Florilegio di luci che si affollano nel fiordo: un milione di meduse con la forma di un fungo

Creature tanto diverse dalle linee guida indicative conosciute dall’uomo, da potersi meritare a pieno titolo l’aggettivo “aliene” che non significa per forza extra-terrestre, bensì privo delle doti che comunemente servirebbero a identificare… Un terrestre. Tutto questo e molto altro, una volta tratte fuori dal contesto, finiscono per diventare le meduse, prive di occhi e di cervello, ma anche di radici o cellule pensate per trarre nutrimento dalla pura e semplice luce del Sole. Facendone per forza di cose dei veri e propri predatori, capaci di attraversare le distese subacquee trasportate dalle correnti oceaniche, lasciando dietro di se una letterale scia di morte e distruzione. Cobepodi. Krill. Ostracodi. Chetognati. Tutte forme di vita piccolissime, ma sottoposte ad un eccidio d’entità terrificante, mentre quotidianamente vengono agguantati da un lungo tentacolo, trasportati fino a quelli circostanti l’apertura boccale. E senza un minimo d’esitazione, inglobati in quello stomaco molte migliaia di volte più capiente del loro. Eppur potremmo scegliere di definire, persino nelle vaste moltitudini marine, precise graduatorie in merito a una simile faccenda, di cosa appaia degno a pieno titolo di tale planetario agnosticismo, inteso come una natura che parrebbe appartenere e Venere, Plutone o una qualche inospitale luna di Giove. E se così fosse davvero, non ci sono molti dubbi in merito: la Periphylla periphylla, o medusa elmetto/cappello di Babbo Natale, avrebbe il chiaro merito di venire tra i più alti membri di tale classifica creata dal pensiero umano. Essendo non a caso l’unica rappresentante del suo genere, come desumibile dal nome specifico ripetuto ripetuto per ben due volte.
Ogni anno, verso giugno-luglio, tende a succedere la stessa cosa; sebbene non si tenda a farci caso sempre per la stessa conseguenza tra causa ed effetto. Così talvolta è l’esperienza di un pescatore solitario, che ne scorge il rosso abito impigliato all’interno della propria rete. Qualche altra, appaiono degli esemplari morti sulle anguste spiagge, troppo lenti o incauti per tornare a nascondersi dalla luce diurna, per loro pari a una condanna senz’alcuna possibilità d’appello. E certe altre, semplicemente se ne nota la presenza, per il calo di numero del pescato, causa fagocitazione sistematica delle fondamentali larve fuoriuscite dalle uova di pesce. Siamo a Trondheimsfjord, tanto per fare un esempio, benché situazioni analoghe abbiano ragione di verificarsi lungo l’intera costa della Norvegia; e alquanto inaspettatamente, anche dentro varie insenature e luoghi dei distanti oceani meridionali, fino all’Antartide, luogo più gelido del nostro intero pianeta. Il che risulta tanto più incredibile, quando si considera come stiamo parlando di un tipo di creatura da circa 30 cm e 540 grammi di peso, che normalmente sopravvive solo a temperature situate tra i quattro e gli undici gradi celsius, con punte massime di venti sopra lo zero. Ma naturalmente, l’escursione termica tende a pesare in modo molto meno significativo quando si parla di esseri che vivono a una media di 2000-2500 metri sotto il livello del mare, benché tendano a concedersi regolari escursioni notturne fino alle acque maggiormente nutrienti (per il loro metodo di filtratura) che si trovano ad appena qualche decina di metri dai confini dell’aria. Il tutto, sempre premurandosi di fare la propria mossa tra l’alba ed il tramonto, a causa della già citata debolezza simile a quella di un troll o un vampiro. Un’avversione fotofobica che trova la sua unica ragione per il vermiglio pigmento che ne ricopre l’epidermide, chiamato porfirina, che tende a danneggiarsi non appena viene inibito dall’effetto della luce solare. Per un’insolita condizione chimica, che poteva appartenere solo a simili creature abissali, ulteriormente riconfermata dalla grande quantità di L-lattato deidrogenasi (LDH) all’interno del loro organismo, un’enzima incaricato di far funzionare il metabolismo nell’assenza pressoché totale di ossigeno. Una dote degna di essere chiamata niente meno che fondamentale, per riuscire a definire una creatura che potrebbe provenire da un’antica diaspora di mondi lontani…

Fluidità ed eleganza nell’esecuzione di quei passi, eredità surreale di un’epoca quanto mai difficile da definire. Poiché chi può datare il retaggio biologico di una creatura, quando è l’unica occupante del proprio alto ed isolato ramo dell’albero della vita?

Caratterizzata da un’aspetto vagamente riconducibile a quello di una campana, per la sostanziale esposizione dei suoi principali organi nella parte inferiore del cappello, la medusa Periphylla appare inoltre caratterizzata dalla presenza di 12 lunghi tentacoli fortemente bioluminescenti, così come risulta esserlo, in misura minore, l’involucro esterno del corpo centrale. Una caratteristica in realtà sufficiente a distinguerla dagli altri appartenenti alla classe degli Scyphozoa, così come la sua capacità di riprodursi senza passare per lo stadio intermedio di polipo, più o meno sessile, ovvero la forma sub-adulta delle meduse. Così che la femmina di questi funghi vermigli, una volta ottenuta la fecondazione delle sue uova, continua a custodirne svariate migliaia all’interno delle proprie gonadi per le prime fasi del loro sviluppo. Quindi una volta liberatele nella corrente, in una quantità in realtà inferiore, e dimensioni superiori a quelle di qualsiasi altra medusa della Terra, inizierà tranquillamente a dirigersi altrove, mentre le capsule assumeranno una forma piatta e larga; poco prima di schiudersi una volta che il contenuto nutritivo incorporato sia prossimo all’esaurimento, in un tripudio di minuscoli tentacoli, lasciando fuoriuscire delle copie in miniatura già ragionevolmente simili all’esemplare adulto. Le quali dovranno ad ogni modo attraversare una serie di ben otto fasi distinte, per lo sviluppo graduale e a tutti gli effetti della bocca, l’ombrello e gli arti necessari a diventare dei letterali, per quanto conturbanti cacciatori delle oscure profondità marine.
Nozioni stranamente approfondite, per un animale tanto irraggiungibile nel suo ambiente di provenienza, causa la notevole capacità di proliferazione ed ampiezza del proprio areale, in aggiunta alla tendenza già accennata ad invadere intere zone utili all’economia di superficie, andando ad inficiare la popolazione di membri maggiormente utili alla nostra personale interpretazione dell’ecologia alimentare. Benché non si conoscano le reali migrazioni di queste creature, fatta eccezione per quella in senso verticale del loro vivere quotidiano, necessaria all’acquisizione di una quantità opportuna di nutrimento. Effettuata con un’agilità e sveltezza alquanto insolita per questo intero phylum d’appartenenza, grazie alla presenza di una serie di muscoli piuttosto sviluppati sia all’interno dei tentacoli tenuti preferibilmente in posizione aborale (rivolta all’indietro) che nel “cappello” centrale, tali da poter effettuare un’ampia selezione di movimenti diagonali e longitudinali in relazione alla direzione di movimento. Per una velocità raggiungibile di fino a 10 cm al secondo, benché soltanto per brevi tratti, e nonostante il ritmo di trasferimento in senso verticale superi di rado i 2 cm al secondo. Un’operatività resa possibile e necessaria, per quanto abbiamo modo di desumere da studi condotti all’interno dell’Oceano Atlantico Settentrionale, proprio con il fine di sfuggire occasionalmente alla predazione da parte di pesci famelici come l’Alepocephalus bairdii o il Coryphaenoides rupestris, o ancora il gambero carnivoro Notostomus robustus. Mentre la bioluminescenza inerente della specie potrebbe risultare sufficiente, si ritiene, a scoraggiare la cattura da parte dell’anemone Isotealia antarctica ed altri simili nemici dei remoti mari del Sud.

Simili incontri durante il recupero di un’àncora navale, con creature che paiono fuoriuscite da un’occulta narrazione lovecraftiana, interessano a pieno titolo le regioni del cervello che hanno l’incarico di dare un senso alle nozioni spropositate. Sfuggendo, ineffabili, a un qualsivoglia tipo di contesto ragionevole pre-esistente.

Perciò esse insistentemente esistono, del tutto indifferenti alla presenza di distanti e inconsapevoli esseri di superficie. Che la stessa cosa potrebbero fare all’inverso, quando si considera la pressoché totale incapacità di queste meduse di arrecare danno ad un umano, causa l’assenza di alcun tipo di veleno clinicamente rilevante. Tutt’altra storia, nel frattempo, il significativo effetto avuto da tali presenze, in modo pressoché inevitabile, sulla congiunta biomassa dell’oceano brulicante, fondamento stesso di quella catena cui dobbiamo fare affidamento per riuscire a prosperare senza date di scadenza situate nell’immediato o prossimo futuro. Perché chi può dire, allo stato dei fatti attuale, cosa potrebbe succedere all’estrema proliferazione di una simile creatura, per l’effetto di fattori esterni come il mutamento climatico? Oppure, in alternativa, la sua completa e pur sempre possibile estinzione, con conseguente fuga da ogni tipo di controllo per quanto concerne le creature normalmente vittime dei loro tentacoli operosi…
Quando nel grande sistema della natura, ogni cosa ha una ragion d’essere e collocazione precisa. Anche, e soprattutto, quell’improbabile creatura che ad un tal punto ci appare ignota ed estraneo alle normali regole dell’esistenza. Ed alla fine non c’è alieno più grande, tra tutti, di colui o colei che ostinatamente scelga d’ignorare tale inconfutabile realtà.

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