Il villaggio turco che comunica fischiando

Se doveste visitare uno di questi giorni la comunità montana di Kuskoy, nella parte settentrionale della Turchia, non troppo lontano dalle coste del Mar Nero, potreste rimanere colpiti da un insolito suono. Come il verso di un uccello, che riecheggia da una valle all’altra, modulato in infinite varianti che cambiano in base al momento della giornata. Non si tratta del canto di un pappagallo, o la melodia diseguale di un corvo particolarmente creativo. Bensì della gente che parla il ku__ş diliun idioma il cui nome potremmo tradurre, alquanto appropriatamente, con l’espressione di “lingua degli uccelli”. Di certo questa è la prova che la comunicazione umana, lungi dall’essere un costrutto artificiale, è la risposta ad una primaria necessità e come tale, soggetta ai meccanismi spontanei dell’evoluzione. Che nel caso specifico, più che prevedere la sopravvivenza dell’uno o dell’altro individuo, comporta un processo di selezione dei morfemi. C’è una chiara corrispondenza, in tutto questo, con i metodi espressivi di chi svolge un particolare lavoro in luoghi inadatti alla trasmissione auditiva di parole complesse, come moli portuali, opifici o pubblici mercati di scambio. Costui inizierà, ben presto, ad esprimersi in modo conciso e preferibilmente, a voce alta. Ma cosa pensate che succeda piuttosto, se la problematica di fondo è la distanza? Questo luogo ameno, dove i prodotti principali sono il tè e le nocciole, presentava uno scenario piuttosto atipico: ecco un sistema di calli e promontori immerso nella natura, dove la cacofonia di fondo è letteralmente inesistente. Ma lo zio, la moglie, il nonno, si trovano a dover dire qualcosa ai loro famigliari, che si trovano due o trecento metri più sopra a svolgere faccende nel cortile di casa. Cosa fare, dunque…. Mettersi di buona lena, camminando fin lassù per poi tornare al punto di partenza: impossibile. Segnali di fumo: geograficamente fuori dal contesto. Perché non mettersi, piuttosto, semplicemente a parlare? Difficile, dopo tutto, negarlo: l’apparato fonatorio umano è in grado di fare molte cose. Compreso stringere le labbra, posizionare adeguatamente la lingua e i denti, per emettere, quindi, un flusso continuo d’aria dai polmoni. È l’atto universale del fischio, finalizzato a produrre un suono acuto e perfettamente udibile, in condizioni ideali, fino a un chilometro di distanza. Come per il caratteristico e non più udito suono dei modem 56k, diventa quindi difficile non porsi la spontanea domanda, relativa a quanti e quali significati possano nascondersi all’interno di una simile attività.
La prima tentazione è di dire: parecchi. Sarebbe difficile non considerare, a tal proposito, l’efficienza del telegrafo, che dalla semplice ripetizione ed interruzione di un segnale può brevemente riprodurre le 26 lettere dell’alfabeto, i dieci numeri e svariati segni diacritici utili alla trasmissione di un qualsivoglia messaggio. Ma ridurre la lingua degli uccelli ad un semplice codice unidimensionale sarebbe decisamente insoddisfacente, vista la sua capacità di trasmettere, assieme ai contenuti, informazioni contestuali come il senso d’urgenza, l’enfasi o il sentimento. Questo perché, persino sulle lunghe distanze attraverso cui viene utilizzata, gli interlocutori possono generalmente vedersi, interpretando quindi i rispettivi linguaggi del corpo e l’atteggiamento generale del parlante. Rendendo l’idioma in questione un metodo di comunicazione intrinsecamente superiore a svariate alternative digitali, quali l’SMS o l’E-mail. Ma non, purtroppo, della semplice telefonata. Ragione per cui la pratica, un tempo diffusa in tutta la regione rilevante del Giresun, è andata progressivamente riducendosi, fino al solo ambiente del villaggio isolato di Kuskoy. Perché proprio in questo luogo, non è facile da determinare. È forse possibile che proprio qui fosse vissuta la persona che, qualche secolo fa, codificò formalmente un sistema che vigeva nei fatti almeno dall’epoca dell’Impero Ottomano (ogni linguaggio trae certamente vantaggio da un promotore innegabilmente autorevole) oppure che, una fondamentale necessità di sottrarsi allo scrutinio da parte delle autorità costituite, avesse portato gli abitanti proprio di questo luogo a farne un’uso più assiduo, al fine di comunicare ai vicini di casa l’arrivo di eventuali ospiti in divisa. Ma l’aspetto più significativo è che poiché una lingua in corso di utilizzo difficilmente può restare immutata nel tempo, anno dopo anno, un lessema dopo l’altro, la lingua si è trasformata in una sorta di arte popolare, ampliata dagli abitanti con l’inclusione di nuovi e sempre più sofisticati termini in uso nel mondo contemporaneo. Ma prima che tale affermazione possa trarvi in inganno, vediamo di analizzarne brevemente il funzionamento…

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I soli vermi che capiscono il Natale

Tutti sanno che il nemico naturale del piccolo arbusto ricoperto di addobbi in occasione della principale ricorrenza invernale, nella maggior parte delle abitazioni, è il gatto. Il quale semplicemente non potrebbe mai fare a meno, neanche volendolo, di cercarne il punto debole con gli artigli, afferrare il tronco, arrampicarsi tra le palle con la massima probabilità di far danni. Ma chi è, nell’ambiente sottomarino della barriera corallina, il felino dispettoso della situazione? Personalmente non ho alcun dubbio: dovrà necessariamente trattarsi del pesce tetrodontide, il più velenoso vertebrato al mondo. Agile nuotatore, perennemente alla ricerca di una preda, che sa come difendersi anche da creature molto più grandi di lui: incamerando l’aria fino a gonfiarsi, anche se al posto del pelo, frappone al mondo un manto di sottilissime spine. Per le sue abitudini, usano chiamarlo pesce palla. Anche l’albero di Natale che tende ad essere l’oggetto delle sue indesiderate attenzioni, dal canto suo, è molto diverso da quello di superficie. Innanzi tutto per le dimensioni: 5-10 cm invece che un metro e mezzo oppure due. Dimensione ridotta dalla quale, di contro, deriva una capacità decisamente insolita per le piante, soprattutto quando private delle radici: ritirarsi dagli sguardi indesiderati e nascondersi all’interno del proprio vaso. Vaso o forse dovremmo dire, nel presente caso, tubo. Quello che il colorato alberello, completo di decorazioni variopinte e tutto il resto, secerne all’inizio della sua vita di adulto, dopo essersi aggrappato all’essere che proteggerà la sua esistenza. Già, “adulto” perché a dire il vero, la creatura di cui stiamo parlando non è propriamente un vegetale, bensì uno di quegli anellidi policaeti (vermi!) che attraversano, nel corso della propria vita, almeno un’importante metamorfosi, dallo stato di larve galleggianti nel plankton a creature sessili, ovvero del tutto incapaci di muoversi fino al termine della loro esistenza.
Può così capitare negli ambienti tropicali del vasto oceano, di scorgere il dentone di cui sopra che fluttua con interesse nei pressi di un paio di questi variopinti soggetti, facendosi avanti un centimetro alla volta, finché non si trova a portata di bocca. Ed è allora, generalmente, che avviene l’inaspettato: l’albero coi suoi rami, il puntale e tutto il resto, si richiude su se stesso, prima di ritrarsi e scomparire del tutto dalla sua vista. Questo perché, alquanto inaspettatamente, gli è riuscito di vedere il pericolo prima che fosse troppo tardi. Già perché pur facendo parte della stesso phylum del lombrico di terra, altrettanto bilateralmente simmetrico e metamerico nel susseguirsi dei propri segmenti, le somiglianze sostanzialmente finiscono qui. Lo Spirobranchus giganteus ha infatti sviluppato un modo per notare l’avvicinarsi del pericolo, senza dover mettere degli occhi fuori dalla sicurezza del tubo di appartenenza: stiamo parlando, in parole povere, di molecole sensibili alla luce incorporate nel suo apparato branchiale, facente per l’appunto parte delle appendici simili a rami che lascia oscillare nella corrente, chiamati cheti, da cui il nome della classe di appartenenza: poli(molti) -cheti. Contrariamente al nostro termine di paragone, inoltre, i vermi-albero non hanno mai imparato a scavare. Semplicemente perché sono molto, molto più furbi di così. Nel momento in cui si posano per l’ultima volta lasciando indietro la loro vita di larve trocofore, infatti, fanno in modo di ancorarsi a una superficie “vivente” ovvero un qualche tipo di corallo roccioso come la madrepora o la porite, dalla struttura scheletrica in aragonite. Iniziando quindi a secernere il proprio tubo di calcite non solubile, affinché la colonia di polipi, crescendo nelle dimensioni, finisca inevitabilmente per incorporarlo. Condizione a seguito della quale, praticamente, il rifugio farà in modo di costruirsi da se. Un sistema che non potremmo che definire efficiente, vista la vita media di questi variopinti vermi: fino a 30-40 anni, benché allo stato brado, molto spesso, non riescano a raggiungere neppure i 20. E questo generalmente, a causa di qualche famelico felino di passaggio…

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La scuola elementare in fondo a un dirupo di 800 metri

L’immagine è piuttosto ansiogena e difficile da dimenticare: una quindicina di bambini, tra i quali il più giovane ha soltanto 6 anni, che s’inerpica faticosamente come fossero un gruppo di scalatori dai molti anni di esperienza, gli zaini dalle tonalità vivaci un netto stacco con i colori verde e marrone della montagna. A fare da apripista, normalmente, uno o più adulti, attenti ad intraprendere una strada adatta al loro seguito di allegri piccoli sherpa. Mettiamo subito da parte lo stereotipo secondo cui la scuola elementare sia stata divertente. La scuola è faticosa, spiacevole, talvolta dolorosa. È il luogo in cui i bambini, per la prima volta, devono scontrarsi con le regole e le esigenze della società. Affinché dopo diversi anni, in qualche maniera, ne escano cambiati e in grado di affrontare le difficoltà future. Ma per quanto si possa soffrire, giorno dopo giorno, nel perdere la propria ingenuità e sottoporsi a un meccanismo creato per un mondo privo delle odierne vie d’accesso alla cultura, possiamo almeno essere certi di una cosa: ovvero quanto siamo stati fortunati, per il semplice fatto di non essere nati nella contea di Zhaojue. La regione cinese, nella regione del Sichuan, dal terreno estremamente scosceso e disseminato di montagne, dove si trova da 200 anni il villaggio di Atule’er. Perché vedete, per le circa 74 famiglie di questa comunità agraria e pastorale, è del tutto normale inviare due volte al mese i propri pargoli in un luogo presso cui possano apprendere le basi dello studio e dell’educazione. Discendendo ognuna di quelle volte, a partire dal loro luogo di nascita, una parete quasi verticale grazie all’uso di alcune fatiscenti scale di rattan. E così terribilmente pericoloso, risulta essere questo tragitto, che negli anni si è deciso di farli dormire laggiù per la maggior parte del loro tempo, riaccompagnandoli fino in vetta solamente in occasione delle festività locali. La ragione di questa anomalia, diventata celebre nel mondo qualche anno fa grazie a un articolo del People’s Daily Online e all’opera del fotografo di fama Chen Jie, che trascorse svariate settimane assieme agli abitanti percorrendo più volte su e giù il sentiero che li separa dalla civiltà., va ricercata nella storia di questi luoghi, abitati da un’etnia anticamente nota come Lolopu, in funzione della loro abitudine di venerare come essere supremo la tigre. Un popolo composto da numerose tribù continuamente in guerra tra di loro, così che in svariati casi (nei dintorni ci sono altri tre villaggi come questo) i loro membri decisero di ritirarsi in luoghi che risultassero inaccessibili ai loro nemici. A spingerli progressivamente più in alto, quindi, ci pensò la fauna locale, popolata di cinghiali particolarmente rovinosi per i campi coltivati e scimmie piuttosto aggressive, notoriamente abituate a lanciare sassi contro i viandanti. Finché finalmente, sulla cima di questa montagna, non venne scoperta una fonte di acqua limpida e copiosa, adatta ad irrigare i campi e fornire sostentamento ad un intero villaggio di convinti lavoratori. Nacque così un’economia basata principalmente sulla coltivazione di noci e peperoncino, oltre all’allevamento di capre e maiali. Ma con la nascita della Cina moderna, e il passaggio a valle di una strada asfaltata, ben presto la comunità si divise, andando a formare una città nuova ad una quota decisamente più accessibile ai più. Tale luogo, ben presto, venne fornito di una scuola.
La Cina, persino nelle sue accezioni più rurali ed isolate, costituisce da sempre uno dei paesi in cui l’educazione viene tenuta in più alta considerazione, principalmente in funzione dell’etica confuciana del rapporto dell’individuo con la società. E benché fosse forse possibile, per lo meno in linea di principio, trovare un insegnante disposto a vivere nel villaggio sulla cima del dirupo, qui occorre prima di tutto chiedersi quale sia l’effettivo scopo dell’intera faccenda. Forse i genitori ci tengono a mostrare ai loro pargoli per lo meno un transitorio scorcio del mondo sottostante? Oppure il vero insegnamento che dovranno cogliere, a conti fatti, è l’abilità stessa di discendere la parete montana, avventurandosi verso quei punti di raccordo che, un giorno, gli saranno necessari per ricavare sostentamento dalla coltivazione della terra…

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L’inestimabile fucile ingioiellato del sultano Mahmud I

Quando il Consiglio Imperiale Ottomano si riuniva, ogni ingresso del palazzo di Topkapi veniva guardato a vista da uno stuolo di giannizzeri armati fino ai denti: lance, sciabole, fucili. Nessuna arma veniva considerato inadatta a salvaguardare l’elite governante dai più sconvenienti elementi di Kostantîniyye, la Città d’Oro, luogo instabile proprio in funzione della sua storia, della sua vastità, della posizione strategica che la poneva a collegamento delle terre turche con l’area dei paesi di lingua bulgara e la Grecia. Nella maestosa sala nota come il Kubbealtı, sotto cui si trovava il prototipico Divano, al tempo stesso un gruppo di persone, nonché il seggio sopra cui si sedeva, convenzionalmente, il sommo Sultano del più vasto impero dell’Oriente rinascimentale. Il 24 novembre del 1731 la moltitudine dai maestosi turbanti taceva mentre, per l’ennesima volta, Mahmud il gobbo subiva passivamente le decisioni dei suoi funzionari. Era stato posto nominalmente al comando, d’altra parte, proprio per il suo poco interesse nei confronti del potere assoluto, all’esercizio del quale preferiva la poesia, l’arte o lo studio della natura. A seguito dell’insurrezione armata dell’anno prima istigata dall’ex soldato Patrona Halil, culminante con la deposizione di Ahmet III, zio dell’attuale governante, e lo strangolamento del suo gran visir. L’unico erede possibile era quindi stato trasportato in tutta fretta presso il complesso delle tombe di Eyüp sulle coste del Mar Nero, dove in una tradizionale cerimonia aveva ricevuto la leggendaria spada di Osman, facendone l’ultimo ricevente dell’egemonia imperiale. Una qualifica certamente scomoda, per un uomo di 35 anni che non aveva mai governato e che da ragazzo aveva dovuto sopportare l’umiliazione di vedere suo padre usurpato, per poi trascorrere lunghi anni nella prigione dorata della propria residenza privata. Dalla cui condizione, tuttavia, aveva saputo trarre vantaggio, circondandosi dei più rinomati sapienti attivi nella capitale, inclusi pittori, scultori e fabbricanti di gioielli. Vivendo in un’opulenza che persino oggi, avremmo difficoltà a concepire ed acquisendo, un giorno dopo l’altro, la dote fondamentale della pazienza. Mentre l’argomento in discussione delle ultime ambascerie giunte dal regno di Francia si andava gradualmente esaurendo, quindi, Mahmud si alzò in piedi.
Era una grossolana violazione del protocollo, che fece calare immediatamente il silenzio in sala. Le maioliche delle pareti riccamente decorate, intervallate da un portico ornamentale, parvero riflettere per un istante il suo sguardo carico di determinazione. Il sultano, quindi, fece un gesto all’indirizzo della porta, pronunciando le più inaspettate parole: “Fate entrare il condannato.” Due armigeri della guardia di palazzo, scelti tra i fedeli sostenitori della sua famiglia, entrarono quindi dalla porta principale, accompagnando a forza una figura in abiti pregiati. Un sussurro agitato percorse la sala, quando i presenti si accorsero di chi si trattava: era Patrona Halil in persona, il patriota “liberatore” dell’anno prima. Come per l’esecuzione di un copione attentamente provato, quindi, uno dei paggi del sultano fece un passo avanti dalla schiera dei servi, tutti rigorosamente musulmani, presenti all’incontro per aumentare il prestigio dei rispettivi padroni. Costui spiccava tra gli altri tuttavia perché, d’un tratto, ci si rese conto che era armato. Muovendosi come un automa, fece i pochi passi necessari a portarsi accanto al sultano, prima di porgergli il più incredibile oggetto che chiunque, fra i presenti, avesse mai visto prima di quel momento. Si trattava, piuttosto chiaramente, di un moschetto, costruito secondo le ultime innovazioni tecnologiche europee. Esso era, tuttavia, completamente fatto d’oro, e ricoperto di pietre preziose. Mentre lo impugnava con fare solenne, e tutti sembravano pronti a credere che avrebbe sparato lì ed in quel momento, Mahmud I lo abbassò di scatto verso il pavimento, sollevando in un solo fluido movimento lo sportello che si trovava sul calcio. All’interno del quale si trovava l’unica e più terribile di tutte le armi: un calamaio adibito a scrivere, assieme all’inchiostro necessario per farlo. “Patrona Halil, tu neghi di aver cospirato contro lo zio imperiale, fomentando scontenti tra la popolazione della nostra splendida città, per spodestarlo e mandarlo in esilio? Neghi di aver chiesto, da una posizione di forza, che il suo più stimato consigliere fosse messo a morte?” Ad ogni domanda,l’uomo tentava di rispondere con enfasi, ma un colpo dei suoi carcerieri lo riportavano a più miti consigli. Il fucile era tornato adesso nelle mani del servo, mentre un collega teneva sotto gli occhi del basso e tarchiato sultano una lista, da cui lui leggeva con voce stentorea le accuse. “Neghi di aver cercato l’aiuto degli infedeli, nel tentativo di promuovere la religione cristiana nella terra che fu resa sacra dagli eredi del nostro Profeta?” Qui l’espressione del veterano si fece rassegnata. Il suo destino, a quel punto, era chiaro.
Mentre i diversi visir presenti si guardavano bene dal sollevare questioni, osservando e prendendo nota del cambiamento in atto, Mahmud estrasse la penna dal calamaio, sfolgorante per le ulteriori pietre preziose. Chi si fosse trovato nella posizione idonea ad osservare da dietro le spalle del sovrano, avrebbe letto chiaramente il contenuto della condanna. “Strangolamento fino al sopraggiungere della morte.” Quale crudele, eppure stranamente appropriata, ironia…

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