alla contea oltre 20 milioni di dollari, investiti dapprima nel vano tentativo di controllare la pericolosa voragine semovente, quindi di spostare, o in qualche modo proteggere, le preziose strutture situate sul suo cammino. Una cifra spesa con validi criteri e al tempo stesso rivelatosi almeno parzialmente superflua, quando si considera la facilità disarmante con cui il geyser ha oltrepassato, verso la fine del 2018, una poderosa barriera costruita con cemento, placche d’acciaio e pesanti rocce sepolte al di sotto della superficie fino alla profondità di 23 metri, sgorgando con la stessa placida forza all’altro lato e costringendo alla dichiarazione dello stato di emergenza. Per una situazione diventata ormai del tutto ingestibile, come narrato in un’ampia serie di video servizi del telegiornale e video scientifici di approfondimento, come l’ultimo qui mostrato della YouTuber e divulgatrice Physics Girl alias Dianna Cowern, originaria del distante arcipelago delle Hawaii. Rimasta colpita ed affascinata, come molte altre insigni menti tecnologiche, dalle notevoli caratteristiche del sottosuolo californiano. Ed il suo senso d’incombente disastro, in alcun modo mitigato dai processi graduali che gravano sullo stato persistente di tali sfortunati luoghi…

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L’incredibile buona nascita della madre polpo che covò le sue uova per più di quattro anni

Su un pianeta del braccio esterno della Galassia, all’interno di un oscuro crepaccio vasto quanto il Grand Canyon… Piccole creature, dalle multiple braccia planano nei pressi delle pareti di roccia dalla rada vegetazione, alla ricerca di un luogo tranquillo presso cui poggiare il proprio corpo sferoidale. O come preferiscono chiamarlo gli scienziati, il mantello, sacca in cui trovano collocazione tutti gli organi principali, tra cui occhi, bocca, stomaco, osphradium, nefridiopori e gonopori. Soltanto uno di questi esseri dal colorito rosa pallido parrebbe totalmente immobile, facendo pensare per un breve momento che possa essere passato a miglior vita. Ma la telecamera direzionabile, montata sul vascello radiocomandato inviato fin qui dagli umani, non ci mette molto a cogliere un leggero movimento, il guizzo laterale del suo sguardo, che indica uno stato intenzionalmente letargico, benché attento a ciò che accade tutto attorno a lui/lei. E con ottima ragione, si può ben capirlo, quando da un’angolazione laterale si capisce finalmente cosa stia facendo. Sotto quei tentacoli, semi-nascosto dallo sguardo dei suoi molti nemici, c’è il più notevole ammasso di 165 uova candide, un’intera prossima generazione. Scattate le opportune foto, registrato un dettagliato video, la sonda tecnologica decide quindi di fare ritorno da dove è venuta. Soltanto molti mesi dopo, ritornando nello stesso luogo, avrà modo di scorgere una scena sostanzialmente immutata, tranne per la madre un po’ più pallida, e le uova leggermente più grandi. E così di nuovo, a distanza di anni, fino alla nascita tanto lungamente attesa di quel mondo così lontano…
Negli studi antecedenti all’anno duemila della specie di polpo abissale Graneledone boreopacifica, gli oceanografi ebbero perciò un’occasione di restare perplessi particolarmente duratura nel tempo: in quale modo tale cefalopode della grandezza non maggiore ai 9-10 cm poteva riuscire a mettere al mondo, in effetti, figli già grandi oltre un terzo della sua misura complessiva e perfettamente capaci di sopravvivere in solitudine? Sistema niente meno che necessario, visto l’infelice destino di colei che si occupava di metterli al mondo, per la programmazione genetica ad autodistruggersi nel momento stesso in cui la sua missione riproduttiva avrà finalmente raggiunto il coronamento. Una caratteristica apprezzabile in varie misure per molte specie di polpo, ma particolarmente degna di nota in questa piccola specie predatoria, che si riteneva tra l’altro vivere per un periodo di tempo di poco superiore ad un anno. Questo almeno, finché una serie di spedizioni esplorative guidata dal Prof. Bruce H. Robison dello MBARI (L’Istituto di Ricerca dell’Acquario di Monterey) non raggiunsero le profondità della profonda fessura omonima a largo della costa californiana, per scorgere un qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la percezione di questo notevole animale abissale. Una visione progressivamente sempre più sorprendente, nonché memorabile, ogni volta che si dimostrava capace di estendersi nel tempo presso quella scoscesa formazione a circa 1.400 metri di profondità. Al punto che l’unico modo possibile per narrarla, tra i diversi approcci disponibili, diventa elencare semplicemente i fatti con la modalità e nell’ordine in cui sono stati annotati dalla scienza. Così la piccola madre, diventata geneticamente incapace di nutrirsi per l’intrinseca predisposizione che si ritiene concepita al fine di evitare il sovrappopolamento a vantaggio delle nuove leve, continuava non soltanto a sopravvivere, bensì fare fedelmente la guardia alle sue uova senza mai raggiungere il limite ultimo del proprio resiliente organismo. Fino al giorno in cui lo sguardo delle telecamere non si trovò a riprendere una parete rimasta ormai disabitata, con soltanto le uova schiuse ed ormai prive dei propri occupanti a offrire l’evidente prova di non aver sbagliato direzione. Soltanto che, a quel punto, era ormai trascorso un periodo trascurabile di “appena” 52 mesi!

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L’alchimista vegetale che seppe far degli alberi le sue chimere

Cento anni è un periodo piuttosto breve, noi crediamo. Non è poi da molto meno, che esistiamo. Volgendo le alte fronde al vento, che da sempre ci appartengono allo stesso modo, senza distinzioni. Mentre il vento soffia in mezzo ai tronchi, che s’intrecciano formando due dozzine diamanti. Albero della gabbia circolare; ci hanno chiamato. Oppure più stringatamente; l’arbusto-cestino di Erlandson, creatore delle meraviglie più spregiudicate; come l’incontro attentamente pianificato di 6 sicomori americani (Platanus occidentalis) trasfromati in un’unica creatura traforata, posta al centro esatto di un affollato giardino, in cui è possibile osservare cose concettualmente non dissimili come l’albero ad arco (formato da altri due sicomori) oppure l’otto composito (acero americano / Acer negundo) scolpito attentamente affinché il suo legno vivente forma una serie verticalmente successiva di nodi. E che dire della “porta girevole”, l’acero indotto a separarsi all’altezza di qualche metro in più diramazioni, formando un’apertura quadrangolare simile ai sostegni verticali di una giostra… Benvenuti, o perplessi visitatori, nel Circo degli Alberi più volte ricollocato nello spazio e nel tempo, fino alla sua sede attuale presso i Giardini Gilroy, ex Bonfante, della contea di Santa Clara in California. Dove nessuna nozione acquisita può essere data per buona e le forme più bizzarre furono prodotte da esseri viventi, secondo le precise istruzioni di un uomo. La cui voce ferma eppur gentile, tuttavia, non è più stata udita da intere generazioni…
C’è del resto un certo grado di violenza, assieme alla comprensione più profonda dei processi naturali, nella prassi creata all’inizio del secolo scorso della cosiddetta arboscultura, ovvero l’arte consistente nell’instradare e domare la crescita degli arbusti, come avviene nella tecnica giapponese dei bonsai. Ma non frenandone la crescita, bensì favorendola secondo linee guida finalizzate a un risultato particolarmente bizzarro, eppure altrettanto preciso; forme memorabili, insolite, fantasiose. Creazioni formidabili di una mente priva di riposo. Come quella dell’immigrato naturalizzato statunitense proveniente dalla Svezia, Axel Erlandson, nato nel 1884 e che all’età di 40 anni, nella sua fattoria californiana di Hilmar raccontava di aver visto per la prima volta un fenomeno comune, ma non particolarmente studiato. Quello attraverso cui la siepe del suo giardino vedeva gli intricati rami crescere l’uno a ridosso dell’altro, creando giunzioni tra singole piante che poi continuavano a crescere formando un’improbabile tutt’uno. Ovvero in altri termini l’inosculazione, frutto dell’adattabilità innata delle piante, capace di erodere la vicendevole corteccia quando accidentalmente o volutamente molto vicine, lasciando che il cambio al di sotto (tessuto vivente della pianta) si unisca in modo indissolubile nell’essere gestalt, o creazione collettiva, destinata a durare nel tempo. Un principio secondo cui, scoprì quest’uomo, era possibile coadiuvare un simile passaggio con quelli collaterali della potatura controllata, l’innesto e gli altri approcci finalizzati a guidare ed instradare gli esseri vegetali. Fino alla creazione di un qualcosa che, in effetti, il mondo non aveva mai potuto ammirare fino a quel momento.
Trascorse così del tempo, mentre crescevano le sue creature. Quando la moglie di Erlandson, per trascorrere un pomeriggio diverso, si trovò a visitare con la figlia un parco dei divertimenti noto come il Mistery Spot di Santa Cruz, California, dove alcuni edifici inclinati invitavano gli ospiti a riconsiderare l’effetto imprevedibile della prospettiva. Nient’altro che una delle innumerevoli roadside attractions (attrazioni a bordo strada) che da sempre caratterizzano e arricchiscono i lunghi viaggi in macchina tipici del continente americano. Che avrebbe costituito di lì a poco, l’ispirazione per il suo “Circo degli Alberi” dove ogni ragionevole aspettativa, in materia dell’interazione tra uomini e natura, avrebbe finito per essere superata abbondantemente ridisegnata….

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881 Km/h: perché all’aereo telecomandato più veloce del mondo dovrebbe servire un motore?

Da qualche parte attraversando l’alto empireo dello scibile, una macchina straordinaria sfrutta e veicola le leggi della fisica scoperte dagli umani: consumando un combustibile ragionevolmente simile a quello dei razzi spaziali, l’aereo simile a una freccia taglia l’aria neanche si trattasse dell’affilata lama di una spada da samurai. L’acuto suono del suo motore, una turbina non più grande di una bottiglia da mezzo litro, annuncia la creazione e la modifica di un flusso ventoso, che percorrendo lo speciale spazio sotto le sue ali, lo solleva e spinge fino alla sua piccola destinazione. Piccola perché piccolo è anche l’aereo, essendo a conti fatti, solamente un modellino; un modellino controllato a distanza che raggiunge agevolmente i 750 Km orari. E se ora vi dicessi che l’RC Speeder “Inferno” full GFK e mezzi similari, di cui parlammo in queste pagine qualche anno fa, è stato largamente superato in prestazioni da un qualcosa di radicalmente differente, ovvero quello che costituisce a tutti gli effetti nient’altro che un ALIANTE soggetto ad eseguire gli ordini trasmessi da un radiocomando situato a terra? O per meglio dire, in specifiche regioni della Terra, dove le condizioni meteorologiche e del territorio riescono a costituire non più soltanto il potenziale ostacolo alla realizzazione del record bensì il sostegno di partenza basilare, e la vera condicio sine qua non, che può condurre un nome ad essere iscritto nel posto d’onore del libro dei record…
Sarebbe tuttavia riduttivo, ed in qualche modo dissacrante, inserire questi due apparecchi nella stessa linea ideale del progresso umano. Poiché l’impresa recentemente compiuta dall’americano Spencer Lisenby presso la montagna Parker in California non troppo lontano da Santa Ana è il più recente coronamento di un percorso intrapreso almeno dal remoto 2017, quando in una lunga e affascinante conferenza spiegava l’obiettivo della sua compagnia di consulenza aeronautica, mirato a veicolare e mettere a frutto una specifico approccio all’esigenza fondativa di quest’intera specifica branca della tecnologia applicata: far volare qualcosa, veloce e lontano, possibilmente col dispendio minimo di energia frutto di un combustibile (che aumenta il peso) o di una batteria (che aumenta DI MOLTO il peso).
Ecco dunque, nel memorabile 19 gennaio recentemente attraversato, il veicolo che decolla direttamente dalla mano del suo aiutante, o per meglio dire “viene lasciato andare” vista l’evidente assenza di qualsivoglia tipo di elica o ugello di scarico del turbocompressore. Trattasi in effetti, di una dimostrazione pratica delle straordinarie potenzialità nascoste in quello che prende il nome di volo veleggiato dinamico, significativa scoperta per gli umani di questi ultimi anni, teorizzata e messa in atto per la prima volta dalla leggenda dell’aeromodellismo Joe Wurts negli anni ’90. Ma che altri piumati esseri di questo pianeta, da un tempo assai più lungo, avevano conosciuto e messo a frutto al fine di ridurre il dispendio energetico durante le lunghe migrazioni da un lato all’altro degli oceani distanti. Immagino sia chiaro, a questo punto, ciò di cui stiamo parlando: le tecniche di volo dell’albatross urlatore (Diomedea exulans) e molti altri, applicate a un semplice pezzo di fibra di vetro, legno di balsa e plastica. Sfruttate per raggiungere una cadenza di Mach 0.71, ovvero in altri termini, oltre due terzi della velocità del suono. Incredibile, a dirsi…

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