Il castello della tigre tra le nubi di un Giappone dimenticato

Come nella leggenda del castello di Sunomata in merito alla capacità organizzativa del generale minore Toyotomi Hideyoshi, destinato a succedere al suo signore Oda Nobunaga come supremo sovrano del Giappone, in un giorno verso l’inizio del 1989 un’alta sagoma iniziò a profilarsi sopra il monte Kojo, nella prefettura di Hyōgo. Si trattava di un torrione, forse non costruito in una notte come la fortezza in legno alla confluenza dei fiumi Sai e Nagara, ma comunque in grado di prendere forma entro il giro di una singola settimana, potendo avvalersi di tecnologie moderne come il trasporto in elicottero dei materiali e l’instancabile contributo dei mezzi da cantiere. Il suo feudatario, almeno per qualche tempo, sarebbe stato uno soltanto: il grande produttore cinematografico e visionario Haruki Kadokawa, per tutto il tempo necessario alla realizzazione del film “Tra cielo e terra” (天と地と, Ten to Chi to) sull’epico conflitto dei due condottieri del XVI secolo, Takeda Shingen ed Uesugi Kenshin. La pellicola più costosa nella storia del Giappone fino a quel momento, destinata a resuscitare, almeno per qualche tempo, una location non del tutto priva di precedenti.
Poiché in questo ameno luogo, come testimoniato dalle fondamenta ed i terrazzamenti in pietra usati per sorreggere l’imponente scenografia, una poderosa fortezza ebbe effettivamente modo di sorgere, fin dal 1441 e fino agli anni successivi al 1600, quando gli sconvolgimenti nell’ordine politico nazionale successivi alla battaglia di Sekigahara portarono, indirettamente, alla sua demolizione. Il suo nome, per un mero caso di omofonia era effettivamente quello di Takeda-jyō (scritto come 竹田 e non 武田) ed essa aveva costituito, nel panorama dell’ultimo periodo dello shogunato di Muromachi, uno dei luoghi fortificati più imprendibili di tutto il Giappone. Avendo la funzione di agire come chiave di volta della difesa per il clan degli Yamana contro i loro nemici Akamatsu, nonché a protezione della strategica miniera d’argento di Ikuno, la più grande e redditizia di tutto il paese. Un ruolo niente meno che primario dunque, per questa fazione samurai dalle alterne fortune ma che avrebbe continuato a mantenere intatta la sua influenza fino al periodo della guerra Ōnin (1467-1477) quando il suo famoso condottiero Yamana Sōzen investì gran parte delle proprie risorse in un inconcludente conflitto con gli influenti Hosokawa, lasciando ai suoi il controllo dell’unica provincia di Inaba. Così che il castello di Takeda, nella sua posizione di preminenza rimasta priva di pretendenti, ebbe modo di passare di mano più volte…

Nel suo luogo almeno in apparenza irraggiungibile sopra il mare di nubi, Takeda-jyō non è particolarmente in alto, né integro o dotato di un formale fascino apparente. È più la coincidenza di fattori, a renderlo a suo modo memorabile tra le molte alternative coéve.

La definizione tecnica dal punto di vista architettonico di questo sito è quella di yamashiro (山城) o “forte di montagna” e pur non essendo tradizionalmente inserito nei cataloghi dei più influenti nella storia giapponese, semplicemente creati dopo il suo decadimento e forzato abbattimento delle mura, dalle cronache coéve, i resti osservabili ed il quadro storico di riferimento possiamo determinare le fondamentali caratteristiche, assolutamente in linea con quelle di fortezze maggiormente celebri quali Kasugayama, in Echigo o Kanonji nella regione di Omi. Costruito all’altezza di 353 metri sul livello del mare con 402 metri di lunghezza e 91 di larghezza, il castello aveva una caratteristica forma tripartita che donava alla sua pianta la forma approssimativa di una tigre addormentata è anche noto come Torafusu- jyō o Koga-jyō (別名虎臥城) una metafora che voleva alludere, chiaramente, alla sua presunta imprendibilità. Destinata a rimanere tale almeno fino al 1576, quando lo stesso Toyotomi Hideyoshi, diventato nel frattempo kanpaku o precettore imperiale (un eufemismo per “supremo condottiero militare”) infastidito dall’eccessiva indipendenza dei suoi proprietari Yamana diede l’ordine di attaccare il loro quartier generale ad Arikoyama e, così si narra anche in assenza di precise prove storiografiche, l’alta fortezza di Takeda. Indipendentemente dalla durata di tale assedio, ad ogni modo, il sito viene posto in seguito sotto il comando del suo fratellastro Hidenaga, che successivamente al proprio trasferimento nella provincia Yamato ne lascia la responsabilità al governatore Akamatsu Hirohide. Fu dunque proprio sotto l’egida di costui, ironicamente un erede degli ancestrali nemici degli Yamada, che il castello sarebbe andato incontro alla sua fine. Per il modo in cui, successivamente al decesso di Toyotomi, costui si fosse alleato prima di Sekigahara con la fazione di Ishida Mitsunari contrapposta al trionfatore Tokugawa Ieyasu. Una scelta che gli sarebbe costata l’ordine da parte del suo nuovo sovrano di attaccare il castello di Tottori, ed il successivo ordine di suicidarsi con il pretesto di aver causato un incendio nell’insediamento a ridosso delle sue mura. Così che per la severa legge del contrappasso militare, lo stesso Taeda-jyō sarebbe stato messo a ferro e fuoco, e successivamente demolito.

Il parallelismo con la città sacra degli Inca ha un’origine per lo più estetica, motivata dalla paragonabile presenza di alte mura in pietra seminascoste dalla foschia mattutina. Nonché la tradizione locale di affrontare la lunga escursione per raggiungerlo prima delle ore dell’alba, al fine di assistere alla nascita del sole da questo palcoscenico (quasi) privo di paragoni.

Il che avrebbe potuto anche costituire la fine della sua celebrità, se non fosse stato per un singolare fenomeno meteorologico. Caso vuole infatti che le residue piattaforme pietrose, da qualcuno paragonate ad una sorta di Machu Picchu dell’Asia Orientale, siano situate sopra la profonda valle del fiume Maruyama, punto dove s’incanala tutta l’umidità sospinta innanzi dalle correnti di bassa pressione del Mar della Cina. Il che tende a generare, con grande soddisfazione dei fotografi e produttori di cartoline locali, un effetto ottico in cui le rovine dell’antico luogo fortificato paiono sorgere direttamente fuori dal paesaggio, sospese al di sopra di un oceano candido ed evanescente che ricorda notoriamente il film d’animazione di Miyazaki, Laputa – il castello nel cielo (1986).
Diventata in questo modo celebre in funzione del passaparola su Internet, l’attrazione paesaggistica e storica di questa vetta sublime resta tuttavia subordinata alle molte, troppe altre mete celebre negli immediati dintorni, tra cui spicca l’imponente castello di Himeji, situato ad appena 55 Km più nord. Così trascurato dai turisti stranieri, esso è diventato popolare soprattutto tra i viaggiatori nazionali, che ne hanno fatto un portale verso luoghi ed epoche concettualmente distanti. Forse il più potente, proprio perché idoneo all’uso del potente strumento immaginifico, laddove la necessità di fare chiaro un singolo concetto portò alla sua pressoché totale demolizione. Senza potere recare offesa per davvero, d’altronde, a quel che fondamentalmente rappresentava.

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