Una struttura moderna, situata non troppo lontano dal porto di Stoccolma, proprio lì dove l’intera storia ebbe il suo inizio, svolgimento ed epilogo a dir poco tragico ed inaspettato. Dal grosso capannone con il tetto inclinato, apprezzabile già a notevole distanza, si erge quindi l’intera alberatura di un veliero, di un’apprezzabile color rosso vermiglio. Anticipazione dell’oggetto più incredibile contenuto all’interno, un letterale “palazzo” di tre piani in legno, ricoperto di sculture policrome di imperatori, eroi, mostri mitologici e belve. Perché questo è il museo marittimo della Vasa, la più importante ed intatta nave mai ritrovata nelle fredde acque dei mari del Nord. Dopo essere rimasta sepolta in salamoia, per un lungo periodo di esattamente 333 anni.
Fin dalla loro prima implementazione a bordo di uno scafo navigante, i cannoni e le altre armi da fuoco ebbero un ruolo di primo piano nello svolgimento di ogni tipo d’ingaggio da parte delle marine militari di tutto il mondo. Ma in una maniera che riusciva a configurarsi, a partire dall’introduzione in Francia dei primi portelloni di fuoco sulle murate dei vascelli all’inizio del XVI secolo, come una modalità accessoria di soppressione del nemico, prima dell’atto principale che continuava ad essere ritenuto l’assalto fisico da parte di un equipaggio armato di tutto punto. Nient’altro che un’evoluzione, in altri termini, del concetto di conflitto marittimo anticamente teorizzato dallo stesso Giulio Cesare, che traeva giovamento, senza essere effettivamente portato alle sue estreme conseguenze, dall’impiego coordinato delle catapulte. Venne un giorno, tuttavia, in cui le cose apparivano destinate a cambiare e nessuno sembrò maggiormente attrezzato per rendersene conto che il re Gustavo II Adolfo di Svezia (dominio: 1594-1632) detto “il Grande” per aver ereditato, e saputo combattere con estrema perizia, tre guerre dal suo insigne padre e predecessore, con la Russia, la Danimarca e la Polonia. Sono questi gli anni della Stormaktstiden o “Era del Grande Potere” ovvero la graduale costruzione da parte di un piccolo paese nordico di quella che possiamo definire una delle più efficienti macchine da guerra marittime dell’Europa settentrionale. Ma a partire dal 1625, gli eventi sembravano aver preso una piega inappropriata: il naufragio accidentale di un’intero gruppo di navi nella baia di Riga, seguìta due anni dopo da una sonora sconfitta ad opera delle forze polacche nella battaglia di Oliwa, in cui andò persa anche l’ammiraglia svedese “Tigern” (Tigre), avevano convinto l’esperto sovrano e comandante militare che era venuto il momento di cambiare le cose, e farlo in un modo che avrebbe cementato la sua posizione dominante all’interno dello scenario bellico dell’Europa continentale.
L’idea era semplice, nonché rivoluzionaria: cambiare radicalmente il modo in cui le navi da guerra venivano costruite, massimizzando la quantità di cannoni a bordo che avrebbero potuto far fuoco nello stesso momento e contro lo stesso bersaglio, per mettere a segno l’attacco che prendeva il nome temibile di bordata. Non più indirizzata contro il nemico, quindi, con l’obiettivo di ammorbidirne le difese e il desiderio di resistenza, ma di affondare il suo battello in modo immediato e totalizzante. In altri termini distruggerlo, senza nessuna possibilità d’appello. Tale auspicabile eventualità ebbe dunque in breve tempo l’occasione di prendere una forma ed un nome, nel progetto della nuova nave ammiraglia Vasa (Fascina, da un elemento presente nello stemma araldico della casata di Svezia) commissionata al rinomato costruttore di Stoccolma Henrik Hybertsson. Personalità già dimostratosi capace di guadagnarsi il ragno di maestro, ed una fama abbastanza grande da potersi rifiutare nel 1625, una volta contattato dall’ammiraglio reale Klas Fleming, di dedicare tutta la sua attenzione alla costruzione di una nuova squadriglia di navi medio-piccole mirate a sostituire quelle perse nel naufragio di Riga. Cogliendo invece in modo entusiastico l’occasione, soltanto l’anno successivo, di curare la posa in opera di un nuovo galeone della lunghezza di 35 metri, che fosse in grado di affrontare in combattimento qualsiasi altro vascello della sua Era. Questo era il decreto del sovrano il quale andò ben oltre, nel caso presente, i limiti considerati ragionevoli del suo particolare campo esperenziale…
Gustavo Adolfo era infatti per formazione e conoscenze pregresse soprattutto un artigliere, ruolo nel quale si era calato al 100% al momento di attribuire il mandato per la costruzione della sua nuova Vasa. Il che avrebbe anche potuto portare a un risultato soddisfacente, se a guidarlo e moderare le sue richieste ci fosse stata un’intera squadra di progettisti, con l’autorità e il coraggio di tenere testa alle sue idee meno prudenti. Ma poiché come sappiamo, la monarchia di stampo medievale non fu mai conduttiva verso quel valido approccio per prendere le decisioni, la nave finì per essere progettata attorno ai suoi 64 cannoni, piuttosto che l’esatto contrario. 48 pezzi da 24 libbre, 8 da 3, due da 1 e sei mortai con traiettoria a parabola, per un totale che non era formalmente superiore a quello di altre navi da guerra costruite fino a quel fatidico momento. Né la nuova ammiraglia svedese risultava essere, dal punto di vista delle misure, la più grande nave che avesse fino a quel momento solcato i mari. Ma per caratterizzare la sua presunta invincibilità in battaglia poteva vantare una costruzione particolarmente precisa ed intercambiabile di tali pezzi da fuoco, finalizzata a garantirne l’impiego più efficace ed la migliore probabilità di colpire il bersaglio. Il re aveva inoltre richiesto esplicitamente a Henrik Hybertsson qualcosa di straordinariamente raro nella costruzione di navi e che fino a quel momento nessuno, con la possibile eccezione della francese Galion du Guise, era riuscito a implementare in un’imbarcazione da guerra: un secondo ponte di fuoco collocato esattamente sopra il primo, con una fila intera di portelli per i cannoni capace di massimizzare l’effetto di un ingaggio a distanza. La Vasa avrebbe dovuto costituire, in altri termini, la prima nave di linea della storia, capace di brandire la sua potenza di fuoco con una confidenza priva di precedenti, trasformandosi nel terrore imprescindibile di un centinaio di battaglie.
Avrete a questo punto notato l’uso del congiuntivo, per non parlare del titolo dell’articolo, giungendo ad immaginare un seguito diverso in questa insolita vicenda. Successivamente al completamento del progetto ed il suo varo nel porto di Stoccolma, fu infatti deciso che il galeone partisse per un primo viaggio inaugurale nel 10 agosto del 1628, per assumere la guida della flotta presso la stazione di Alvsnabben, dirigendosi successivamente a largo della Polonia. Il re si trovava in quel momento a comandare l’esercito al fronte, mentre lo stesso costruttore della nave era, (forse, per sua fortuna?) recentemente già deceduto. Avviandosi dai cantieri di Skeppsgarden, l’impressionante ed ornato vascello superò quindi l’isola di Gamla Stan, per poi calare le vele virando verso est nell’area in cui la sua navigazione l’aveva portato in mare aperto. E fu allora che, sotto lo sguardo affascinato di molte centinaia di curiosi accorsi da tutta Stoccolma, la nave iniziò lentamente ad inclinarsi. A causa della linea di galleggiamento troppo bassa e la sua eccessiva instabilità verticale, infatti, copiose quantità d’acqua avevano iniziato ad entrare dai portelloni delle bocche di fuoco inferiori. Con l’ineluttabile progressione degli eventi, la nave giunse a un punto critico e lo superò senza possibilità d’appello. E fu così, che iniziò inesorabilmente ad affondare.
Il naufragio della Vasa, costato tra l’altro la vita a 30 membri dell’equipaggio (ma non il capitano Söfring Hansson) avrebbe avuto immediate ripercussioni politiche e diplomatiche, scatenando l’ira prevedibile del sovrano. Gustavo II, scrivendo un’incandescente lettera in cui attribuiva l’episodio all’imprudenza e l’incompetenza dei suoi sottoposti, pretese quindi che fosse costituita un’immediata commissione d’inchiesta, affinché un colpevole potesse ricevere la propria meritata punizione. Hansson, tuttavia, ci mise poco ad essere scagionato, potendo provare con la testimonianza dell’equipaggio che tutti i cannoni erano stati assicurati, le procedure seguite e nessuno a bordo fosse inebriato dai fumi dell’alcol. Il fatto stesso che la nave era stata costruita in maniera troppo alta e stretta, risultando perciò eccessivamente instabile, fu decisamente più difficile da attribuire a una specifica figura, visto come il capo del progetto fosse nel frattempo deceduto, mentre tutti gli altri avevano seguito i parametri dettati dallo stesso sovrano. Così questo clamoroso fallimento, con un colpo di scena pari forse soltanto al suo stesso verificarsi, sarebbe rimasto totalmente impunito, costando un significativo ritardo all’adozione su scala europea dei concetti originariamente teorizzati dal re artigliere ed esperto di tecnologia militare… Ma non di navigazione.
I tentativi di recupero della Vasa iniziarono particolarmente presto. Questo perché all’epoca un vascello in legno veniva usato per un massimo di 15-30 anni, mentre le sue bocche da fuoco in bronzo tendevano a venire spostato nei diretti eredi, continuando a sperimentare un’impiego operativo per oltre un secolo di storia. Soltanto tre giorni dopo il disastro, l’ingegnere inglese Ian Bulmer ebbe modo di proporre un sistema consistente nell’impiego di galleggianti riempiti temporaneamente d’acqua, che sarebbero stati riportati a galla mediante l’impiego di pompe, trascinando auspicabilmente con se il relitto del grande e prezioso galeone. Ma il progetto fallì miseramente, causa la maniera in cui la nave era riuscita ad incastrarsi nella sabbia del fondale, portando alla scelta più semplice di ripescare soltanto i cannoni mediante l’impiego di campane da immersione, operazione destinata ad essere portata a termine già nel 1665. Mentre per quanto riguardava lo scafo stesso, giudicato ormai inutile, non ci volle molto perché tutti ne dimenticassero frettolosamente l’esistenza.
Passati gli oltre tre secoli d’ordinanza, tuttavia, negli anni ’50 del Novecento l’archeologo Anders Franzén teorizzò l’opportunità di una nuova iniziativa di recupero dei relitti all’interno di questo specifico tratto di mare, causa l’assenza a queste latitudini del terribile verme xilofago Teredo Navalis, già distruttore d’innumerevoli reperti marittimi della storia dell’uomo. E fu così che, tra l’agosto ed il settembre del 1959, la Vasa venne laboriosamente riportata a galla, dando inizio ad uno dei più complicati e duraturi progetti di restauro che siano mai stati intrapresi nel suo paese, tutt’ora in corso sotto molti dei punti di vista rilevanti. La nave, a cui non venne inizialmente permesso d’asciugarsi, venne totalmente ricoperta di una resina protettiva, mentre esperti di tutto il mondo collaborarono per consolidarne la struttura. Con la massima cautela, quindi, il reperto inestimabile venne trasportato fino al museo che ne porta il nome, non molto lontano dal punto di naufragio e dove si trova tutt’ora, come una delle attrazioni turistiche più apprezzate della città di Stoccolma. Coadiuvata da una serie di diorami e pannelli sinottici esplicativi, il galeone costituisce ad oggi uno dei veicoli d’accesso maggiormente validi a quella che fu la vita marittima del XVII secolo, oltre che un monito dell’importanza dei margini ingegneristici di tolleranza, che all’epoca semplicemente non erano stati ancora inventati. Perché grande è il potere che deriva, in ogni tipo di circostanza, dalla voce imprescindibile di un sovrano. Ed altrettanto ponderosa risulta essere, o per lo meno dovrebbe esserlo, la responsabilità che deriva da quel ruolo. Soprattutto tra le spietate onde dell’altissimo mare.