Non è un’anfora gigante, stai pescando un siluro del Po

Rhone Catfish

In principio, nei fiumi dell’Europa Occidentale era la pace. Milioni di ciprinidi ed anguille, barbi, carpe e cavedani, ciascuno intento a fare la sua cosa. Fluttuando lievi tra le canne alla ricerca di cibo e compagna, riproducendosi in maniera equilibrata. Perché ogni qual volta la popolazione di un certa specie, malauguratamente, tendeva a superare il numero adeguato all’ecosistema, interveniva quel nostrano predatore, il grande luccio a becco d’anatra, giustiziere di ogni cosa con le pinne, ma anche rane, uccelli disattenti, l’occasionale gallinella d’acqua. Giacendo immoto sul fondale, come sua prerogativa, con i suoi 20-30, qualche volta fino a 40 Kg, il superpredatore di un ambiente relativamente benevolo, persino accomodante. E nulla sembrava in grado di cambiare un tale stato delle cose. Finché non prese a diffondersi a partire dal bacino del Danubio, passando per l’Austria e la Germania, un nuovo ospite indesiderato, paragonabile per forma, stazza e voracità, a creature come il coccodrillo o il famoso pescecane; col secondo dei quali, incidentalmente, condivide poi l’origine del nome di un amico delle nostre case. Perché se pure adesso è l’uso definirli dei “siluri”, un po’ per la forma affusolata, che ricorda l’arma rappresentativa del sottomarino, in parte anche per il senso di pericolo che suscita quel nome, i loro multipli barbigli attorno al muso hanno funzioni a vibrisse dei fondali, proprio in funzione dei quali, dopo tutto, gatto era e gatto rimarrà. Meow tutt’altro che amicabile, di quel tipo irsuto che se pure tende a stare sulle sue, poi torna sempre a far le fusa verso sera o la mattina dopo.
Il Silurus glanus (o per dirla all’inglese, il  Wels catfish) non ha peli, né scaglie o altra copertura del suo liscio e affusolato corpo, tranne un muco usato nella respirazione cutanea, utile inoltre a rendere la bestia maggiormente scivolosa sulla sabbia ruvida del fiume. E che bestia: uno di questi mostri, soprattutto se spostato in climi più caldi ed accoglienti, inizierà a nutrirsi e crescere a dismisura, raggiungendo l’età venerabile di 60, 70 anni. Alla fine, un singolo esemplare peserà facilmente oltre il quintale, mentre le vecchie leggende di Polonia ed Ucraina parlano di mostri da 200, 250 Kg, catturati da qualche eroe locale verso la fine del 1800. Ma persino oggi, in questi giorni ormai assuefatti alle più radicali e assurde fantasie, l’effettiva cattura di quello che viene comunemente definito un re del fiume occasionalmente fa notizia sui giornali, e da lì tende a diffondersi attraverso il regno digitalizzato del moderno web. In molti certamente ricorderanno il grande successo del febbraio scorso ad opera dei fratelli Dino e e Dario Ferrari, membri sponsorizzati del team Sportex, che facendo pesca di spinning nel fiume Po riuscirono a catturare un colosso da 127 Kg per due metri e 67 di lunghezza, giungendo addirittura a farsi intervistare a distanza dalla CNN. E benché sia raro che si riesca ad eguagliare, o addirittura superare tali cifre da capogiro, ogni tanto capita e recentemente (19 agosto – 113 Kg) è capitato, ad opera del pescatore di Cavriago dell’Emilia Romagna, Yuri Grisendi detto El Diablo, temporaneamente in trasferta sul fiume Rodano, nella Francia sud-occidentale. Grande pescatore internazionale, in merito al quale si usa dire, almeno stando al servizio di una Tv locale ri-pubblicato sulla sua pagina ufficiale di Facebook, che soltanto un patto col maligno può concedere il potere di riuscire a prendere dei simili  giganti, laddove molti erano già passati, senza accaparrarsi un alcunché di nulla. Ma pensate pure a questo: un pescatore d’acqua dolce, normalmente, non dispone delle lenze ad alta resistenza dei suoi colleghi marittimi, semplicemente perché gli capiterà soltanto una volta ogni 10 (ad essere davvero fortunati) di ritrovarsi all’improvviso a combattere con l’equivalente acquatico di un toro inferocito. Ciò significa in parole povere che, per prendere creature simili, ci si ritrova spesso ad impiegare un lungo filo certificato per meno della metà del loro peso, dovendo mollare due volte per ciascuna in cui si avvolge, scegliendo attentamente l’attimo più adatto per colpire. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se un tale animale viene messo ai vertici della pesca sportiva, e con lui tutti coloro che riescono a sfidarlo con successo comprovato.

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In corsa sulla spiaggia da cui nacque l’Auto del Domani

Daytona Beach

Gareggiavano nel 1952. Al volante di quei bolidi pesantemente modificati e tutt’altro che maneggevoli, sulle piste più improbabili del mondo. Erano folli, nonché fieri di esserlo, nonostante il modo in cui venivano guardati. Che l’automobilismo americano, come sport e modo d’interpretare il rombo dei motori, fosse nato ad Indianapolis, questo è largamente noto. Il vecchio campo dei mattoni, come ancora lo chiamavano da quando nel 1909 era stato portato a coronamento il cantiere, tagliando il nastro di quello che sarebbe rimasto per molti anni il principale circuito ovale delle monoposto, al punto che oggi negli Stati Uniti ancora chiamano quel tipo di gare “Formula Indy” in onore della tappa principale di ogni campionato: due rettilinei lunghi da un chilometro, quattro curve da 400 metri, intervallate da sezioni diritte di un altro paio di 200 metri, le cosiddette short chutes. E il popolo che si entusiasma, sugli spalti gremiti in grado di ospitare centinaia di migliaia di persone. Si girava non meno di 200 volte quel complesso, fino al raggiungimento delle celebri 500 miglia (circa 800 Km). Per un mondo patinato e splendido, fatto di cinegiornali appassionati, locandine dipinte a mano e in qualche modo affine agli albori della nostra Formula 1, che già nel 1950, sull’onda dei successi americani, volle inserire in calendario la prestigiosa gara americana, che tuttavia non venne disputata in quel contesto fino all’anno successivo.
Ma la controcultura, come sa bene chi conosce la storia del paese d’Oltreoceano, è un passaggio irrinunciabile di qualsivoglia mondo in grado di colpire il grande pubblico, lasciando un segno indelebile che è il seme di rinascite davvero inaspettate. Così avvenne, negli anni del proibizionismo dal 1920 al ’33, che i contrabbandieri di bevande alcoliche della regione degli Appalachi (stati del Nord-Est) prendessero a scappare in corsa dalla polizia, con auto di serie ma piccole e leggere, a cui erano stati apportati dei significativi miglioramenti negli ambiti della velocità e capacità di carico. Al termine di quel lungo e travagliato periodo, dicono le cronache, se ne andarono tutti giù al Sud, dove parcheggiarono le auto, ma soltanto per un breve tempo. Pare infatti in quei luoghi più di qualsiasi altro, la gente amasse il whisky illegale, la cosiddetta moonshine, dal costo e contenuto alcolico ritenuti maggiormente vantaggiosi. Così, tra una corsa e l’altra, questi banditi intavolavano un gara. Perché? Per cementare lo spirito di corpo, probabilmente, per mantenersi alleati nei metodi utili a combattere The Man, l’amato-odiato stato delle cose. Il fatto forse maggiormente significativo a margine del campionato oggi seguitissimo della formula NASCAR è proprio questo orgoglio nel farlo risalire a un mondo di assoluta illegalità, quasi che le gesta degli illeciti abbeveratòri, a distanza di tanto tempo, ancora possano incarnare quello spirito di ribellione che la gente ha perso, ma vorrebbe prima o poi conoscere di nuovo. È uno strano sincretismo di passioni. Che ebbe inizio, nella forma attuale, proprio sulle sabbie di quel luogo nella calda e accogliente Florida, presso una spiaggia che poteva farsi asfalto quasi pari a quello di Indianapolis, nella mente dei piloti e gli organizzatori.
29 marzo 1927: il maggiore Henry Segrave, a bordo della sua Sunbeam da 1000 cavalli, registra in questo luogo il nuovo record di velocità su ruote. “Appena” 327 Km/h, sufficienti a dimostrare che anche l’America, come il Belgio e la Francia, disponeva di un luogo ideale a correre in velocità, senza dover pagare le costose tariffe di noleggio di una pista vera. Un paio di anni dopo, con il sopraggiungere delle prime avvisaglie della grande depressione, proprio qui si trasferisce il meccanico William France, un visionario proveniente dalla capitale di Washington D.C. Che conosceva bene il mondo delle corse e dei record, ma soprattutto aveva in mente un sogno, il passo e il segno di un’idea che avrebbe modificato in modo significativo la storia dei motori degli Stati Uniti: fu infatti proprio lui, il primo a pensare che la gente si sarebbe appassionata ad una gara di stock cars, ovvero le auto, per così dire (wink; wink) “di serie”.

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Non puoi fermare la valanga dei ciclisti alpini

Megavalanche

Se c’è un insegnamento che si può trarre dall’Internet odierna delle telecamerine antiurto per sportivi, è che non esiste un contesto eccessivamente pericoloso, o un’impresa troppo inaccessibile, perché qualcuno, da qualche parte, per una ragione più o meno comprensibile, non l’abbia già affrontata e pubblicata su YouTube. Per questo, ora più che mai, il rischio va istituzionalizzato. È del tutto insufficiente, allo stato attuale delle cose, poter dire “io” ho fatto questo, per la semplice ragione che (quasi) tutto è stato già tentato, con gli alterni risultati di un successo clamoroso, oppure la mera e semplice sopravvivenza. Che in determinate circostanze, non è nulla di cui essere delusi. Vedi l’incredibile esperienza, qui offertaci nelle sue prime battute dal generoso casco del ciclista neozelandese Jamie Nicoll, di circa 300 atleti corazzati, con maschera integrale e protezioni degne del più brutale motocross, lanciati a velocità che sfiorano i 70 giù da un ripido ghiacciaio e in mezzo a rocce frastagliate. Non è certo l’ultima novità, questa folle, folle gara del Megavalanche (mega+avalanche, valanga) che anzi ha raggiunto proprio con quest’edizione del 2015 i suoi primi 20 anni d’esistenza, tra gli allori del pubblico specializzato e la quasi totale ignoranza di quello generalista. Avete voi sentito parlare, sui giornali ed in tv, del coraggio, dell’abilità e della preparazione fisica che ci vogliono per sfidare annualmente la cima da 3300 metri del Pic Blanc, in prossimità della cittadina francese di Alpe d’Huez? Fra un servizio sul caldo e un altro sulla crisi, entrambi argomenti egualmente rilevanti ma di certo assai battuti, qualsiasi giornalista potrebbe mai trovare il tempo di descrivere una corsa come questa… Ma forse, dopo tutto, è meglio così. La semplice esistenza di un evento sportivo simile, che certamente non ha la sicurezza individuale come cardine dell’organizzazione, è resa possibile dalla diffusa indifferenza, dal mito nebuloso del passaparola che rimbalza negli ambienti di settore, mentre noi mille potenziali spettatori, tra cui i critici per partito preso, non possiamo far altro che accontentarci di qualche spezzone sconvolgente.
La maggior parte delle volte lo spettacolo del ciclismo di massa è un qualche cosa di attentamente delineato, a partire da tracciati composti dal giusto susseguirsi di salite, ampi rettilinei, curve da affrontare con la giusta traiettoria. Non sembra semplicemente possibile, in condizioni consuete, far competere i grandi numeri dei suoi partecipanti senza spazi sufficientemente ampi da evitare gli incidenti di percorso. Mentre per l’intero percorso di 30 Km di questa corsa dal tragitto sempre grosso modo invariato, nel corso dei quali si affronta un dislivello di oltre 2.000 metri, tutto sembra lecito, qualunque gesto consentito. L’atmosfera può essere già chiara dal tradizionale rito d’apertura, risalente agli anni ’90 degli albori della gara. Gli atleti che si sono qualificati per il gruppo principale, posizionati sulla cima i quella che è nei fatti una delle più lunghe piste sciistiche con bandiera nera d’Europa, vengono preparati alla battaglia da un’intero repertorio di musica techno e rock selvaggio degli anni ’90, fino al culmine del brano più famoso della band pseudo-satanica tedesca dei 666, dal titolo di Alarma (1997) al termine del quale, come da prassi, ci si posiziona in attesa trepidante del segnale di partenza. La Megavalanche potrebbe essere definita, nelle parole del partecipante all’ultima edizione Michael Hayward, come una grande livella, che terrorizza nello stesso modo l’ultimo arrivato, come il più abile e consumato dei professionisti. Questo innanzi tutto per la chiara difficoltà del suo tracciato, ma anche e sopratutto per una problematica più specifica dell’occasione: ovvero, parti primo, arrivi primo. Oppure sarai calpestato dall’ondata dei colleghi senza freni, inibitori o d’altro tipo.

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L’effetto del pallone che fa muovere le navi

Magnus Effect

Vieni, dunque, sulla cima della diga Gordon in Tasmania fino a 126,5 metri da terra, con lo scopo di raggiungere una meta totalmente senza precedenti. Essere il primo uomo, donna o bambino, ad aver scagliato con estrema sicurezza il proprio pallone da basket da una simile altitudine, con lo scopo non del tutto ragionevole di fare centro in un canestro davvero lontano. Però sappi questo: che la scienza, nonostante il senso del tuo gioco e forse proprio in conseguenza di una simile arroganza, già si appresta a fare centro in mezzo alle tue orecchie, che sarebbe come a dire, resta pronto alla rivelazione. Di un oggetto sferoidale, come quello, che cade, cade, trasportato via dal vento. Eppure finisce sempre grossomodo nello stesso punto, fino a che…Si. Esattamente come dimostrato dai ragazzi del collettivo How Ridiculous, detentori a partire dallo scorso 14 giugno del bizzarro record in questione, ad un certo punto ti viene in mente d’imprimere una rotazione perpendicolare al suolo a questo semplice attrezzo sportivo, vedendolo scappare quindi verso l’orizzonte, rimbalzando quattro volte nel bacino sottostante. Incredibile! Pensaci, non è inaudito: il calciatore che vuole ingannare il portiere della squadra avversaria, cosa mai potrebbe fare, se non colpire la sfera con la punta ben piazzata su di un lato, costringendola a ruotare su se stessa…E se ciò avviene in senso orario, la traiettoria del tiro è destinata a dirigersi verso destra. Come chiaramente, si verifica il contrario se vai contro l’orologio. Ma sai dare un nome, a tutto questo? Voglio dire, a parte “palla curva”. Soltanto uno scienziato, a conti fatti poteva risolvere il problema.
È un’immagine così dannatamente facile da sottovalutare: Isaac Newton che giace, appoggiandosi con la sua schiena al tronco di quell’albero fatale della tenuta di Woolsthorpe. La mela ormai matura che oscilla lievemente a causa del soffio del vento, quindi si piega da una parte, d’improvviso, e cade. Di certo, un uomo intuitivo e geniale non può aver intuito l’esistenza della gravità “soltanto” da una simile, insignificante facezia? Chissà quanti esperimenti, allestiti in condizioni diurne come a luce di candela, condotti tra le alte mura dell’Università di Cambridge oppure via, lontano dallo sguardo dei colleghi potenzialmente invidiosi, doveva aver condotto fino a quel momento! Con quali astrusi calcoli, ormai persi al mondo e frutto della controversa analisi matematica, teoricamente ancora non “inventata” dal tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, doveva aver incolonnato per comprendere la verità…Fatto sta che l’attrazione di ogni astro dell’allora recente visione copernicana, assieme a numerose altre norme ormai acclarate di fisica, astronomia e dinamica dei corpi in movimento, fu alla base della sua prima grande pubblicazione in tre libri, i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687) come pure che, a partire da quel giorno, ogni qualvolta gli venisse posta la domanda, il professore e filosofo di larga fama (secondo alcuni, il primo vero scienziato della storia) era solito rispondere con una sorta di monologo, riportato ad esempio in un manoscritto del collega William Stukeley nel 1752: “Perché la mela cade verso il suolo e non fluttua, invece, verso l’alto? Dev’esserci qualcosa che la attrae. E la somma di tutte le forze generate dalla Terra deve in qualche maniera convergere nel centro del pianeta, altrimenti il frutto cadrebbe di lato, niente affatto perpendicolarmente. Inoltre, tale impulso deve essere proporzionato alla materia. In quanto se la Terra attrae una mela, mio interlocutore, stai sicuro anche di questo: anche la mela, a sua volta, attrae la Terra.” Eureka! Questa è forse la ragione di ogni cosa, a ben pensarci. Terza legge della dinamica, dal primo libro dei Principia: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.” Ecco qui un assioma quasi filosofico, che può trovare applicazione in campi umanistici come la psicologia, la sociologia, l’economia. Ma che soprattutto si ritrovò riconfermato, ad ogni osservazione successiva delle cose naturali. Inclusa quella, risalente a quasi due secoli dopo (1852) del polimata dell’Università di Berlino, esimio Dr. Heinrich Gustav Magnus, colui che ebbe l’occasione di mettere nero su bianco per primo uno studio della ragione per cui, fin dall’alba dei tempi, tutti i palloni tendono a volare. A margine del quale dato, come spesso capita, qualcuno è pronto a giurare che in effetti proprio il solito Newton questa cosa l’avesse già notata, citando a più riprese “Il moto della palla sui campi da tennis a Cambridge”. Esiste dunque qualsivoglia cosa, che fosse al di là della gravitazione di quell’uomo dalla splendida parrucca bianca?

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