Bianco è il tempio dove Predator alberga tra gli spiriti materialisti del Buddhismo Theravada

Non ci furono particolari dubbi, nel momento in cui Arnold Schwarzenegger pronunciò nel 1987 l’iconica battuta “Get to the chopper!/Presto, all’elicottero!” nel film destinato a diventare un cult di John McTiernan, sull’orgoglioso cacciatore alieno di esseri umani, egli interpretasse un commando che era “Dutch” (olandese) di nome e non di fatto, visto la caratteristica e marcata inflessione tedesca del suo eloquio. La stessa che sarebbe stata, per le decadi ulteriori, resa in uno scherzo ricorrente o meme con la trascrizione semi-seria del termine finale in choppa, ancorché nessuno avrebbe mai potuto interpretarla come ubosot. Peccato! Un’occasione persa di profetizzare, in qualche modo, l’apertura ai visitatori esattamente 10 anni dopo di quella che sarebbe diventata una delle strutture più famose di Chiang Rai, città di 77.000 abitanti nell’estrema parte settentrionale della Thailandia. Molti dei quali devoti ai valori tradizionali di quel paese, con particolare attenzione nei confronti del sovrano e del Buddha che salvaguardia il ciclo karmiko dell’umanità. Assediata da ogni lato, un po’ come nel salmo 23:4 reso celebre dall’altro film Pulp Fiction, dalle insidie e i mali del mondo che innumerevoli culti, religioni e discipline hanno saputo identificare con tipologie di volti e aspetti divergenti. Visione cosmologica, quest’ultima, efficacemente al centro del comparto visuale ricercato con il Wat Rong Khun o “tempio bianco” secondo alcuni una vistosa trappola per turisti, nell’opinione di altri un simbolo della sapienza e devozione di Chalermchai Kositpipat, il rinomato pittore, scultore e progettista nato nel 1955 per diventare probabilmente una delle voci più influenti dell’arte moderna di quel paese. Fino all’accumulo di un prestigio e risorse sufficienti al fine d’intraprendere, a seguito di un sogno, la costruzione di quello che dovrà costituire il suo più duraturo lascito a vantaggio delle generazioni future.
Ben lontano dal vantare, sia questo immediatamente chiaro, la configurazione tipica di un qualsivoglia luogo di culto dell’Asia sud-orientale, vantando in primo luogo pareti esterne di un bianco brillante simile alla porcellana, grazie all’inclusione di specchietti e pezzi di vetro nell’impasto dell’intonaco candido come la neve. Sotto tetti ornati fino all’inverosimile, sormontati da statue e figure simboliche che affollano il terreno del complesso di edifici. Come l’impressionante gruppo scultoreo delle mani protese che fuoriescono dal sottosuolo, ai due lati della passerella principale per accedere all’ubosot (sala di preghiera centrale) tra cui figurano tra gli altri dei teschi dalla forma non immediatamente attribuibile ad alcun tipo di creatura terrestre. Almeno finché non si scorge, a poca distanza, la sagoma semisepolta di un realistico yautja (cacciatore) il feroce nemico umanoide di Dutch e gli altri protagonisti del vetusto leggendario cinematico titolare. La metafora, naturalmente, risulta essere piuttosto chiara: gli spettri dell’intrattenimento americano cercano di spaventarci tramite iconografie potentemente subdole nella propria fondamentale mancanza di realismo. Mentre soltanto Buddha al termine di quel doloroso cammino può effettivamente dirsi, a tutti gli effetti, reale…

Spesso ben lontano dalla sottigliezza nel veicolare i propri messaggi di creativo senza regole né freni di contesto, Chalermchai ha quindi elaborato a più livelli questa linea metaforica nello spazio della monumentale creazione architettonica, avendo particolare cura di congiungere, dietro una facciata tradizionalista, elementi appartenenti alla tradizione endemica e la cultura popolare della Thailandia post-modernista. Non lontano da statue immediatamente riconoscibili di Kinnaree, uomini uccello dell’antica mitologia, figura dunque un albero da cui pendono le teste mozzate di vari supereroi, mostri ed eroi di Hollywood inclusi Indiana Jones ed Harry Potter. Osservati dalla figura statuaria sopra una panchina di quello che sembra un variopinto ibrido tra Master Chief della serie Halo, Spider-Man e Doom Guy. In base al resoconto di chi ha dunque visitato il sancta-sanctorum propriamente detto, dove le foto sono rigorosamente vietate, i dipinti dell’artista all’interno non abbassano d’altronde in alcun modo il tono della latente verve iconoclastica del sito. Con vibranti rappresentazioni di fuoco, fiamme di una guerra nucleare, scene religiose e riferimenti moderni alle astronavi e missili di varia natura. Oltre a una scena delle Torri Gemelle colpite l’11 settembre, non soltanto da un jet di linea ma anche dei serpenti dal volto umano e quello che può essere soltanto descritto sinteticamente come un Angry Bird. Ricorrente tutto attorno e dentro il sito nel frattempo la figura dei Nāga o uomini-serpenti come guardiani, guide spirituali, antesignani dei due colossali Dei, l’astrale Rahu e la personificazione della morte terrena che affiancano la parte finale dell’ubosot. Significativo anche l’aspetto delle toilette dedicate ai visitatori, situate in un edificio separato, non meno ornato e di colore totalmente aureo, a simboleggiare la natura falsamente preziosa delle necessità del corpo rispetto alla pura mente che può elevarsi dall’ego.
Eppure tali e tanti deviazioni dalle aspettative tipiche, fatta possibilmente eccezione per visitatori più sensibili, raramente appaiono veicolare un messaggio di fondamentale irriverenza, bensì l’attualizzazione di uno schema di valori e priorità che in ultima battuta vorrebbero costituire l’obiettivo della comunicazione d’artista. Personaggio eclettico che nel corso della sua carriera, nonostante le controversie suscitate a più riprese, è sempre stato un fondamentale interprete della corrente Neotradizionalista thailandese, ritornando a quelle rappresentazioni riconoscibili e rassicuranti della vita monastica coadiuvata da saltuarie manifestazioni della buddhità che può giungere a permeare ogni cosa. Persino gli artigli, ricurvi e minacciosi, di uno dei mostri più celebri del cinema degli anni ’80 e ’90.

La natura comunicativa del Wat Rong Khun, così fortemente d’impatto e conforme a stilemi di tipo internazionale, non poteva dunque esimersi dal diventare un’importante attrazione turistica, fatta visitare dalla quasi totalità dei tour operators lungo il sentiero per luoghi dalla storia maggiormente lunga ed articolata. Non che all’opera di Chalermchai sia mancato, nel corso della sua pluri-decennale opera di costruzione, almeno un significativo incidente di percorso. Ovvero il terremoto del 2014, che pur avendo danneggiato diversi soffitti e mura non portanti, fu giudicato ad ispezioni successive non aver compromesso in alcun modo irreparabile la struttura principale. Permettendo all’artista di riprendere l’agognata ricerca della perfezione, che egli stesso afferma non potrà essere completata entro il giorno della sua dipartita. Bensì tra 70, 80 anni innanzi all’epoca corrente, nonostante le caratteristiche fondamentali del complesso siano già state largamente definite. E chissà per allora quanti altri sogni antropomorfi, oppure incubi di questo luogo parzialmente ameno, potranno trovare modo di sorgere per afferrare le caviglie dei visitatori coraggiosi, dalle viscere materialiste di un mondo perduto!

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