L’imperscrutabile mappa del cosmo nella culla del Buddhismo Theravada

Il mito trasversale delle Antiche Conoscenze è un filo conduttore che collega non soltanto i popoli di angoli diversi della Terra, ma anche momenti particolarmente distanti nella vicenda cronologica dell’uomo. Ci sono conclusioni empiriche che d’altro canto possono variare, sulla base del contesto e le precipue circostanze vigenti. Mentre l’utilizzo di concetti aleatori, per loro stessa e implicita natura, può permettere l’arrivo a conclusioni che potremmo definire a tutto tondo, Universali. O in altri termini dei tondi che contengono, in maniera metaforica, l’intero Universo. Proprio questo è d’altra parte il punto di partenza di un soggetto grafico come il mandala o yantra, ideale diagramma pensato per rappresentare in un sol colpo gli abitanti della Terra e tutto ciò che hanno intorno. Invenzioni risalenti all’Induismo arcaico, quando i teorici di un clero eterogeneo presero l’ambiziosa decisione di mettere in chiaro la disposizione del Creato e tutto ciò che vive, o agisce al suo interno. Il che significa da un alternativo punto di vista, che in tale approccio analitico alla disquisizione di Ogni Cosa ricorrono tematiche appropriatamente coordinate. Luoghi e punti di partenza come fili di collegamento di un pensiero profondo. Ma che dire della mente estrosa e spesso imprevedibile, degli estrosi? Coloro che mediante il tratto del proprio pennello, o i molteplici colpi del cuneo utilizzato per incidere la pietra (come in questo caso) potrebbero essersi impegnati per dar forma ad un sentiero alternativo nondimeno pertinente alla questione che intendevano tramandare. Con risultati spesso… Interessanti.
Il Sakwala Chakraya è un disco inciso del diametro di 1,9 metri su una parete rocciosa perfettamente verticale all’interno del giardino Ranmasu Uyana, parte del complesso monumentale della città cingalese di Anuradhapura, famosa per essere stata tra le altre cose la capitale del regno omonimo, durato dal 417 al 1.017 d.C. Sei secoli durante i quali, trasformandosi in un centro di riferimento culturale ed economico, vide convergere tra i suoi palazzi e residenze le considerevoli risorse necessarie a costruire alcuni dei templi più notevoli del Mondo Antico, tra cui il grande stupa destinato ad ospitare le offerte per il Buddha di Ruwanwelisaya, alto 103 metri e di un diametro di 290. Ciò che trova rappresentazione in questo sito comparativamente piccolo e considerato spesso degno di poco più di una nota a margine sulle guide turistiche, è il tipo di creazione culturalmente difficile da collocare, se non proprio e totalmente fuori da qualsiasi tipo di perimetro concettuale determinabile a posteriori. Con figure, immagini e forme geometriche dal significato poco chiaro che parrebbero d’altronde suggerire, alle menti particolarmente aperte, la possibilità di una visione delle cose diametralmente contrapposta a quelle di cui abbiamo già notizia…

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Il giorno in cui guardammo la Thailandia dalla bocca di un rospo

Molti sono i sentimenti suscitati nel protrarsi di un reale viaggio avventuroso, la trasferta nei recessi di un paese e la cultura nazionale che deriva. O le sue versioni maggiormente specifiche, rispettivamente derivanti da rapporti irripetibili col mondo naturale, i suoi abitanti, le sue irripetibili circostanze. Nella provincia della Thailandia settentrionale di Yasothon, sulle sponde del placido fiume Thuan, una figura poderosa emerge ad invitare un prolungato sguardo, se non addirittura l’avvicinamento dei curiosi. In modo tale che l’attraente ingresso, situato tra le zampe posteriori della bestia, porti molti al singolare e memorabile attraversamento della soglia. Benvenuti, spero siate pronti a tutto. Siete stati appena divorati da un rospo. Cinque piani è la sua altezza indicativa, benché ce ne siano almeno un paio in meno all’interno, per un totale di 21 metri d’altezza e 19 di larghezza. Con una forma, colori e atteggiamento vagamente riconducibili al Duttaphrynus melanostictus o rospo comune asiatico, benché l’ascendenza mitologica della creatura abbia legami assai profondi con la religione ed il folklore di questo luogo. Proprio qui in mezzo alle genti un tempo della minoranza etnica degli Isan, prima che il grado d’integrazione raggiunto permettesse di annettere a pieno titolo questa provincia nel novero del reame. La versione moderna, caso vuole, di quella stessa realtà politica e d’aggregazione che fu dominata nella nebbia dei tempi da un re saggio, la cui unica sfortuna fu quella di mettere al mondo un erede talmente lontano dal concetto canonico di bellezza esteriore, basso e dalla pelle scura e ricoperta di bitorzoli, da portare la brava gente della sua epoca a chiamarlo il rospo. Il che l’avrebbe portato a rivolgersi in preghiera a Phraya Thaen, il dio della pioggia e della creazione, affinché alterasse il proprio aspetto fisico rendendolo un giovane attraente, oltre a concedergli un vasto palazzo ed una moglie dalla bellezza conturbante. Il che avrebbe portato una dura lezione in merito alle leggi dell’equilibrio cosmico dettate dal peso significativo del karma, quando le genti cominciarono a venerare il proprio sovrano terreno con il nome di Phraya Khan Khak, ovvero “il re rospo” recandogli costose e significative offerte. Mentre dimenticavano, con la classica deriva di simili racconti, l’importante abitudine di fare lo stesso a vantaggio del divino Phraya Thaen. Con la conseguenza che di lì a pochissimi giorni la pioggia avrebbe smesso di cadere sulla Terra, mentre tutto il raccolto deperiva e significativi incendi imperversavano da un lato all’altro del regno. Il che avrebbe costretto lo splendente governante responsabile di tutto questo d’indossare la sua armatura, ed alla testa di un singolare esercito prendere d’assalto le porte stesse del Paradiso…

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Gli eterogenei tesori cinesi nella fortezza meridionale del Buddha d’Oro

L’idea che la maggioranza delle metropoli d’Asia presentino un volto tradizionalista, improntato sull’architettura nazionale e identitaria che permette di distinguerle istantaneamente dalle loro controparti occidentali cessa progressivamente di mostrare una particolare rilevanza, nel momento in cui si prende atto della loro vastità e lo spazio riservato all’utilizzo pratico degli spazi. Luoghi come Pechino, Shanghai, Chongqing, pur essendo estremamente ricchi di palazzi e strutture storiche, nel momento in cui si lasciano i quartieri maggiormente documentati sulle guide turistiche rivelano la loro pura e più contemporanea essenza, fatta d’infrastrutture tecnologiche, svettanti grattacieli e isolati ben più avveniristici del classico concetto di hutong. Un contrasto mai più netto di quello direttamente osservabile nella città meridionale di Yulin, non troppo lontano dalla penisola vietnamita e l’isola di Hainan, eppure più simile per la sua impostazione urbanistica alla Cina corrente che al Sud-Est asiatico di cui dovrebbe, almeno geograficamente, essere tutta una parte. Per cui l’esposizione visuale dei molteplici reperti ed opere d’arte, qui fatte confluire attraverso i secoli in qualità d’importante centro d’interscambi commerciali ed amministrazione burocratica del Celeste Impero, sembrerebbe aver preso nei tempi moderni una piega senz’altro caratteristica, per non dire essenzialmente unica al mondo: la costruzione di un gigantesco palazzo, più simile a un castello nella propria configurazione, che costituisce anche per estensione la maggior struttura di siffatta natura dell’intero paese. Primato effettivamente strappato, nell’anno 1998 del suo completamento alla svettante costruzione tibetana del Potala, residenza del Dalai Lama tra il 1694 e il 1959, quando scelse di riparare all’estero per l’arrivo delle truppe d’invasione cinesi. Un gigante di “appena” 130.000 mq contro i circa 140.000 del Yuntian gong (云天宫 – Palazzo del Cielo) con la sua altezza di 108 metri e 21 piani, le torri laterali digradanti a circondare ed abbracciare un padiglione dal tetto a pagoda, nel quale si trova custodito il più grande Buddha d’Oro al chiuso del mondo, una formula impiegata in campo artistico per classificare tale tipologia di opere scultoree assemblate da una lega bronzea di color giallo intenso. Per un totale di 600 tonnellate, pari al peso di un enorme camion per il trasporto dei materiali grezzi nel campo delle miniere. Laddove nulla, nella complessiva concezione di questa struttura, lascia intendere uno spazio preponderante riservato a cognizioni di natura pratica o ingegneristica, con l’intento primario evidente di creare un’attrazione memorabile per lo sguardo dei visitatori, ma anche un simbolo capace di raggiungere la propria fama imperitura al di là dei semplici confini cinesi. Una vera e propria meraviglia scenografica, in altri termini, non del tutto scevra della dote di crearsi un imprescindibile alone di mistero…

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Un pregno viaggio alle radici della bambola dei desideri giapponesi

Se impiegando il dono dell’ultraterrena osservazione, come foste diventati temporaneamente membri della stirpe sovrannaturale degli yokai (dove il pluri-occhiuto e l’incorporeo vanno spesso a braccetto) poteste spiare il ripiano più alto della libreria di ogni singolo studente iscritto all’ultimo anno dell’Università di Tokyo, scorgereste nella maggior parte dei casi la forma di un ovoide di colore vermiglio, privo di arti ma col volto caratterizzato da un gran paio di baffi, il naso stilizzato e due folte sopracciglia, sotto cui, in maniera singolare, campeggia il piccolo cerchio nero di un occhio soltanto. Ma se successivamente alla festa della loro cerimonia di laurea, ancora una volta decideste di evocare il vostro potere, tutti questi soprammobili apparirebbero diversi in un singolo, significativo dettaglio: la comparsa del secondo punto scrutatore, del tutto simile all’organo di caccia di un bizzarro gufo di cartapesta. Come ricompensa per l’aiuto offerto ai suoi devoti proprietari. Egli era, costituisce ad oggi e sarà per sempre Daruma (だるま / 達磨) alias Bodhidarma, alias Bìyǎnhú, anche detto il più santo ed importante di tutti i membri del clero buddhista che abbiano calcato le strade dell’Estremo Oriente. Anzi in effetti a dire il vero, anche il primo, essendogli attestata l’impresa niente affatto semplice di trasportarne l’insegnamento dalla remota India di partenza, lungo le steppe sconosciute dell’Asia centrale e fino ai quattro confini del Celeste Impero Cinese. Tra il quinto e il sesto secolo, probabilmente, molto prima che le ragioni del marketing ed il coinvolgimento religioso di ampie fasce di popolazione portassero all’iniziativa di rappresentarlo come un uovo, forma proto-antropomorfa meritevole di un significativo approfondimento. Questo poiché si narra, tra le molte storie che accompagnano questa figura importantissima, di come una volta giunto nella parte centrale della Cina, la sua venuta venne infine accolta con l’ostilità di strutture clericali pre-esistenti. E quando gli venne negato l’accesso al divino tempio di Shaolin dedicato al perfezionamento delle arti marziali (più simile in effetti a una fortezza, come ben sappiamo) egli decise di fermarsi a meditare all’interno di un’oscura caverna tra le montagne. Per un periodo approssimativo di nove anni, senza mai distogliere lo sguardo dalla sdrucciolevole parete di pietra che sarebbe diventata tutto il suo mondo. Fatta eccezione per quella singola volta, attorno al settimo volteggio del calendario, quando si addormentò accidentalmente per un attimo, decidendo al suo risveglio che l’unica soluzione possibile era tagliarsi via le palpebre. Del tutto. Spirito di abnegazione niente meno che supremo, ricompensato dalla karmica legge d’equivalenza con la nascita istantanea della prima pianta di Tè in quel mistico recesso. Eppure, strano a dirsi, il peggio doveva ancora venire: quando al termine del proprio corso di riflessione e preghiera in stato pressoché assoluto d’immobilità, il supremo asceta scoprì che le proprie gambe e braccia si erano atrofizzate ormai da tempo, ed invero si erano staccate dal busto centrale del suo corpo a digiuno. Così ricevendo al termine del proprio viaggio la benedizione più elevata che fosse possibile pretendere dall’universo e colui che ne conosce il più profondo dei significati, scomparve dalla storia, avendo assai probabilmente ottenuto il Nirvana. E chi l’avrebbe detto che oltre dieci secoli dopo, in un particolare tempio giapponese, ai membri del suo culto millenario sarebbe venuto in mente di raffigurare questa storia nel modo più semplice, diretto e a dire il vero non del tutto privo di un’eclettica dose d’umorismo? Creando i presupposti per far scendere di nuovo Bodhidarma giù dalla montagna. Come un’ovoide sfera di sapienza infusa del più assoluto controllo sul mondo e la natura. Oltre al compito importante, per qualsiasi tipo di cultura, di riuscire in qualche modo a facilitare la vita delle persone…

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