Lo scavo di Serse che aprì una falsa rotta verso l’immortalità persiana

Se si legge davvero Erodoto, giungendo a interpretare le parole del padre della storiografia attraverso lo strumento della logica, non è impossibile la percezione di una prospettiva molto più pragmatica di quanto gli scienziati tendano ad attribuire a tali scritti. oggettivamente calibrati sulla base di un bisogno di veicolare sottotesti moralisti ed un messaggio per le generazioni future. Così per il conflitto alle Termopili, idealizzato nella narrativa culturale e folkloristica come il prototipo tra scontro di civiltà contrapposte, egli ci forniva un corollario, troppo spesso trascurato nelle rappresentazioni idealizzate dell’impresa di Re Leonida e i suoi Trecento. Proprio perché fastidiosamente utile a nutrire il dubbio che il Nemico, supremo governante del vasto ed assillante Oriente, fosse caratterizzato da uno spirito fattivo ed ingegnoso, lo stesso attribuito in modo stereotipico agli altri produttori di un valore nel Mondo Antico. Sto parlando, chiaramente, di Serse e della battaglia navale di Capo Artemisio (stesso anno di quel passo leggendario: 480 a.C.) e del percorso per cui tramite la flotta degli Achemenidi raggiunse il golfo Termaico, luogo dove avrebbe conosciuto la sua più acerrima ed irrimediabile sconfitta in parallelo alle forze di terra facenti parte dell’invasione. Nonostante una disparità di forze ancora una volta a vantaggio dell’invasore, per 1.207 scafi contro gli appena 271 della lega Pan-Ellenica, per di più costituite da vascelli più piccoli ma proprio in conseguenza di ciò, capaci di navigare molto agevolmente tra le forti correnti del Mar Egeo. Al punto che sarebbe stato lecito chiedersi come Serse fosse riuscito, esattamente, là dove suo padre Dario aveva fallito, nel doppiare uno dei tratti marini più pericolosi dell’intera regione balcanica, il primo dei tre capi costituenti il “tridente” della penisola Calcidica, sotto l’ombra del monte sacro di Athos. Un luogo costato, 12 anni prima, una buona parte delle 300 navi e 20.000 uomini al comando del generale persiano Mardonios, quando una raffica di vento improvviso li aveva portati ad impattare contro la scogliera, permettendo nelle parole di Erodoto stesso, alle bestie feroci “di portare via i viventi” volendo alludere molto probabilmente all’opera di grandi squali bianchi. Come convincere di nuovo la leadership militare sottoposta all’autorità del Re dei Re che la sola strada per la Grecia fosse nel contempo la migliore immaginabile, nell’interesse della maggior fama delle proprie genti e il fato manifesto che ne guidava le imprese? Così prosegue lo storico di Alicarnasso: scavando un canale capace di aggirare il problema.
Due chilometri di lunghezza per 30 metri di ampiezza, realizzati in un periodo di tre anni circa, facendone effettivamente una delle opere d’ingegneria militare più significative della propria Era. Al pari guarda caso del ponte di barche per attraversare l’Ellesponto per una lunghezza di 1.300 metri circa, anch’esso fatto edificare da Serse ed estensivamente descritto nelle Storie a qualche capitolo di distanza. Ma senza lo stesso problema fondamentale di credibilità immanente. Poiché se un grande canale attraversò per qualche tempo la Calcide, per quale assurda ragione non ve n’è la minima traccia residua? Indagini, in epoca moderna, avrebbero seguìto agli spunti d’analisi risultanti…

Il fatto del canale di Serse è che a differenza di molti altri segmenti della narrazione Erodotiana esso è menzionato con dovizia di particolari ed un inter credibile di realizzazione, senza per di più veicolare un messaggio moralizzatore particolarmente forte. Benché nelle Storie di menzioni brevemente di come la hubris (il problematico ed onnipresente orgoglio umano) avesse fatto tralasciare al Re nemico l’opportunità di far trasportare a braccia “semplicemente” le navi da una parte all’altra dell’istmo calcidico, appare chiaro come il pericolo del capo di Athos fosse significativo anche dal punto di vista greco, giustificando ampiamente la necessità di trovare una soluzione alternativa. E molte sono dunque le parole spese per lodare l’ingegno dei genieri persiani, guidati dal nobile Artakaies dalla “voce possente ed ancor più alta statura” che imposero agli schiavi conquistati di scavare con pareti oblique, piuttosto che verticali, scongiurando in questo modo il rischio di frane. Fino alla profondità di 3 metri riempiti totalmente d’acqua, abbastanza da permettere il passaggio di una fila ordinata di triremi. Un’opera dunque importante ed almeno in linea di principio capace di attraversare in qualche forma le generazioni, tanto che già a partire dal XVIII secolo vennero fatti diversi tentativi, guidati tra gli altri dal francese M. Choiseul-Gouffier, l’inglese T. Spratt ed il tedesco A. Struck. Se non che ciascuno di essi discordava sull’effettiva posizione, lunghezza e profondità del canale. Tanto che l’opportunità di fare finalmente chiarezza non sarebbe giunta fino al 1991, grazie al coinvolgimento di un vasto team interdisciplinare composto da archeologi, topografi e geofisici greci ed inglesi, delle università di Atene e di Leeds. I quali dopo aver trovato chiare prove dell’intercorso trascinamento di antichi scafi sopra l’Istmo di Corinto (dove nel 1881 sarebbe stato per l’appunto costruito un moderno canale) si spostarono per fare lo stesso a ridosso del monte Athos. Finendo per scoprire, invece, la conferma lungamente ricercata del concetto di un canale persiano. Dopo i primi segni dello scavo rintracciati nella conformazione del suolo, si procedette quindi al carotaggio in nove punti diversi della penisola, confrontando la sabbia rossa situata all’odierna profondità di 20 metri. Che poteva costituire soltanto, in quel contesto, il fondamento solido di un’opera creata dall’uomo, quando l’intero livello del Mediterraneo era più basso, ed assieme ad esso la superficie della Grecia intera.

Giusto mentre i valorosi guerrieri addestrati al combattimento in una solida falange respingevano le orde indisciplinate degli Achemenidi nell’entroterra dell’Ellade, l’ultimo degli scafi costituenti la parte navale della spedizione stava lasciando il tragitto per lui disegnato da un sovrano che comprendeva, prima di ogni cosa, le esigenze logistiche necessarie a spostare grandi quantità di uomini da un luogo all’altro dei continenti. Un’impresa particolarmente difficile, allora come adesso, e nella quale molti altri condottieri fallirono. Offrendo spunti fiammeggianti per le penne di storiografi ben meno oggettivi, persino più lontani dalla scienza rispetto all’ispiratore di graphic novel supereroistiche e dozzine di film del genere peplum a venire. Eppur Maciste ed Ercole in persona non avrebbero potuto che vacillare, di fronte all’opera titanica di uno scavo come il canale persiano.
Dimostrando ancora una volta ed a beneficio di chi vede il sottotesto, che è l’ingegno dei singoli e non la loro forza, che può far muovere i popoli. Ed in ultima analisi l’attenzione alle questioni logiche di tattica ed approfondimento strategico, soprattutto in situazioni senza precedenti, che ne tratteggia il finale destino.

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