Un certo tipo di proporzioni, una determinata serie di tratti distintivi. Costituiscono l’insieme del complesso di fattori estetici, complessivamente determinanti al fine di attribuire a una specifica creatura l’aggettivo di “carino”. Non splendente, né magnifica o gloriosa, termini che sono paradossalmente più generici nel proprio vasto ventaglio di applicazioni, bensì propriamente limitati ad un particolare tipo di bellezza, quella che deriva dal sembrare al tempo stesso inoffensivi ma zelanti, giovani ed inconsapevoli del continuo rinnovarsi dei giorni. Un processo attraverso il quale causa ed effetto si perpetuano, continuamente, sulla base dei bisogni espliciti della natura… Alla seppia non più lunga di 3 cm Euprymna scolopes non importa affatto, di suo conto, dell’apparente provenienza da un pratico disco volante atterrato direttamente dal mondo dei cartoni animati. Quando tutto quello che essa è, ovvero la sua pura essenza, costituisce il dono ereditario di un preciso corso evolutivo, mirato a massimizzare la percentuale di esemplari in grado di raggiungere l’età riproduttiva, preservando la continuità di una tanto distintiva e incomparabile creatura dai 10 arti operativi e i grandi occhi attenti che si voltano in qualsiasi direzione. Mentre cerca, molto attentamente, il profilarsi di potenziali prede di passaggio nel Pacifico Centrale, ovvero gamberetti, larve di pesce ed altri appartenenti al grande bioma sovrapposto del sostrato oceanico hawaiano, di cui è in grado di nutrirsi soprattutto nel profondo della notte del suo territorio, quando sorge dal profondo sonno diurno e inizia ad aggirarsi verso il pelo trasparente della superficie. Situazione d’importante vulnerabilità per tutti gli esseri pinnuti, alati oppure privi di uno scheletro come i molluschi, salvo l’utilizzo di efficaci contromisure di qualche tipo. Ed in questo, il cefalopode in questione appare particolarmente ben dotato, data l’efficacia di un particolare metodo di mimetismo che deriva dall’esatto opposto del senso comune. Poiché quando ci pensiamo al posto suo, nel profilarsi di una tale contingenza, l’ultimo pensiero che potremmo elaborare è: “Senz’altro passerei davvero inosservato, illuminandomi d’un tratto come un lampadario.” Ma la seppia, che è depositaria di un diverso tipo di saggezza, ben conosce l’essenziale verità. Di quale sia l’approccio più frequentemente utilizzato dai suoi predatori per scovarla e farne un sol boccone, tra cui foche monache, pesci lucertola e barracuda, ovvero l’individuazione di una sagoma più scura, che si staglia innanzi al tenue lucore del cielo notturno. Innanzi al quale non sarebbe forse meglio, presentarsi come la possibile scintilla di un astro distante? O magari perché no, persino la Luna stessa…
Ciò che ha reso maggiormente celebre questo minuscolo animale su Internet, tuttavia, resta il modo in cui si mimetizza al termine della sua caccia, consistente in una copertura di se stessa con la sabbia non dissimile da quella del famoso meme del 2011, “il ragno che non riusciva a seppellirsi“, previa applicazione di una certa competenza operativa tipica di un essere dotato di apparente ed innegabile intelligenza. Mentre si adagia lieve sulle particelle del fondale, prima d’iniziare a smuoverle mediante l’utilizzo delle 8 braccia totalmente ricoperte di ventose, affinché il corpo principale del mantello possa penetrare nel pertugio appena ricavato. E poco prima che nel gran finale, stranamente memorabile, i due tentacoli più lunghi (con organi di suzione soltanto all’estremità) effettuino il curioso gesto, di coprire gli occhi stessi della creaturina come se si stesse rimboccando la trapunta del suo giaciglio. Il tutto rigorosamente a “luce” spenta e mentre gli stessi cromatofori del minuto appartenente alla famiglia dei Sepiida, come di consueto, assumono tonalità mimetiche perfette per l’occasione. Il che ci porta ad un’analisi più approfondita dell’intera faccenda, fino all’acquisizione del presupposto in base al quale le due doti presentino in realtà un’origine assai diversa, essendo la seconda conseguente da un raro e distintivo tipo di simbiosi col batterio fluorescente Aliivibrio fischeri, piuttosto comune nel contesto sottomarino dove prospera questa genìa di tentacolari amici. Laddove assai meno scontata, risulta essere la stretta relazione posseduta da due categorie d’esseri tanto diversi, grazie al possesso da parte della seppia di uno speciale organo all’interno del mantello, nelle cui intercapedini il microrganismo viene accolto e fatto riprodurre, in un’ambiente ostile a qualsivoglia altro tentativo d’infezione. Questo grazie alla secrezione, da parte del padrone di casa, di un alogenuro perossidasi, sostanza chimica capace di annientare qualsivoglia tipologia di batteri. Fatta eccezione, caso vuole, per quelli dotati di luminescenza, che scientificamente appare collegata ad una propensione naturale a contrastare un tale tipo di evenienza. Tanto da permettere al minuto calamaro di attirare l’A. fischeri in quantità e con rapidità tali, da poterne lavare via ogni mattina oltre il 95% tramite il passaggio dell’acqua indotto dalle branchie, poco prima di mettersi a dormire, per poi averne un carico di nuovo pieno all’ora del suo “decollo”. Un passaggio che non sembra avere alcun effetto positivo sui batteri oggetto della simbiosi, benché appaia favorire quelli in grado di sopravvivere anche nella colonna acquatica stessa, grazie alla capacità natatoria fornita dal proprio flagello. Evviva la selezione naturale!
Per quanto concerne il processo riproduttivo, la seppia maschio inizia in genere l’incontro, provvedendo a fornire il proprio spermatoforo alla compagna, che produrrà le proprie uova in un periodo di 30-50 minuti, rigorosamente di notte. Per poi provvedere a deporle la mattina dopo, in una quantità che può raggiungere facilmente le 200 sepolte tra la sabbia, per andare a vivere tranquillamente il resto della sua breve vita. Difficilmente in grado di superare i 2-3 mesi allo stato brado.
Particolarmente apprezzata dai documentaristi e cercatori d’immagini provenienti dal mondo naturale, causa il suo aspetto totalmente privo di termini di paragone, la mini-seppia hawaiana si è trovata in epoca recente al centro di una nuova tipologia di ricerche. Avendo dimostrato, in una serie di studi scientifici, la complessità e importanza del suo stretto legame col mondo dei microrganismi, non dissimile da quello tra i grandi mammiferi (inclusi gli umani) e la loro flora batterica intestinale. Considerazione ai margini della quale, lo scorso autunno, la più recente missione di approvvigionamento alla Stazione Spaziale Internazionale da parte di Space X ne ha previsto l’invio di una certa quantità in provetta, assieme ad alcuni tardigradi o i cosiddetti orsetti d’acqua per altre iniziative scientifiche, al fine di mettere alla prova le loro capacità di stabilire il legame in una situazione d’assenza di peso. Per poter studiare i potenziali effetti a lungo termine della vita nello spazio, nei confronti di noi più imponenti, resistenti e difficilmente sostituibili esseri umani.
Benché vista l’attuale situazione geopolitica, e col serio rischio che l’ormai vetusta struttura orbitale soprattutto russo-americana possa andare incontro ad una fine prematura, è difficile immaginare che l’esperimento possa essere portato a termine secondo le modalità previste. Un altro tipo di problema, che proviene da una visione molto problematica dell’Universo. I cui conflitti, troppo spesso, sembrano provenire soltanto dalle regioni più remote della nostra mente. Il che non serve a renderli, d’altronde, in alcun modo meno dispendiosi. O letali.