Viaggiatore assapora il gusto del mango supremo

Qual’è il cibo più pregiato di questa Terra? Le uova del caviale pescato nel mare della Norvegia, affermerebbe qualcuno con enfasi, piuttosto che un grosso tartufo, scovato dal nostro amico cane tra i verdeggianti monti della Toscana. Il pistillo dello zafferano, manualmente raccolto in spropositate piantagioni, con estremo dispendio di tempo ed energia. Tutto questo e molto altro, come esemplificato dal grande libro degli ingredienti naturali, considerati e stimati sulla base della loro effettiva rarità. Dopo tutto, quale miglior modo di stimare le cose? Se non si trova, eppure tutti lo cercano, dev’essere per forza un qualche cosa di speciale. Totalmente all’opposto, come spesso capita del resto, si trova una particolare tradizione giapponese, relativa al perfezionamento estremo di una pietanza assolutamente mondana. Come avviene per lo strabiliante aspetto del bonsai, o allo stesso modo delle scaglie iridescenti della carpa Koi, si tratta di una cultura, questa volta gastronomica, che trae massima soddisfazione da ciò che è perfetto, letteralmente immacolato. Il frutto e il gusto di anni, secoli di tradizione coltivata da qualcuno che, nella vita, pone sopra un piedistallo l’ideale del miglioramento estremo in ciò che costituisce, senza ombra di dubbio, il “suo” campo. L’ambiente in cui non necessita di primeggiare, solamente, ma di eccellere al massimo le aspettative del mondo intero. Questo orgoglioso, capacissimo, sapiente agricoltore della prefettura di Miyazaki, sulle assolate coste dell’isola del Kyushu… Forse non conosceremo mai il suo nome. Probabilmente, non avremo mai l’opportunità di vederlo in faccia, né gustare DIRETTAMENTE la sua opera maestra. Ma possiamo farlo, almeno nella nostra immaginazione, grazie al video e alla testimonianza di Jared Rydelek alias Weird Explorer, colui che viaggia per il mondo, come contorsionista e mangiafuoco (mestieri veramente d’altri tempi!) cogliendo di continuo l’occasione di assaggiare il gusto della frutta più insolita e disparata. Finché lo scorso marzo a quanto ci racconta, benché i video siano stati appena rilasciati, non si è trovato presso la città giapponese di Nagoya, ed ha deciso molto giustamente, di allentare significativamente i cordoni della borsa, e spendere qualche decina di migliaia di yen presso Amane, un celebre negozio di frutta appartenente a quelle leggendarie qualità nipponiche, il cui prezzo è limitato letteralmente dalla sola immaginazione dei compratori. Il che ha pur sempre una sua logica, visto che siamo nel reame possibile del lusso, dove la legge della richiesta e dell’offerta è subordinata all’opera di dar la caccia alle balene e non intendo, in questo caso, cetacei spropositati dell’azzurro mare, bensì uomini d’affari, politici, rappresentanti con dinnanzi a se un incontro di prestigio. Che come previsto rigorosamente dall’etichetta locale, giungono in questo luogo alla ricerca di un omiyage, il regalo concepito per indurre una reazione di spontanea sorpresa e affabilità nei confronti di chi sia ha di fronte.
E proprio a questo doveva servire, l’ottimo esemplare di Taiyo no Tamago (Uovo del Sole) acquistato da Rydelek alla modica cifra di 8.640 yen (circa 70 dollari) per girare questo video, un frutto che definire sopraffino sarebbe senza ombra di dubbio un’affermazione molto riduttiva. Perché tutto, nella sua esperienza di acquisto, sembra essere stato curato fin nei minimi dettagli: la scatola inclusiva di pamphlet descrittivo, all’interno della quale il frutto è stato protetto con una retina bianca che assomiglia alla cuffia di un neonato. La confezione esterna creata al momento dell’acquisto… Di cartone lucido, recante la frase leggermente fuori contesto di à la carte (qualcuno di voi ha visto un menu?) ma si sa che il francese è una lingua che piace, e soprattutto, che contribuisce nell’indurre un’atmosfera di eleganza profonda e duratura. E ciò soprattutto lì, nel paese dove le cameriere in abito formale lavorano in qualità di hostess nei bar. E poi, il colore e l’aspetto del frutto stesso, che è perfettamente simmetrico ed uniforme, la più estrema ed assoluta rappresentazione di come un mango dovrebbe essere, tutto qui. Niente irregolarità, nessuna macchia antiestetica, sia pure questa un’espressione naturale dell’aspetto di simili produzioni vegetali. Qui l’evoluzione naturale di un albero non viene neppure preso in considerazione. Perciò al momento dell’apertura, la domanda diventa lecita: ma il sapore di cotanta perla sovradimensionata, sarà davvero all’altezza delle (elevatissime) aspettative?

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La grotta della strega che pietrifica le cose

Alle soglie del 1500, durante il regno di Enrico VIII, l’Inghilterra era un luogo pragmatico e indipendente, dove la superstizione iniziava a lasciare il passo a una diversa visione delle cose e della religione. Nelle campagne, tuttavia, sopravviveva un mondo ancora molto distante da ciò che avremmo avuto dopo, dove gli animali parlavano, gli alberi potevano spostarsi e il vento sussurrava le parole di un’arcana filosofia. La figlia della lavandaia corse rapida per il sentiero di campagna, in mezzo ai faggi centenari ed alle siepi del roveto, dietro la grande roccia, dove sgorgava l’acqua magica di Knaresborough. Nonostante le sue doti magicamente di un tale fluido curativo, o forse proprio per tale ragione, la bambina si guardò bene dal bagnarsi l’orlo della veste, temendo che potesse diventare rigida come il granito. Quindi, raggiunto il bordo esterno della caverna, cominciò a battere sulla pesante porta di legno montata con dei cardini nella montagna stessa:  “Madam Shipton! TOC, TOC! Madam Shipton! TOC, TOC!” A quel punto si udì un suono distante, come il ruggito di un orso, e la porta si aprì da sola. L’anziana donna che a ben pensarci, non sembrava fosse mai stata giovane, era seduta accanto a un luminoso focolare domestico con un gran calderone, proprio nel centro della pietrosa stanza. Il suo mento era talmente aguzzo da incurvarsi fin quasi alla punta dell’enorme naso. Uno strano cappuccio le copriva completamente i capelli, ma lei lo scostò lievemente, per guardare l’ospite inattesa con uno sguardo interrogativo. “Ma..Madam.” Un sospiro lieve: “Avete degli ospiti. Tre uomini…Dalla grande città di York.” L’eco delle parole non aveva ancora avuto tempo di spegnersi, quando gli zoccoli iniziarono a rimbombare per il sentiero. Una, due, tre bestie, contò la donna, e dall’andamento della marcia, su un terreno tanto scosceso e diseguale, comprese anche che i loro proprietari fossero piuttosto arrabbiati. O volessero dimostrare decisione. In un attimo, i misteriosi messaggeri giunsero in prossimità della porta, nella quale si trovava, al momento, incorniciata la bambina. Non vedendo la vera abitante del luogo a causa della prospettiva, il capo si rivolse a lei: “Salve, ragazza. Facci un favore: annuncia all’abitante di questo tugurio che io, il Conte di Northumberland e i miei due cari amici, il Duca di Suffolk ed il Duca di Somerset, siamo giunti ad arrecarle l’onore della nostra presenza. Ma non ti attardare. Ti assicuro che avremmo il piacere di abbandonare questo tugurio e fare ritorno il prima possibile alla civiltà.” La bambina parve esitare, tenendo gli occhi ben fissi sulla su interlocutrice quindi, spostandosi rapidamente di lato, lasciò che fosse lei a prendere la parola. “Prego, signori miei. State parlando con Ursula Shipton in persona, moglie di un umile carpentiere. Al vostro servizio. Forse gradireste accomodarvi nel mio… Tugurio?” Senza una parola, una sagoma elegante fece la sua comparsa nella cornice dell’uscio. L’uomo indossava un corpetto prezioso e portava vistosamente una sottile spada da fianco. La bambina aveva fatto appena in tempo a volatilizzarsi, che con un gesto imperioso egli aveva messo un piede in casa, dicendo: “Donna. O forse dovrei chiamarvi Insigne Malefica Strega. Io e i miei compagni siamo giunti fin qui, oggi, sulle precise istruzioni di un uomo molto importante. Di certo conoscere il Cardinale Wolsey, Arcivescovo di York. Un mio caro amico. Ora, è stato portato alla mia attenzione, e con ciò intendo che ho poi avuto modo di vedere il libello stampato con questi due stessi occhi, che una certa profetessa di Knaresborough avrebbe affermato: L’uomo corrotto giungerà in vista della città che gli spetta, dalla cima di un’alta torre. Ma egli non potrà mai varcarne porte. Sappiate che questo insulto ha causato non pochi problemi al nobile Wolsey. Sono qui ad intimarvi, dunque, di ritrattare l’affermazione.” Madam Shipton, che dall’inizio della conversazione aveva ricominciato a mescolare il contenuto del calderone, alzò brevemente lo sguardo a incontrare il suo: “Ah, si? Beh, io dico soltanto la verità. Quindi se l’ho detto, sarà verità.”
Il Conte battè il piede destro a terra. Sembrava esserselo aspettato. Il gesto costituiva, quindi, una specie di segnale affinché i due duchi, a quel punto, fecero l’ingresso nella stanza. Per primo, parlò quello di Suffolk: “Maleficus, osserva questa corda benedetta dall’acqua santa della cattedrale di York! Con essa siamo giunti a legarti, per  trascinarti volente o nolente di fronte ad un tribunale di Chiesa. Se non ritratti, brucerai, brucerai sul rogo!” Per nulla impressionata, Mrs. Shipton continuò la sua opera di mescolamento. “Behemoth!” La chiamò Mr. Somerset: “Questo paletto di  frassino incorpora una scheggia della Vera Croce. Rabbrividisci di fronte al potere della mia Fede!” Qui la strega parve soffocare una leggera risata, quindi gettò indietro il cappuccio, rivelando una massa di capelli candidi, e intricati come le serpi di Medusa. Le sue fattezze erano orribili a vedersi, tanto che gli uomini fecero un mezzo passo indietro: la testa enorme, gli occhi infuocati. Una sottile peluria le ricopriva il volto. La mano destra, raggiungendo una staffa sul muro, impugnò un bastone nodoso simile a un pastorale, che ella puntò verso il conte: “Voi, uomini di città. Venite a minacciarmi nella mia casa? Siete dei veri… Maleducati! Io non vi temo. Sappiate che io ho già visto il giorno della mia morte: il 22 ottobre del 1561, a causa di una polmonite. E sappiate anche questo, ve lo regalo: ogni vostro discendente perirà nel 1881, quando il ponte di Knaresborough crollerà per la terza volta, e il mondo cesserà la sua esistenza. Credete che il fuoco potrebbe bruciarmi? Ah, ridicolo! Guardate, se questo brucia, allora brucerò anch’io.” Così dicendo, la donna prese un fazzoletto che si trovava sullo scaffale vicino, quindi lo gettò tra le fiamme sotto la pentola, con gesto teatrale. Sotto gli occhi strabuzzati dei presenti, ovviamente, esso restò perfettamente integro. “Ar, Ar, Ar. Ma non prima che gli esseri umani volino in cielo e camminino nelle vaste profondità marine. I loro pensieri correranno più veloci del vento ed io, ed io…Non morirò.” A questo punto, Madam Shipton gettò anche il bastone nel fuoco, e ripetè: “Se questo brucia, brucerò anch’io.” E non bruciò, né diventò incandescente, vista la facilità con cui ella lo prese nuovamente in mano, intingendo le sue mani nella vivida fiamma.
Quindi con il suo mestolo d’ordinanza, pescò un po’ del brodo che stava preparando, ed iniziò a versarlo in tre ciotole poste sul tavolo da pranzo. “Ma voi siete giunti fin qui, avete fatto tanta strada. Per questo, ve lo ordino. ADESSO, mangiate con me.”

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Il suono formidabile di un’emergenza nucleare

Qui al liceo di Glen Rose non organizziamo gite coi ragazzi, ma esperienze a 360°, che permettano di sperimentare a pieno almeno un particolare aspetto della loro vita futura: come ad esempio, la MORTE. Di ogni pregressa aspettativa. Quando ci si trova in un particolare campo di battaglia esagonale, la postazione coi computer posta in centro, la luce soffusa delle lampade dietro i pannelli trasparenti, milioni di quadranti, schermi e superfici di controllo posti tutto attorno, dalla specifica funzione sconosciuta. E la dantesca guida con maglietta color salmone facente parte del personale locale, non senza un evidente ghigno d’aspettativa, spiega brevemente ciò che sta per verificarsi. Quando nulla in effetti, avrebbe mai potuto prepararvi a ciò che viene dopo. Poi con ferrea risolutezza, l’uomo si china in avanti e da il comando di “GO!” Le luci si spengono, la stanza inizia a gridare, tutto quel che può farlo, lampeggia freneticamente…
C’è una ragione scontata, per cui una tale scena assume un senso ed un’inevitabilità pressoché assolute: dove mai sarebbe possibile addestrare un tecnico per la sicurezza delle centrali nucleari? Se non dentro, per l’appunto, una centrale nucleare… Come quella di Comanche Peak a Somervell County, Texas, dove a quanto pare ci sono (almeno) due diverse sale di controllo principali. La prima usata per, beh, CONTROLLARE le cose mentre l’altra serve a simulare, simulare, recitare. Mettere paura ai visitatori. Le diverse parti di un preciso copione, relativo alle ragioni dell’Evento, l’unico per quanto vario nelle cause, quella situazione, occasionalmente ricorrente, che induce la necessità di porre un freno alla fissione degli atomi nell’irresistibile barile. Ovverosia un transiente, così come lo chiama chi lavora nel settore. Le origini della crisi possono essere svariate: forse la temperatura era salita eccessivamente, oppure l’output energetico era fuoriuscito per un attimo dai valori ritenuti sicuri per il particolare impianto. O ancora, c’era stata un incertezza momentanea degli strumenti collegati alla distribuzione del liquido di raffreddamento. Il che porta, immancabilmente allo SCRAM. Ovvero il reactor trip, l’arresto del reattore. Vorreste conoscere l’origine del termine? Ci arriveremo presto. Ma nel frattempo, rassicuratevi così: il più delle volte, previa accurata e rapida verifica, non si tratta di nulla di grave e tutto ciò che devono fare gli operatori, per riprendere la produzione di energia, è premere un pulsante che ripristina la situazione di normalità. A meno che il transiente in questione non sia stato del tipo peggiore, quello che porta le luci della stanza, anche soltanto per un attimo, a perdere vistosamente di potenza. Perché ciò significa che sono entrati in funzione i generatori d’emergenza, ovvero in altri termini, c’è stato un Loss of Offsite Power. Ovvero la centrale nucleare, per soltanto alcuni attimi, non ha più ricevuto energia dall’esterno. “Ma come…” Mi sembra quasi di sentirlo, il primo/la prima della classe a margine del capannello degli alunni: “…può mancare l’energia in un luogo che la PRODUCE?” La risposta è un clamoroso, rimbombante: SI… Più o meno. Perché naturalmente, un’installazione di questo tipo è in grado di isolarsi dalla rete, se quest’ultima presenta delle gravi, temporanee carenze distributive, ma ciò che assolutamente non può fare, è percorrere una tale strada durante il delicato processo di spegnimento. Perché è proprio a quel punto, che si presenta la più grave necessità, di un nocciolo che continua per lunghi minuti, ed ore, a produrre temperature di una generosa frazione di quelle dello stesso Dio Sole, minacciando d’andare incontro a fusione parziale o completa del carburante. E c’è soltanto un certo margine di manovra con le pompe dell’acqua di raffreddamento, quando si opera mediante le batterie di un gigantesco gruppo di continuità! Proprio per questo, nella maggior parte degli impianti, in assenza di corrente viene indotto immediatamente lo SCRAM.
Non è certo un caso se la prima capacità che viene coltivata attraverso l’addestramento del tecnico addetto alla sicurezza nucleare è la capacità di mantenersi calmi sotto pressione. Quando un’alta quantità di segnali, contemporanei e spesso contrastanti, si accende presso la parete di propria competenza, e tutto quello che resta da fare è estrarre il raccoglitore d’ordinanza sotto i controlli (potete vederli chiaramente nel video) per verificare se una simile combinazione, in effetti, si sia già verificata in precedenza. In quei momenti, sono molte le cose da verificare: gli apparati di sicurezza sono entrati in funzione correttamente? Le turbine a vapore si sono arrestate? Bastano 3-5 secondi di funzionamento delle stesse, in assenza di produzione di vapore per effetto della fissione, perché si vada a incontro a danneggiamenti per un’entità di svariati milioni di dollari. Ma soprattutto, occorre affrettarsi presso il pannello, anch’esso convenzionalmente esagonale come la stanza stessa, che indica lo stato dell’inserimento delle barre di contenimento, l’unica spada in grado di deviare il colpo di coda del furioso drago radioattivo. Lentamente, inesorabilmente, il materiale assorbitore di neutroni (argento, cadmio o boro) viene introdotto in ciascuna cella dell’ambiente di fissione, inducendo progressivamente il silenzio. Almeno, se non è il 1979, e se non vi trovate, per vostra massima sfortuna, presso la famosa centrale nucleare di Three Miles Island…

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La nonna del villaggio e il suo coltello da cucina indiano

Non sono pochissime le persone per cui, dopo una lunga giornata di lavoro, l’ultimo rifugio dal logorìo dell’inquietudine diventano i fornelli. Un luogo dove il desiderio governa i gesti e che in funzione di questa sua speciale caratteristica, si configura sulla base e le necessità dell’arte. Le tre C della Cucina: Concentrazione, consapevolezza, cumino. Se vogliamo metterci una spezia. Coriandolo, se ce ne serve un’altra. Ma è andando oltre una simile frontiera binomiale (del resto, lo si sa, non c’è due senza tre) che si sconfina nel variopinto regno della cucina indiana. Fatta di quel vasto ventaglio di sapori e polveri, che non soltanto accompagnarono il destino dei popoli di quel massiccio sub-continente, ma determinarono il fato stesso e l’andamento di oltre un millennio e mezzo dei più pregiati commerci dell’umanità. Perché è questa, soprattutto, la forza di un sapore, di un odore o di un colore: la misura dell’universale passione che attraversa i mari e i continenti. Per poi tornare qui seduti, come niente fosse, sul suolo sterrato presso la radura di un piccolo centro abitato in mezzo alla foresta, e domare quel vortice con la perizia di due mani cariche di Storia. Dove siamo, esattamente? Non ci viene detto, benché almeno un singolo elemento ci permetta di azzardare un’ipotesi geografica di riferimento: sto parlando del principale attrezzo usato dall’anziana signora nel corso della preparazione dei suoi splendidi ed enormi granchi di fiume, una sostanziale sciabola fissata ad una tavola di legno, sopra la quale lei appoggia il piede destro, affinché il taglio non possa deviare di un trentesimo di spanna. Ebbene, mai visto niente di simile? Siete al cospetto di un bonti, un attrezzo tradizionale dalla storia millenaria, particolarmente associato alle donne della regione del Bengala, nella punta nord-orientale del triangolo che costituisce l’India, al confine con il Bangladesh. Non per niente, anche nelle cucine di quest’ultimo paese, è talvolta presente una versione locale dello stesso oggetto. Qualcosa di apparentemente poco pratico, a guardarlo, ma che in realtà va inserito nel contesto di uno stile e una postura di lavoro totalmente diversi da quelli nostrani, in un’area geografica in cui semplicemente, a nessuno è mai venuto in mente di sprecare lo spazio in casa con cose come sedie, tavoli, banchi di alcun tipo. Dove tutto quello che serve per produrre le pietanze energizzanti a vantaggio di parenti, figli e nipoti sono giunture flessibili e ginocchia solide come l’acciaio. Doti che diventano, a questo punto, pressoché scontate.
La qualità e il pregio registico di questa serie per il web, fatta forse eccezione per la colonna sonora non sempre appropriatissima (benché persino quella, andrebbe contestualizzata) coinvolgono lo spettatore con piglio quasi ipnotico, finendo per indurre in lui uno stato d’animo probabilmente comparabile a quello di molti dei commensali presenti per l’evento. La nonna comincia spesso dai princìpi più remoti, impugnando mortaio e pestello per prepararsi da se almeno una parte delle polveri che userà nel suo curry. A tal proposito, è appropriato fare una notazione di tipo linguistico: poiché in italiano, per convenzione, questo termine si riferisce in modo particolare al fine preparato di spezie risultante da questa specifica procedura, quando in realtà il termine appropriato per quest’ultimo sarebbe masala, ovvero un mix di spezie. Mentre kari, che in lingua Tamil significa “condimento”, dovrebbe indicare la pietanza propriamente detta, completa in ogni sua parte ed a base in genere di carne, pesce o verdure. Il masala della Nonna del Villaggio, ad ogni modo, è molto variegato: s’intravede facilmente il giallo ocra dell’haldi (curcuma) e un marrone più scuro dello zeera (cumino). Il bianco è semplicemente sale. C’è poi un rosso intenso, probabilmente polvere di peperoncino anche se alcuni ipotizzano sia proprio della paprika, aggiunta con estrema generosità al calderone. Ma mai quanto l’adrak-lehsun, impasto di zenzero ed aglio, del quale viene immesso un pugno intero, poi agevolmente mescolato con erbette locali, il resto delle spezie ed ovviamente, giunti al momento clou della sequenza, l’ingrediente principale degli ipertrofici crostacei fluviali, con chele, zampe e tutto il resto. Nel corso della lunga cottura dunque, che durerà fino alla sera, l’esperta cuoca continuerà a sorvegliare il suo capolavoro, aggiungendo di tanto in tanto un po’ dell’una o dell’altra sostanza citata. Che cosa la guiderà nel compiere questi speciali aggiustamenti? Lo sguardo, l’odore, il vasto ventaglio di esperienze a cui fare riferimento nel corso della sua lunga carriera di donna che nutre la famiglia? Una domanda, questa, a cui non è facile trovare una risposta. Nel finale della sequenza, in modo atipico per la serie, lei non viene mostrata mentre mangia assieme a dei convitati giunti per l’occasione, quanto piuttosto intenta a sgranocchiare l’ineccepibile curry di granchio in assoluta solitudine, sotto la luce della luna. Fino all’ultimo succulento pezzo di zampa.

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