Pleco, il pesce corazzato che minaccia l’ecosistema americano

Ombre oscure che si aggirano al di sotto delle increspature, nei fiumi, laghi e altri luoghi acquatici d’Europa, i pesci siluro costituiscono un problema anche troppo noto della globalizzazione biologica, importati originariamente dai paesi del Mar Baltico a scopo sportivo ed oggi diffusi a macchia d’olio, con conseguenze spesso deleterie sulle ampie nicchie biologiche monopolizzate dalla loro imprevista apparizione. Il problema del loro intero ordine di esseri viventi, comunemente detto dei pesci gatto, è la straordinaria capacità di adattamento che li caratterizza: nonostante le dimensioni imponenti, grazie alla capacità di respirare direttamente l’aria atmosferica, di nutrirsi di scorie ed avanzi di qualsiasi tipo e la resistenza notevole all’inquinamento, non c’è quasi nulla che possa fermare la loro proliferazione. Neppure la cattura da parte dei pescatori stessi, dato il sapore notoriamente orribile delle loro carni. È il tipico dilemma dell’uomo che influenza involontariamente il delicato meccanismo della catena alimentare, ritrovandosi improvvisamente privo d’idee sul come ritornare allo stato di grazia originario.
Quello che non molti sanno, tuttavia, è che dall’altro lato dell’Atlantico, dove simili creature non ebbero mai modo di affermarsi, un altro membro dello stesso ordine sta gettando scompiglio nell’intera parte meridionale degli Stati Uniti, dal Texas alla Florida, comparendo all’improvviso e dando sfogo alla sua notevole capacità di proliferazione. Pleco per gli amici, o più formalmente Hypostomus plecostomus, assomiglia alla nostra versione dell’invasore pinnuto più o meno quanto ciò può essere detto di una volpe siberiana, rispetto ad una iena o un licaone africano. Lungo al massimo 50 cm, laddove il Silurus glanis può raggiungere anche i tre metri e 250 Kg di peso, questo spazzino naturale originario del Sudamerica si è guadagnato il soprannome di “pesce ventosa” per la bocca rivolta verso il basso, che gli permette di aderire saldamente a qualsiasi superficie ragionevolmente uniforme, espediente usato dall’inefficace nuotatore per sfuggire al trascinamento da parte della corrente dei fiumi. Ma ciò che colpisce maggiormente la fantasia, rendendolo concettualmente simile a un qualche tipo di creatura preistorica, è il suo strato dorsale di “scuti” (placche dermiche coriacee e resistenti) da cui deriva lo stesso nome famigliare dei Loricariidae, con un riferimento alla lorica dei legionari romani. Il che costituisce un punto di distinzione altamente rilevante, visto come tutti gli appartenenti a questa genìa, diversamente dalla maggior parte dei pesci d’acqua dolce o salata, non possiedono alcun tipo di scaglia o aculeo, il che potrebbe rendere gli esemplari più piccoli, quanto meno, potenzialmente vulnerabili all’attacco da parte dei predatori nativi. Mentre l’esperienza c’insegna, come ampiamente dimostrato da una lunga serie di video online, che nelle vie idriche del settentrione americano non esiste assolutamente nulla che possa contrastare la sempre maggiore presenza di questi soldati onnivori e voraci, capaci di rimuovere completamente un intero sostrato di alghe all’interno di un lago, per poi scavare i loro nidi in prossimità delle rive, aumentando drammaticamente l’erosione e rovinando completamente l’equilibrio pre-esistente del paesaggio ripariale. E tutto a causa della momentanea disattenzione o disinteresse da parte di qualcuno..

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Il pesce che credeva di aver messo i piccoli nel luogo più sicuro

Gli antichi laghi africani, profondi e incontaminati, rappresentano un’occasione eccezionale per osservare le dinamiche evolutive di numerose specie sulla base delle caratteristiche del loro habitat, sia questo di tipo roccioso, abissale, pelagico o situato in prossimità delle rive rocciose. Victoria, Malawi e Tanganica non sono che tre nomi distinti, corrispondenti ad altrettanti vasti ammassi d’acqua dove prosperano, rispettivamente: ciclidi, ciclidi e ciclidi. La sterminata famiglia di vertebrati, estremamente varia ed adattabile, il cui sistema di sopravvivenza presuppone l’intera gamma di soluzioni alimentari, di autodifesa e riproduzione possibili tra le creature dotate di tre pinne e una coda. Ma c’è un approccio in particolare alla tutela genitoriale, comune a specie non direttamente interconnesse e addirittura alcune tipologie di rane, che sembra ricorrere tra le schiere di questo speciale ramo dell’evoluzione: l’incubazione orale. È un metodo privo di vulnerabilità evidenti: le madri o i padri (nel caso del primo continente, soprattutto le prime) che si avvicinano alle uova appena deposte, quindi spalancando l’apertura frontale che dovrebbe convenzionalmente consentire loro di nutrirsi, le risucchiano diligentemente l’una dopo l’altra per tenerle fuori dalla portata dei predatori. Si crede che i pesci dalle dimensioni ridotte non siano particolarmente intelligenti, ma detto questo il loro istinto materno deve essere davvero straordinario. Altrimenti, come sarebbe possibile giustificare il digiuno totale di 15-20 giorni successivo a un simile fondamentale momento, da cui il pesce esce generalmente indebolito fin quasi allo stremo? Portata a termine una simile ordalìa, quindi, la vicenda non è affatto giunta alla sua risoluzione finale. Entrando, piuttosto, nel suo momento più notevole a vedersi: molte specie di ciclidi, tra cui questo Tyrannochromis macrostoma dalla livrea striata (anche detto big-mouth hap) perseverano nell’importante mansione anche dopo la schiusa, continuando ad agire come baluardo per i piccoli appena nati, che resteranno vicino alla madre fino al raggiungimento della più totale indipendenza. Esiste una serie di segnali, configurati su particolari movimenti a scatti o certi modi di nuotare, che lei può inviare quindi all’avvicinamento di una creatura ritenuta pericolosa. Alla ricezione dei quali, senza un attimo di esitazione, i pesciolini tornano rapidamente al luogo da cui sono venuti, ovvero l’interno della sua cavità orale.
Questo sistema per garantirsi un seguito generazionale costituisce un tratto di distinzione molto importante per un pesce appartenente a una simile nicchia ecologica, dove la convenzione prevede come salvaguardia della prole il più semplice approccio di produrre una grande quantità di figli, perché almeno “qualcuno sopravviverà”. Portando l’intero insieme di pesci possessori di quel segreto nello stesso spazio concettuale dei mammiferi di terra, all’estremo opposto dello spettro dinamico riproduttivo. Pensate che in alcune specie i figli possono addirittura nutrirsi di un muco che viene emesso appositamente dalla loro guardiana e genitrice, nell’attività più simile all’allattamento che abbia modo di verificarsi tra i pesci. Il che accresce le probabilità di sopravvivenza, con un inerente vantaggio: le femmine costrette ad impiegare una quantità minore di risorse al momento della riproduzione per le poche decine di piccoli, sono pronte quasi subito ad accoppiarsi di nuovo. Benché debbano necessariamente attendere la loro maturazione e il raggiungimento dell’indipendenza, che in questo modo diventa il fattore di limitazione temporale principale. In un singolo caso, quello della specie dell’Africa Occidentale Sarotherodon melanotheron, sono addirittura i maschi ad incubare e proteggere i piccoli, lasciando le femmine libere di accoppiarsi con più partner, mentre ciascuno di essi resta impegnato a proteggere il prodotto del loro incontro. Il che viene definito dalla biologia come il fenomeno, estremamente raro in natura, della poliginandria (sia maschi che femmine cambiano partner più volte nel corso di una singola stagione riproduttiva).
Ma sono i ciclidi monogami e solitari, con la loro solenne fedeltà al compito, di un sesso che tutto sembra tranne che debole, a colpire maggiormente la fantasia dei documentaristi, che amano dedicare lunghi segmenti alla loro vicenda individuale e la maniera in cui sembrano sacrificare ogni cosa, pur di proteggere quello a cui tengono più di ogni altra cosa. Con un successo… QUASI totale. Già perché se il nostro mondo di superficie può apparire talvolta crudele, esso è praticamente un paradiso, rispetto agli abissi di perversione e malvagità raggiungibili dalle creature che agiscono sott’acqua, nascoste allo sguardo e ai sentimenti di coloro che avrebbero la mansione di giudicare. E se vi dicessi che per i poveri ciclidi nessun luogo, neppure la bocca della propria madre, è sicuro?

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L’irrazionale paura del pesce che penetra nei genitali

L’esperienza soggettiva di chi visita le vaste foreste brasiliane può rappresentare un momento piacevole, ma anche il giorno in cui ci s’inoltra nelle più oscure profondità del terrore umano. Il superamento di un confine, più ancestrale che turistico, tra la ragionevolezza di una natura per lo più indifferente alle sue espressioni più ostili e sinistre dell’esistenza su questa pianeta. “Fate attenzione ai caimani” affermano le guide turistiche. “Fate attenzione a non attirare i giaguari.” Oppure: “Fate attenzione agli artigli dell’aquila arpia” e più in generale: “Fate. Sempre. Attenzione.” E poi c’è una nota a margine del testo, inclusa quasi come un ripensamento, che recita grosso modo: “Ricordate sempre di non fare il bagno nel fiume senza indossare un costume o la biancheria intima.” Sottinteso: oppure potreste subire terribili conseguenze. Curioso. Il modo in cui, intendo, di tanti pericoli chiari sia quello meno apparente e definito a colpire maggiormente la fantasia delle persone, lasciando un senso latente di terrore che difficilmente può essere allontanato dalla memoria. Al pesce candirù, presunto invasore dei genitali a quanto pare soprattutto maschili, sono stati dedicati interi episodi di Grey’s Anatomy, River Monsters ed Horror Stories della BBC; esso viene citato, inoltre, in almeno due romanzi come una delle cose peggiori che possano capitarti: Il pasto nudo di William S. Burroughs e Fight Club di Chuck Palahniuk. In ciascuna di queste iterazioni, l’aneddoto è per lo più concorde (benché talvolta, venga dato per scontato.) Un uomo, possibilmente appartenente ai popoli nativi sudamericani, entra nel corso d’acqua per urinare, immergendosi all’incirca fino all’altezza delle sue cosce. Mentre esegue l’operazione, quindi, avverte all’improvviso un dolore lancinante localizzato nella parte frontale pene: a quel punto, è già troppo tardi. Un minuscolo pesce semi-trasparente di circa 3-5 cm ha percepito il calore emesso dal corpo umano, dirigendosi come un missile a ricerca verso l’appendice carnosa. Quindi raggiunto il getto giallo paglierino, in qualche maniera è balzato, imitando un delfino, per centrare con precisione chirurgica il foro dell’uretra, dove si è immediatamente ancorato con apposite spine retroattive. E sarà ormai per l’appunto, soltanto un chirurgo, a poterlo rimuovere in tempo utile, pena l’avanzamento della suddetta creatura nello stretto pertugio, fino ai più profondi recessi dell’apparato riproduttivo. Dove l’ospite indesiderato, continua la tenebrosa leggenda, inizierà inesorabilmente a fagocitare quanto gli capita a tiro, causando terribili emorragie interne e quindi, la morte.
Che la cultura televisiva moderna abbia ripetuto e promosso su scala internazionale questa spaventosa quanto complessa evenienza, arrivando al punto di segnalarla come “rischio noto” ai visitatori della regione, la dice molto lunga sulla maniera in cui funzioni l’appeal di determinati programmi e la radice stessa del loro successo. Il fatto che questa storia, d’altra parte, trovi il suo primo studioso occidentale già nel 1829, nella persona del botanico-esploratore tedesco C. F. P. von Martius, parla di un letterale universo d’incomprensioni linguistiche tra gli europei e gli indios, unito al possibile desiderio da parte di questi ultimi di spaventare lo straniero, onde allontanarlo dal proprio villaggio o potenzialmente,  prendersi gioco di lui. Dal punto di vista scientifico, il mostruoso candirù è un membro del genus Vandellia, appartenente alla famiglia dei piccoli pesci gatto noti come Trichomycteridae. Sono state identificate negli anni tre specie che potrebbero, ipoteticamente, corrispondere al nome comune dall’origine incerta, il V. beccarii, il sanguinea e il loro simile più comune, nonché potenziale colpevole, il V. cirrhosa. Prove di seconda mano della sua pericolosa propensione tendevano a includere, nei resoconti degli ultimi due secoli, l’osservazione di vari marchingegni o corazze indossate dai nativi per proteggersi i genitali, tra cui l’impiego di un semplice filo allo scopo di chiuderne totalmente il foro d’ingresso. Nel 1891 Paul Le Cointé, naturalista francese, raccontò di aver dovuto trattare una donna che aveva subito l’assalto del pesce nel canale della vagina. Nel suo racconto, sarebbe stato proprio lui ad estrarre la malefica creatura, voltandola con le dita e facendola uscire nel senso contrario alle spine. Questo singolo caso sarebbe rimasto l’unico di un attacco nei confronti di una signora, rincarando l’associazione inscindibile tra un simile essere e una delle più profonde e radicate paure maschili. Ulteriore testimonianza dell’esistenza di un simile pericolo, quindi, sarebbe giunta negli anni ’30 del ‘900, grazie alla testimonianza del Dr. Bach di Parà, il quale raccontava di aver dovuto trattare personalmente alcuni giovani a cui era stato amputato il pene, come rimedio d’emergenza a seguito dell’invasione da parte del famelico candirù, rivelatosi in quel caso resistente alla cura tradizionale del succo dell’albero di jagua (Genipa americana). Ma oggi si ritiene che una causa più probabile della loro condizione fosse stato, semplicemente, un attacco dei ben più familiari piranhas

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Il selvaggio rituale di pesca del popolo Dogon

Antogo ritual

Sono spesso le barriere, geografiche, artificiali o d’altro tipo, ciò che determina in massima parte la distinzione culturale tra i popoli, dando l’origine al concetto stesso di un’etnia che possa sopravvivere, ed evolversi, sulla base delle proprie usanze e tradizioni millenarie. E nessuno potrebbe mai negare, in un’analisi della gente del Mali, l’enorme divisione che caratterizza l’uomo e il territorio. Una fortezza naturale, un valico inavvicinabile, la solida parete contro cui appoggiare gli edifici dei villaggi e perché no, la propria schiena in cerca d’ombra: la massiccia falesia di Bandiagara, un dirupo lungo 200 Km che taglia letteralmente a metà, da sud verso nord-est, questi vasti territori dell’Africa Occidentale, occupati in massima parte dal grande deserto del Sahara. Ma dove persistono degli insediamenti umani, si sa, deve esserci dell’acqua. Anche se viene da lontano. Ed è tutt’altro che…Abbondante. Come un filo che discende, in pochi solchi naturalmente scavati nell’arenaria, dal grande fiume Niger in prossimità polle strategiche da usare per l’agricoltura e in rari casi, la pesca. Una pratica già messa in atto, con alta probabilità, dall’ancestrale gruppo etnico dei Tellem, affini alle popolazioni pigmee, che qui costruirono le proprie tombe in luoghi elevati dal terreno, per proteggerle dagli occasionali scrosci alluvionali, tutt’altro che ignoti, persino in questi luoghi tra i più secchi del pianeta. Ma furono gli eredi successivi di questa regione, migranti provenienti dall’Egitto di circa un migliaio di anni fa, che scacciati via i loro predecessori, che qui costruirono vaste comunità lontano da occhi indiscreti, rifiutando in massa la cultura di matrice araba proveniente dal Vicino Oriente.
E furono proprio loro, adottando uno stile di vita semplice ma ricco di complesse tradizioni ed antichi racconti, a trovare infine il metodo migliore di sfruttare una risorsa estremamente rara in questi luoghi, nonché preziosa, e tenuta in alta considerazione dai membri di ogni famiglia del popolo dei Dogon. Stiamo parlando, per intenderci, della gustosa carne dell’Oxydoras niger, una specie di pesce gatto locale, che agendo come spazzino sui fondali sabbiosi del fiume, viene ogni anno puntualmente trasportato a valle, nel corso delle piene che si sviluppano nella stagione umida, soltanto per andare incontro ad un improvvido destino. Perché succede allora, con l’avvicinarsi della primavera, che il complesso sistema di bacini idrici alla base della falesia di Bandiagara, puntualmente, inizi a prosciugarsi. Tale delicata situazione ecologica, in particolare, viene da sempre associata alla preziosa polla di quello che viene qui definito il lago Antobo, in prossimità del villaggio che ha il nome di Bamba. I cui anziani, da tempo immemore, sono incaricati di stabilire la data del rituale dello svuotamento, un giorno fatidico e fatale, generalmente fissato attorno alla metà di maggio, in cui tutti gli appartenenti al popolo Dogon, inclusi quelli onorari, vengono chiamati qui, rigorosamente armati con particolari ceste dalla funzione di nasse da pesca. Con la finalità di procurare le vivande per un glorioso banchetto annuale, il cui pari non esiste fra tutte le feste locali ed invero, dell’intera Africa Orientale. Questo sacro giorno, spesso fatto oggetto di studi e documentari da parte di divulgatori antropologici di molte nazionaltà, prende il nome di Antoku. E restain maniera particolare famoso, su Internet, il video realizzato dalla Tv inglese di stato BBC nel 2011, due anni dopo ripubblicato in versione più estesa in concomitanza con la messa in onda della nuova serie di documentari Human Planet, nel corso del quale si possono osservare le centinaia di persone, che giungono per l’occasione da tutte le comunità limitrofe fino ai confini più remoti del Mali, con mezzi furistrada a motore, con carretti, a dorso di cammelli o muli, per partecipare dell’esperienza di prendere i pesci dal lago. Tutti i pesci, fino all’ultimo, nessuno escluso.

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